Trent’anni fa un moto impetuoso scosse la Germania, l’Europa e il mondo. Una “nazione-fantoccio”, costruita da uno Stato-regime con l’assenso, motivato dalla realpolitik, di tutti i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, la Repubblica Democratica Tedesca, cedette di colpo, collassò come nessuno aveva potuto prevedere, si dissolse nel volgere di pochi giorni. Governata con crudeltà da dirigenti politici praticamente nominati dall’Unione, Sovietica della quale era un’appendice a guardia delle frontiere occidentali, improvvisamente, e con un’azione davvero folgorante, maturata in poche settimane, la DDR (il suo acronimo in tedesco) venne cancellata non con un colpo di mano militare o politico, ma perché l’universo concentrazionario del quale faceva parte si consumò sulla spinta dei disastri economici e sociali scaturiti dall’affievolirsi della cosiddetta “spinta propulsiva del comunismo sovietico”.
Di quella Repubblica, nazione nella quale nessuno dei suoi abitanti si riconosceva, ma tutti si sentivano ostaggi, priva di identità e di storia, orribile campo di concentramento sorvegliato dalla più oscena e disumana polizia moderna, la Stasi, restarono gli orrori, non completamente conosciuti dal cosiddetto “mondo libero” dell’epoca, perpetrati da coloro che tutti consideravano i vassalli più fedeli dell’Unione Sovietica.
Nella notte tra il 9 ed il 10 novembre 1989 Berlino si riempì di grida, rumori, canti. La folla che con il passare dei minuti cominciò istintivamente ad affollare le strade fino ad intasarle, attraversò con una frenesia incontenibile, senza una meta precisa, tutta la città, dopotutto una qualsiasi direzione andava bene, fino a ritrovarsi al cospetto del Muro o nei suoi paraggi.
Euforia allo stato puro. Un senso di libertà si sprigionò fino ad illuminare il cielo sopra Berlino con fiaccole e luci accompagnate da grida che mai più si sarebbero udite. Fra tutte le gioiose espressioni una sorta di parola d’ordine non tardò a contagiare i manifestanti, vale a dire tutti i berlinesi: “Die Mauer ist weg”, il Muro è caduto. Ci si stropicciavano gli occhi, inumiditi dalle lacrime ed i volti rivelavano una felicità mai provata e forse neppure sperata. Tutti si sentivano per ciò che realmente erano: testimoni consapevolmente lanciati, dopo una lunghissima attesa, contro il più lugubre simbolo moderno della tirannia, della divisione della Germania, dell’ipoteca sovietica sull’Europa. Quasi non credevano a ciò che udivano, né, arrivati davanti a quel Muro dov’è tante vite erano state sacrificate in nome della più folle ideologia totalitaria, a quanto vedevano.
E si compì, con il passare delle ore, avanzando la notte, il “miracolo” che nessuno aveva osato coltivare. Tedeschi dell’Ovest si riversavano all’Est e tedeschi dell’Est si ritrovavano all’Ovest. Abbracciandosi, riconoscendosi, riallacciando in molti casi relazioni spezzate. La frontiera più triste e maledetta della storia dell’umanità non esisteva più.
Nel mondo occidentale si faticava a credere a quanto stava accadendo in quelle ore convulse, gioiose, esaltanti; dominava una comprensibile incredulità. E soprattutto nessuno, compresi politici e diplomatici, immaginava che undici mesi più tardi da quel sorprendente evento ci sarebbe stata una sola Germania, un solo popolo tedesco, un solo Stato democratico e federale.
Il segnale che un’epoca ed una tragica storia finivano, incredibile a dirsi, venne dalle parole, non sapremo mai quanto consapevoli o meditate nelle conseguenze e nelle effetti che produssero, del portavoce del Partito comunista della DDR, Guenter Schabowski, il quale, interpretando il pensiero e lo stato d’animo dell’ufficio politico composto da coloro che erano stati i più servili e feroci pretoriani di Mosca, alla domanda di un giornalista italiano sulla possibile apertura delle frontiere entro un lasso di tempo relativamente breve, rispose seccamente di sì, senza tergiversare, senza un attimo di esitazione. Incalzato sui tempi, Schabowski non si fece pregare e pronunciò una parola che sarebbe diventata “fatale”: “Subito!”.
Fu il segnale che i berlinesi attendevano. Avendolo udito in diretta televisiva, molte decine si precipitarono verso le strade che portavano a Berlino Ovest chiedendo di superare la fatidica “soglia”. Le guardie di confine, sorprese, in assenza di precise disposizioni in merito, aprirono i posti di blocco, di fatto smantellando gli artificiosi confini, senza neppure chiedere i documenti a chi intendeva passare dall’altra parte. Gli “ex-prigionieri”, come documentano tanti filmati girati anche con mezzi di fortuna quella notte, furono accolti in maniera festosa dai berlinesi dell’Ovest, mentre i bar al di là del Muro iniziarono a offrire birra gratis a tutti. Il 21 luglio dell’anno successivo, un grande concerto del leader dei Pink Floyd , Roger Water, festeggiò con qualche mese di anticipo a Berlino lo straordinario evento. Il concerto, poi diventato disco di culto del gruppo britannico, non poteva che intitolarsi The Wall , Il Muro: fino a poco prima, a Est, quella musica sarebbe stata proibita.
Nei giorni e settimane successive molte persone accorsero al muro per frantumarlo staccarne dei pezzi da portarsi via come souvenir: furono definite Mauerspechte (in tedesco “picconatori del muro”).
Il 18 marzo 1990 si celebrarono le prime e uniche libere elezioni della storia della Repubblica Democratica Tedesca; da esse venne fuori un governo il cui principale mandato era quello di negoziare la fine stessa dello Stato che nessuno più considerava comunista.
La Germania fu ufficialmente riunificata il 3 ottobre, quando i cinque Länder già esistenti nel territorio della Repubblica democratica tedesca ma aboliti e trasformati in province (Brandeburgo, Meclemburgo-Pomerania Occidentale, Sassonia, Sassonia-Anhalt, Turingia)si ricostituirono e aderirono formalmente alla Repubblica federale tedesca.
Anche coloro, dopo tante sofferenze, privazioni, lutti e persecuzioni, che avevano perso la speranza, videro un sogno avverarsi; un sogno coltivato dal 13 agosto 1961, quando il Muro venne eretto a separare il settore sovietico dai settori occidentali dell’antica capitale.
“Di tutta la sua vita, la sua morte fu la sua opera più bella”, ha scritto lo storico britannico Timothy Garton Ash riferendosi al Muro, ma soprattutto alla caduta dell’Impero Sovietico. La sua fine fu lenta, progressiva, inesorabile.
Nessuno può dire, ancora oggi, con certezza, quando l’erosione ebbe inizio. Non ci fu un evento che ne segnò la fine, ma furono molti i fatti, minori e di grande importanza storica e politica, che prepararono il rivolgimento. Tutti, comunque, persino oloro. Eh si erano assuefatti a quel mostruoso ordine, scorsero i segni dello sgretolamento dell’Urss, nella fine della guerra in Afghanistan che i sovietici abbandonarono con la coda tra le gambe, nel messaggio di libertà e di speranza che lanciò ai popoli oppressi dell’Est il Pontefice Giovanni Paolo II, nel dissenso disperato fino alla follia in alcuni casi di Solidarnosc. Ma soprattutto nella dichiarazione di Mikhail Gorbaciov, uomo forte del regime, potente segretario generale del PCUS, conscio dei suoi limiti e della finitezza del regime che gli era stato affidato, succeduto alle mummie post-brezneviane, che suonò quasi come un segnale di resa, poco prima dello straordinario evento: “Noi non ci opporremo a quanto accadrà”, disse, riferendosi all’implosione che dal Cremlino, nonostante la cecità della vecchia guardia ancora impregnata di stalinismo, era evidente ai più avvertiti, a coloro che avevano la percezione del fallimento catastrofico del comunismo.
Una svolta. Di più: fu il segno tangibile della ripresa del cammino della storia, arrestatosi nel 1917, o meglio continuato verso un abisso di tormenti, per popoli nelle cui anime era morta la speranza. Dopo la caduta, era fin troppo chiaro alla nomenklatura già post-sovietica ed agli Stati satelliti che l’ordine di Yalta, sarebbe stato fatto a pezzi dagli eredi di coloro che lo stabilirono schiavizzando milioni di esseri umani, e, dunque, il correlato ordine di Mosca non sarebbe stato ristabilito a Varsavia, a Praga, a Budapest, a Bucarest, dove le ribellioni si erano succedute ed erano state affogate nel sangue nel corso della lunga stagnazione. Segnando drammaticamente la Guerra Fredda.
Quando la mattina dell’11 novembre, alcuni berlinesi, ancora euforici per gli avvenimenti che soltanto due giorni prima li avevano proiettati in un’altra dimensione, videro approssimarsi al Muro, un signore attempato, munito di un violoncello, non credettero ai loro occhi. Sedutosi davanti alle macerie di quella costruzione ormai cadente, scavata, sventrata in alcuni punti, su una sedia malferma imprestatagli da un abitante del quartiere, l’uomo, intorno al quale nel frattempo s’era radunata una piccola folla silenziosa, prese a suonare una suite di Bach, di carattere gioioso; poi un’altra più solenne, “in memoria di coloro che hanno lasciato qui le loro vite”, disse con voce flebile, ma ferma. Così Mstislav Rostropovitch, uno dei più grandi musicisti del Novecento, sotto lo sbrecciato Muro, finalmente simbolo di libertà e non più di oppressione, segnato già da incomprensibili graffiti, celebrò la sua personale liberazione e quella del suo mondo prigioniero per lunghi anni in attuazione di una vendetta pianificata e consumata dai sovietici contro l’Europa, con la complicità vile di governi europei ossequiosi di quel malsano “ordine” che veniva dal Cremlino.
Un mese dopo, Vaclav Havel, l’eroe della primavera di Praga, pronunciò davanti al Parlamento di Varsavia un discorso tra i più vibranti della storia della libertà riconquistata dicendo tra l’altro: “Al momento l’Europa è divisa. Ed è divisa anche la Germania. Sono due facce della stessa medaglia: è difficile immaginare un’Europa che non sia divisa in una Germania divisa, ma è anche difficile immaginare la Germania riunificata in un’Europa divisa. I due processi di unificazione dovranno svilupparsi parallelamente, e anche subito se possibile…I tedeschi hanno fatto molto per noi tutti: essi hanno cominciato da soli a demolire il muro che ci separa dal nostro ideale: un’Europa senza muri, senza sbarre di ferro, senza filo spinato”.
Difficilmente oggi, trentacinque anni dopo quei fatti che cambiarono in parte il volto del mondo, riusciamo a percepire l’eco di quelle ispirate parole del grande drammaturgo ceco diventato leader politico. Ed anche le grida di gioia sono poco più d’un ricordo per noi occidentali un po’ distratti consapevoli tuttavia che l’Europa immaginata da Havel e quella sognata dai berlinesi “liberati” in una notte d’autunno non è ancora sostanzialmente unita.
Andare oltre il comunismo non è stato facile, costruire in un sistema di libertà una patria comune è certamente ancora difficile. Perché i postumi di quelle ferite sanguinanti dalla fine della Seconda Guerra mondiale agli inizi degli anni Novanta dello scorso secolo, si avvertivano ancora. Ed i loro effetti si fanno sentire, al punto che l’Europa lungi dall’essere unità, risente di antiche divisioni con le quali l’eredità geopolitica della stagione comunista si propone alla nostra attenzione dal momento che non tutto è andato come Helmut Kolh, Margareth Thatcher, Ronald Reagan immaginavano. L’Unione europea, per quanto possa sembrare paradossale, ha introiettato antiche incomprensioni e nel suo ambito gruppi di nazioni guardano a soluzioni diverse per rinnovare la struttura politica continentale. E di quella tragedia, la schiavitù di buona parte dell’Europa sembra che nessuno voglia può sentir parlare, come non si parla più della liberazione del 1989. Lo studioso francese Stephan Courtois, ideatore e curatore del Libro nero del comunismo, così ha sintetizzato gli effetti della caduta del Muro: “Rimane un’immensa tragedia che continua a pesare sulla vita di centinaia di milioni di uomini e che caratterizza l’entrata nel terzo Millennio”. Ma essa sembra essere stata rimossa piuttosto che fornire gli stimoli per una nuova primavera europea.
L’ “immensa tragedia” è ancora viva, per quanti sforzi si facciano al fine di dimenticarla. A Berlino l’anniversario non viene più neppure celebrato, nonostante una sorta di Giornata del ricordo sia stata istituita con una legge. Il più orribile e devastante totalitarismo che la storia abbia conosciuto, produsse cento milioni di morti. Si può credere davvero che l’Ottantanove, l’anno cruciale per l’umanità e specialmente per l’Europa: può essere messo tra parentesi e sostanzialmente relegato nel retrobottega degli orrori provocati da una disumana ideologia?
La domanda è tutt’altro che retorica o vana.
Da qualche decennio, non appena gli assestamenti, soprattutto in Germania, hanno avuto fine, sembra di assistere ad una soffice minimizzazione di quegli eventi che trent’anni fa sconvolsero la geografia politica mondiale, mentre si ha l’impressione che si tenda a ricordare soltanto la liberazione di popolazioni che per decenni (oltre settant’anni quella russa) hanno subito il giogo del sovietismo con l’acquiescenza di buona parte del mondo, a cominciare da quei “buoni europei” che tanto a lungo hanno tollerato gli assassinii, le deportazioni, le carestie programmate, la miseria, l’intolleranza leninista, i gulag staliniani e post-staliniani. Tra i “buoni europei”, naturalmente, non bisogna dimenticare scrittori celebri, gente dello spettacolo, intellettuali che a vario titolo hanno edificato i loro monumenti sull’apologia del terrore. Nessuno di coloro che si compiacevano di aderire alla ideologia che ispirò il sovietismo e giustificò la costruzione del Muro, ha speso una parola per mettere le cose a posto e dire a chiare lettere che la cultura europea è stata per buona parte complice nell’edificazione di tutti i muri, materiali e psicologici, che sono stati edificati dal 1917 in poi. I conti, dunque, debbono ancora essere completati. E quando ci si scandalizza di fronte alle tesi dello storico tedesco Ernst Nolte sui contrapposti totalitarismi del Ventesimo secolo, nel tentativo di assolvere almeno in parte quello stalinista, si ha la sensazione che il Muro di Berlino non sia ancora stato abbattuto.
Sono soprattutto gli eredi (a vario titolo, intellettuali e politici) di quei partiti comunisti occidentali che profusero grandi passioni nell’esibire la loro sudditanza nei confronti non soltanto dell’Unione Sovietica, ma del comunismo in genere variamente declinato, a mostrarsi ancora reticenti nell’affrontare il tema del post-comunismo alla luce dei danni provocati dall’ideologia che ha insanguinato tante aree del Pianeta. E c’è ancora chi si rifugia, quasi per giustificarsi, in una visione del marxismo, ormai innocuo e sterilizzato culturalmente, considerato quasi come un curioso reperto teorico, quale strumento di progresso e di emancipazione dei popoli. Un modo come un altro per vanificare, di fatto, quel grido dei berlinesi che festeggiarono piangendo e ridendo la riconquistata libertà.
Una riflessione sul lascito del comunismo andrebbe fatta dopo tre decenni nel corso dei quali si è creduto che tutto fosse cambiato, mentre in realtà, in alcuni Paesi è mutata soltanto la forma del potere anche se nessuno si azzarda più per decenza a citare Lenin, Stalin o i classici del comunismo a supporto di politiche che si combinano maldestramente con l’apologia di un ben singolare “mercato” come nella Cina popolare, Paese che sta facendo strame dei diritti dei popoli dal Tibet allo Xinjiang dove gli uiguri vengono sistematicamente massacrati nell’indifferenza di quello stesso mondo libero che plaudì alla caduta del Muro. Xi Jinping, il nuovo satrapo rosso, ha diramato direttive che rimandano alla “rivoluzione culturale”, eppure con lui non soltanto tutti fanno i conti, ma con il suo imperialismo, dispiegato soprattutto in Africa, si tratta mettendo tra parentesi le persecuzioni contro cristiani e musulmani e plaudendo ad una espansione economica fondata sullo schiavismo. Ed il grottesco e crudele satrapo nordocoreano Kim Jong-un, massacratore seriale, nel nome del comunismo, come suo nonno Kim Il-Sung e suo padre Kim Jong-Il, diventa addirittura interlocutore delle democrazie occidentali per miserabili moralmente affari economici. Per non dire di dittature che al marxismo-leninismo ancora si richiamano con una confusione semantica, culturale e politica ridicola se la stramba dottrina non venisse utilizzata come giustificazione di crimini che passano in secondo piano in larga parte del mondo.
L’ultimo Muro che ancora deve accade, dunque, è quello culturale e mercantile. Rimuovere serve soltanto a relegare i fantasmi dove non possono più nuocere, mentre l’eredità del secolo delle “idee assassine”, secondo la felice espressione di Robert Conquest , evapora lasciando un buco vasto nella memoria collettiva. E’ per questo che il Muro cadde nella notte del 9 novembre 1989?