Passò pressoché sotto silenzio sette anni fa, mentre in ambiti minoritari della cultura nazionale si discuteva di sovranismo, populismo e crisi dell’Europa, l’ottantesimo anniversario della morte di Oswald Spengler. Quasi nessuno se ne occupò e la circostanza risultò piuttosto bizzarra considerando che, negli ultimi decenni, a fronte della devastante decadenza civile, economica e valoriale dell’Occidente, il pensatore tedesco, era diventato uno degli autori più citati anche se non tra i più indagati.
Ancora oggi continuano le rimasticature sulle sue opere e l’afflizione che qualcuno ancora ritiene di doverci ammannire riguarda il disperato tentativo spengleriano di accreditare un “tramonto” che non è mai avvenuto. L’anno che poteva essere propizio alla riapertura di una riflessione sull’opera del pensatore tedesco, si chiuse, per fortuna, con la ripubblicazione de L’uomo e la tecnica, saggio apparso nel 1932, in edizione tedesca, composto sulla base di una conferenza tenuta l’anno precedente. Lo pubblicò, nella consueta elegante veste grafica, l’editore Nino Aragno, con una prefazione di Giuseppe Raciti originalmente intitolata Like a rolling stone, una “suggestione” spengleriana comunque, ripresa dallo stesso testo: “La pietra rotolante si appressa, con furiosi sbalzi, all’abisso”. E’ la fine di un’epoca: preconizza, infatti, l’avvento della civiltà della tecnica, anticipando Martin Heidegger ed Ernst Jünger, che non coincide con l’avvento della decadenza, ma con un rapporto nuovo dell’ “animale da preda”, cioè l’uomo, con gli strumenti dei quali si serve per sottomettere al suo volere la Natura, la quale, ovviamente, ha le sue ragioni per opporsi alle distorsioni della tecnica stessa ed il conflitto sta diventando esplosivo, foriero di una rottura traumatica ed insanabile tanto nell’ecosistema quanto nel rapporto tra l’uomo e l’ambiente.
L’8 maggio del 1936, all’età di cinquantasei anni ed al culmine della sua fama, Oswald Spengler si spegneva a Monaco di Baviera, sua città di elezione dove viveva nella solitaria osservazione di un mondo che si disfaceva davanti ai propri occhi. Contemplativo e vigile, componendo opere che ruotavano inevitabilmente attorno alla sua morfologia della storia la quale, ad ottantasette anni dalla sua morte, ancora ci appare come il compendio della decadenza europea ed occidentale.
E’ facile dire oggi che fu una sorta di “profeta”, tanto per abbandonarlo al suo destino su cui dovrebbe addensarsi la polvere fino a seppellirlo definitivamente. Molto più verosimilmente bisognerebbe riconsiderarlo come il più lucido analista del Novecento, non soltanto dal punto di vista filosofico ma anche – e soprattutto – per la visione politica che dalla sua morfologia discendeva. Ottant’anni e più sono volati via con la velocità della luce. Ma non si può dire che le idee di Spengler non si siano depositate sui destini della nostra epoca rendendoli decifrabili a chi ha voluto soffermarsi sul tramonto di una civiltà che oggi nessuno più contesta anche senza conoscere chi l’aveva preconizzata è descritta.
Oswald Spengler, primo di quattro figli, ed unico maschio, nasce a Blankenburg am Harz il 29 marzo 1980. Nel piccolo, ma suggestivo libro A me stesso, pubblicato da Adelphi, racconta la sua formazione e lascia intravedere il percorso che avrebbe intrapreso partendo da quella sua famiglia conservatrice e piccolo borghese. Di carattere riservato. Con il passare del tempo si appassionò alla lettura, alla quale, insieme con la scrittura, dedicò praticamente tutta la sua vita nonostante fosse di salute cagionevole, afflitto da continue emicranie (come l’amato Nietzsche) e devastato da un’ansia che probabilmente fu una delle cause principali della sua morte precoce.
Quando aveva dieci anni la famiglia si trasferì ad Halle, nella Sassonia-Anhalt, dove Spengler compì gli studi classici, appassionandosi oltre che al greco ed al latino, alla matematica ed alla storia dell’arte, ma soprattutto alle opere di Goethe e di Nietzsche che furono le stelle polari della sua esistenza.
Frequentò le università di Monaco, Berlino, oltre che di Halle, seguendo corsi di storia, filosofia, matematica, scienze naturali, letteratura, musica e belle arti. Si spiega così la sua formazione “enciclopedica” che lo impose all’ammirazione come uno degli uomini più colti della sua epoca. La tesi su Eraclito, che gli procurò nel 1903 la bocciatura all’esame di dottorato, sarebbe stata apprezzata dopo essere divenuto famoso (la traduzione italiana è stata pubblicata dalle edizioni Settimo Sigillo); l’incidente gli rese impossibile l’avvio della carriera accademica, ma nel 1904 ottenne il risultato fallito l’anno precedente che poco mesi dopo venne turbato al primo esaurimento nervoso.
Insegnò per un breve periodo a Saarbrücken e a Düsseldorf. Dal 1908 al 1911 tenne la cattedra di scienze, storia tedesca e matematica nel Realgymnasium di Amburgo e nel 1911, dopo la morte della madre, si trasferì a Monaco, dove sarebbe vissuto fino alla sua morte. Viveva una vita da studioso solitario, con i mezzi provenienti dalla sua modesta eredità. Si sosteneva economicamente anche impartendo lezioni private o scrivendo per i giornali, esauritisi i diritti d’autore derivanti dal cospicuo successo della sua opera maggiore.
Quando intraprese il lavoro che sarebbe diventato Il tramonto dell’Occidente, aveva in animo di scrivere un romanzo storico, come i Buddenbrock di Thomas Mann. Poi, profondamente colpito dalla crisi di Agadir – detta anche seconda crisi marocchina, scatenata nel 1911 dall’opposizione tedesca al tentativo della Francia di instaurare un protettorato sul Marocco: la vicenda si concluse con la soccombenza della Germania alla Gran Bretagna dovendosi accontentare di una piccola parte del Congo francese, quasi nulla – lo trascinò verso l’idea della composizione di un saggio storico che divenne addirittura qualcosa di più. Spengler fu ispirato da un libro di Otto Seeck, Geschichte des Untergangs der antiken Welt (Storia del tramonto del mondo antico). Il libro fu completato nel 1914 ma la pubblicazione fu rimandata per lo scoppio della Prima guerra mondiale nel corso della quale Spengler visse poveramente, perché la sua eredità, investita fuori dall’Europa, era praticamente inutilizzabile.
Il tramonto dell’Occidente è un libro universale che il tempo non ha “consumato” perché, lo si ammetta o meno, direttamente o indirettamente, è uno di quelli che ha profondamente inciso nella cultura europea. Allo stesso modo, per fare due esempi, di come incisero, sia pur dopo incomprensioni e resistenze, Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche.
Spengler, non meno dei due filosofi dell’Ottocento, conquistò, affascinò ed irretì la borghesia tedesca del secondo decennio del Novecento per affermarsi, con la forza di una inoppugnabile diagnosi della decadenza, in tutta l’Europa squassata dagli esiti della Guerra Mondiale che diedero forza al Tramonto che si presentava, ben oltre le intenzioni del suo autore, come l’esame di coscienza di un Occidente spaventato di fronte a se stesso. Ma anche disorientato non meno di quanto lo sia oggi, a poco più di cento anni dalla pubblicazione dell’opera, il “fatale” 1918 (uscita del primo volume) ed il non meno tumultuoso 1922 (quando venne pubblicato il secondo).
Spengler mette davanti agli europei ciò che né da Schopenhauer, né da Nietzsche avevano accettato perché non riuscivano a toccarla: la decadenza, ineluttabile e lacerante. Mancava il motivo: la gaia apocalisse non scuoteva il vecchi europei addormentatisi con antiche certezze e risvegliatisi, dopo il conflitto, con uno sguardo atterrito sul vuoto.
Quando Il tramonto dell’Occidente apparve fu facile denigrarlo, da parte di chi si rifiutava perfino di considerare la “diagnosi” in esso formulata, come il prodotto della Germania sconfitta. Eppure esso venne partorito nel 1911 quando l’Impero guglielmino ancora si illudeva che il suo destino potesse essere diverso, come quello del resto d’Europa. I segni che sinistramente si erano manifestati dalla Grande Rivoluzione in poi non erano serviti né alle oligarchie continentali, né ai borghesi e neppure alla nascente classe operaia che immaginava la sua emancipazione distruggendo il vecchio ordine. Non c’era più niente da distruggere; tutto si era già compiuto. L’Occidente barcollava sotto i colpi delle sue stesse utopie; la “guerra civile europea” non fece altro che certificare la crisi di un mondo che sopravviveva stentatamente illudendosi che, dopotutto, nulla sarebbe davvero cambiato.
Oggi qual è il significato del Tramonto? Se è vero che “la civiltà è una pianta”, come sostiene Spengler, è anche vero che essa continua ad agonizzare; le sue foglie sono ingiallite; non aspetta altro che morire. Nessuno sa dire quando l’evento si verificherà. E non credo che nessuno possa mettere in discussione questa “verità” preconizzata da Spengler che da morfologo della storia non si illudeva di poter suggerire ricette miracolistiche per evitarlo. Le civiltà, dopotutto, sono organismi, caratterizzate da un destino quasi biologico che deve inevitabilmente concludere il suo ciclo. Possono rifiorire, naturalmente, ma in altre forme. Dalle macerie occidentali nelle quali ci aggiriamo che cosa può nascere? E’ su questo interrogativo che si ferma la lunga meditazione spengleriana improntata ad un realismo glaciale e perciò degna di considerazione al di là di speranze ottuse nutrite tanto per allontanare lo spettro di una crisi senza sbocchi.
Le civiltà, come tutte le forme vitali, appartengono al “mondo organico” e dunque rispondono ad un principio biologico. Perciò sono dotate di un’anima che le caratterizza. Avere una storia, coltivare un destino vuol dire aderire ai dettati dell’anima. Nel periodo ascendente di una civiltà (Kultur) predominano i valori spirituali e morali che danno il senso all’esistenza degli esseri che vivono secondo i dettami del diritto naturale; l’esistenza comunitaria è organizzata in ordini, caste, gerarchie; nei cuori dei popoli domina un profondo sentimento religioso che pervade l’arte, la politica, l’economia, la letteratura. Quando la civiltà invecchia e la sua anima si rattrappisce si passa allo stadio della “civilizzazione” (Zivilisation); al principio della qualità si sostituisce quello della quantità; all’artigianato, la tecnica; l’invasività della massificazione dei gusti e dei costumi travolge le differenze; alla città suggente vita dalla campagna ed organizzata a misura d’uomo, si sostituisce la megalopoli come estrema forma di indifferentismo, un termitaio senza più una dimensione umana; le società sono livellate, l’edonismo ed il denaro sono i soli valori riconosciuti.
“Solo quando, con l’avvento della civilizzazione – scrive Spengler – comincia la bassa marea di tutto il mondo delle forme, le strutture delle mere condizioni di vita affiorano nude e prepotenti: vengono i tempi nei quali il detto volgare che ‘fame e sesso’ sono i veri momenti dell’esistenza, cessa di essere sentito come una sfrontatezza, i tempi nei quali non il divenire forti in vista di un compito, bensì la felicità dei più, il benessere e la comodità, il panem et circenses, costituiscono il senso della vita e la grande politica dà luogo alla politica economica intesa quale fine a se stessa”.
Parole che sembrano scritte in questi torbidi tempi: furono pensate oltre un secolo fa, quando Spengler voleva scrivere, intorno agli anni Dieci, come s’è detto, un grande romanzo storico e si trovò, trasportato dal sentire della decadenza, a descrivere ciò che inevitabilmente sarebbe accaduto. Il tempo del tramonto è il nostro tempo. Chi ci ha messo davanti a questa prospettiva è nostro contemporaneo. I suoi ammonimenti dovrebbero essere accolti con la serietà e la severità che meritano.
Il tramonto dell’Occidente ebbe un grandissimo successo: la Germania umiliata dal Trattato di Versailles (1919) e la depressione economica del 1923, alimentata dall’iperinflazione, davano ragione a Spengler. Per i tedeschi le tesi contenute nella sua opera corrispondevano al loro sentire: grazie ad esse il crollo della Germania aveva un senso, diventava comprensibile. Il tramonto ebbe un successo enorme anche fuori dai confini nazionali, tradotto in molte lingue, accese un dibattito continentale. Spengler, ormai famoso, rifiutò comunque la cattedra di filosofia offertagli dall’università di Gottinga per concentrarsi sulla scrittura e lo studio.
Il tramonto accese pure opinioni contrastanti. Per Thomas Mann era come leggere Arthur Schopenhauer per la prima volta; per Max Weber Spengler era un “dilettante molto ingegnoso e colto”; Ludwig Wittgenstein ne condivideva il pessimismo culturale. In Italia, Benedetto Croce, attento alle evoluzioni del pensiero tedesco, poco elegantemente consigliò i lettori di Spengler di “fare gli scongiuri” prima di prendere in mano la sua opera.
Nel 1928, dieci anni dopo la pubblicazione del primo volume, la rivista americana “Time” pubblicò una recensione del solo secondo volume del Tramonto dell’Occidente. Descriveva l’immensa influenza delle idee di Spengler ed il dibattito che aveva suscitato: “Quando il primo volume de Il tramonto dell’Occidente uscì alcuni anni fa, furono vendute migliaia di copie. Il dibattito colto in Europa presto si concentrò sulle tesi di Spengler. Lo spenglerismo ‘contagiava’ innumerevoli intellettuali”, alcuni dei quali non esitarono a dichiararsi discepoli dello studioso, come Richard Korherr, autore del famoso saggio Regresso delle nascite, morte dei popoli, sulla decrescita demografica adottato dalla cultura italiana del tempo e pubblicato con le prefazioni di Mussolini e Spengler.
Nel secondo volume, Spengler sosteneva che il socialismo tedesco era altra cosa rispetto al marxismo – un saggio al riguardo lo intitolò Prussianesimo e socialismo – e che era compatibile con il tradizionale conservatorismo tedesco. Nel 1924, in seguito alle agitazioni politico-sociali e all’inflazione, Spengler cercò di influenzare, senza riuscirci, il tentativo nazional-conservatore di portare al potere il generale della Reichswehr Hans von Seeckt.
Nel 1931 pubblicò Der Mensch und die Tecknik, L’Uomo e la tecnica, che metteva in guardia contro i pericoli della tecnologia, tema su cui si sarebbe esercitato Martin Heidegger insieme con molti altri pensatori della Rivoluzione conservatrice, e dell’industrialismo onnivoro. In particolare puntava il dito contro la tendenza della tecnologia occidentale a diffondersi tra le “razze di colore” nemiche, che poi avrebbero preso le armi contro l’Occidente.
Spengler si avvicinava così agli “anni decisivi”.
Nel 1932 Spengler non votò per Hindenburg, ma per Hitler, anche se lo giudicava volgare. Lo incontrò nel 1933 e dopo una lunga discussione con lui, disse che la Germania non aveva bisogno di un “tenore eroico (“Heldentenor“, tenore drammatico), ma di un vero eroe (“Held“)”. Ed oltre a criticare le tesi razziste di Alfred Rosenberg, rifiutò l’invito di Joseph Goebbels, perorato anche dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth, di tenere discorsi alla gioventù tedesca. Tuttavia nel 1933 Spengler venne chiamato a far parte dell’Accademia di Germania. E scrisse Anni decisivi, accolto malissimo negli ambienti nazionalsocialisti, ma esaltato in Italia da Benito Mussolini che ne promosse la traduzione effettuata da Vittorio Beonio Brocchieri. E’ il libro più politico di Spengler nel quale la critica al liberalismo si accompagna alla critica spietata al razzismo biologico e all’antisemitismo.
Il libro, che contribuì a consolidare la sua fama, gli procurò altri nemici: in tre mesi furono vendute centomila copie del volume, ma ciò non impedì che da alcuni ambienti nazisti si levassero contro Spengler accuse assai violente per alcune allusioni sulla recente presa di potere di Hitler. Al contrario, in Italia, Benito Mussolini accolse con entusiasmo l’uscita di Jahre der Entscheidung segnalandolo attraverso le colonne del “Popolo d’Italia”.
Alle infamanti menzogne propagandistiche, Spengler non replicò. I suoi pensieri navigavano verso mondi lontani, distanti dalle contingenze, in un estuario post-politico. Erano volti alla preistoria, alla riscoperta della tradizione primordiale dell’uomo europeo per il quale ed intorno al quale avrebbe voluto elaborare una compiuta filosofia. Le Urfragen, il lascito raccolto dall’amico Anton Koktanek, rivelano tale intenzione. E intanto, in Anni decisivi, ammoniva sul tempo nuovo che sarebbe venuto, sull’ “èra fatale” che si stava preparando: la rivoluzione mondiale bianca, la rivoluzione mondiale di colore, l’avvento dei “nuovi Cesari”, il tutto “nutrito” dagli “ideali deboli”, vale a dire l’ideologia e la religione delle lacrime. Un testo di grande forza evocativa e di straordinaria analisi interpretativa che non poteva piacere a piccoli propagandisti spacciatisi per “filosofi” come Alfred Baumler, alle cui intemperanze nei confronti di Spengler (qualcuno le chiamò minacce) si deve forse una concausa che provocò la crisi cardiaca che uccise lo studioso, come venne ipotizzato da qualcuno all’epoca.
Spengler trascorse i suoi ultimi anni a Monaco, ascoltando Beethoven, leggendo Molière e Shakespeare, collezionando libri e antiche armi turche e persiane e indù. Di tanto in tanto tornava a casa, sui monti Harz, ed effettuava viaggi in Italia dove i suoi estimatori erano numerosi, non solo Mussolini, ma anche Julius Evola che tradusse per la prima volta, nel dopoguerra, per Longanesi, Il tramonto dell’Occidente.
Poco prima della sua morte, in una lettera a un amico, scrisse che “probabilmente il Reich Germanico tra dieci anni non esisterà più”. Aveva visto più lontano degli altri, al culmine di un delirio nazionale che si nutriva di illusioni.
A tanto tempo di distanza dalla sua morte, se la bruciante attualità del Tramonto dell’Occidente e le complessive analisi storico-politiche di Spengler non possono lasciarci indifferenti, le condizioni in cui la cultura politica contemporanea naviga ci lascia sgomenti. Come si fa a trastullarsi con tematiche da laboratorio, tra happy end a buon mercato e prepotenze di fellah irresponsabili ed assetati di dominio, mentre una civiltà, la civiltà occidentale, sta finendo i suoi giorni nelle fiamme alimentate da inutili parole senza idee?
A questo interrogativo Spengler avrebbe risposto con la frase del suo libro profetico, tratta dalle Epistole a Lucilio di Lucio Anneo Seneca: Ducunt fata volentem, nolentem trahunt (Il fato guida chi vuole lasciarsi guidare e trascina chi non vuole).