Da molto tempo in Italia non c’è più uno Stato, nell’accezione giuridica e politica,  in grado di provvedere all’ordinato sviluppo della società e a regolamentare i conflitti.  Dopo la riforma del Titolo V della Costituzione e la spinta degenerativa della nazione con l’autonomia differenziata, beato chi è capace di trovare la parvenza dello Stato nelle istituzioni costituzionali. Peraltro i tre poteri sui quali dovrebbe reggere si sono dissolti nelle guerre fratricide che hanno ingaggiato. Sicché dire che lo Stato è il solo garante delle libertá concrete e dell’ordinato svolgersi della vita civile e sociale è quanto meno azzardato se non una falsificazione.

Quello che conta è il cosiddetto Deep State, lo Stato profondo, che non deve rispondere a nessuno e del quale i partiti politici sono i terminali

Lo Stato che abbiamo conosciuto è occupato  dalle forze politiche che non rispondono alle istanze del popolo e non hanno neppure ideali da coltivare e sostenere: basta leggere i giornali per rendersene  conto. Tali forze lo hanno devitalizzato, e pertanto non soltanto non può adempiere alla sua funzione principale, ma neppure porsi come autorità dirimente e prescrittiva. Basta vedere l’andamento dei lavori parlamentari, l’inadeguatezza dell’amministrazione giudiziaria, la litigiosità nelle coalizioni governative per ritenere che lo Stato non c’è più e quello che così chiamiamo ne  è una parodia.

In tempi di forsennato antistatalismo, si è ritenuto che altri organismi potessero “tutelare” la cosa pubblica: sono venuti fuori neo-feudalesimi, in primis le Regioni, poi i poteri economico-finanziari  in guerra permanente contro la res publica che hanno aggravato la situazione. E quello che era il presidio riconosciuto della socialità, tutore della sovranità degli organismi comunitari e della inviolabilità dei diritti della persona, è stato demolito con le ruspe dell’ideologia e del malaffare.

Certo, può anche accadere, come la storia c’insegna, che lo Stato, in una particolare fase storica della vita delle nazioni, esorbiti dai suoi compiti e si trasformi in una sorta di Leviatano onnipotente, assoluto, crudele. Ma questo non è più lo Stato al quale facciamo riferimento, manifestatosi nella forma della polis greca e della   Repubblica  romana. Ne è una tragica caricatura. Lo Stato senza popolo non esiste; la nazione senza Stato è un’arena dominata dal disordine permanente. E la libertà del popolo e della nazione non c’è altro soggetto che possa garantirla se non lo Stato.

Infatti, esso, come giustamente ha osservato Paul Kirchhoff nel suo libro Lo Stato: garante o nemico della libertà? (Nuove Idee), limita la tendenza autodistruttiva insita nelle società che nascono, invariabilmente, non da un ordine precostituito, ma da una guerra civile o, nella migliore delle ipotesi, da gruppi anarchici che si nutrono di diffidenza e fonda un accordo pacifico tra i cittadini. Che l’accordo sia di natura contrattuale non modifica la sostanza “spirituale” dello stesso: garantire la libertà, l’incolumità, la coesione degli associati, possibilmente in relazione ad una cultura condivisa, ad un sentimento comune di appartenenza, anche non originario, ma che si affina con il passare del tempo. Contestualmente gli organi dello Stato vengono limitati nel loro potere dalla stessa libertà, e non sembri un paradosso, poiché essa è il principio dell’ordine naturale che si coniuga con il principio dell’ordine civile: l’autorità. L’una e l’altra sono i pilastri dello Stato costituzionale  fondato sui diritti umani e sul riconoscimento dei diritti dei popoli, vale a dire le sovranità “altre”. Perciò, per lo studioso conservatore tedesco, lo Stato “si assume il compito di procurare, per quanto possibile, il minimo indispensabile per vivere, di garantire il diritto alla salute, una tutela in caso di disoccupazione, l’assistenza agli anziani, un’istruzione di base. Lo Stato di diritto civile diventa, così, Stato sociale”.

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