• 23 Novembre 2024

Dal cinema alla letteratura e viceversa dalla letteratura al cinema gli intrecci che si accavallano in questo complesso ed entusiasmante passaggio hanno quasi sempre delle risonanze sia sintattiche che iconiche. La parola e l’immagine, il suono e la visione si amalgamano sullo schermo e nel pensiero dando una maggiore vibrazione al senso della coralità.

Il narrare cede il posto al mostrare o viceversa, ma entrambi fanno parte della rappresentazione e dell’espressione sostanziale dell’arte. Da qui alla forma, al comportamento, all’analisi del contenuto. Il cinema e la letteratura si servono di livelli per meglio comunicare i loro messaggi. Da qui l’importanza del soggetto e quindi della scenografia. In questo contesto numerosi sono stati gli scrittori italiani che si sono confrontati con il cinema. Ne potremmo citare molti, ma ci limitiamo a un solo caso, a uno scrittore conosciuto per altri meriti che però si è anche applicato ad elaborare soggetti per il cinema. Si tratta di Cesare Pavese.

Sin da studente amò profondamente il cinema. Infatti due suoi saggi di critica cinematografica risalgono al 1929 il primo e al 1930 il secondo. Furono pubblicati su “Cinema Nuovo” del luglio-agosto 1958, dai quali trapela la forte passione legata a profondi connotati analitici e critici. Già da questi due saggi scritti in giovane età si può evincere il rapporto fra cinema e letteratura che in Pavese è rimasto sempre irrisolto sia per la sua prematura scomparsa, sia per una serie di altri interessi culturali che si assommano alla sua ricerca estetica in campo cinematografico. Ma Pavese non fu soltanto un teorico o un critico che si apprestava a formulare elementi di studio in un terreno allora inesplorato, giovane e con molte prospettive aperte che tendevano alla eterogeneità della ricerca. Oltre a frequentare quasi quotidianamente le sale cinematografiche, Pavese compose anche soggetti che rispecchiavano già tutto il suo mondo drammatico e teso sulla corda di un’immensa tragicità. È il caso di Un uomo da nulla pubblicato sul settimanale “Tutto libri” del 28 aprile 1979 dove si intravede una tristezza malinconica, muta e assordante che lo ha accompagnato sino alla fine.

Si tratta di una sceneggiatura divisa in due parti dove i ruoli sono ben distinti e i personaggi ben collocati come se già si muovessero sulla scena o meglio sullo schermo. È chiaramente rimasto in fase di abbozzo, ma la vena autobiografica è molto evidente. È da collocare in quella gamma del cinema muto che fa emergere la sua costante presenza artistica. Negli ultimi anni della sua vita scrisse alti soggetti, se ne calcolano sette, destinati questa volta al cinema sonoro. I due soggetti pubblicati su “Cinema Nuovo” del settembre-ottobre 1959 sono Il diavolo sulle colline e Breve libertà. Erano per le sorelle Dowling.

Anche qui i personaggi si muovono in un contesto ben raffigurato che pone al centro fattori e problemi umani, psicologici e sociali. In entrambi gli ambienti si reggono su una tensione che ha qualcosa di drammatico e di lirico. L’incomprensione, il senso di morte e la solitudine sono i fili dominanti che reggono quasi tutto lo scenario, il quale sembra costruito per interpreti-personaggi già delineati. D’altronde, Pavese mirava a realizzare un soggetto che andasse per la sua Costance, l’ultimo suo amore o forse l’ultimo suo inganno. Ma al di là di questa parentesi il cinema per Pavese non era certamente evasione, era fondamentalmente ricerca sia letteraria che tecnica, e soprattutto rappresentava un motivo di confronto con la sua attività di scrittore e di letterato. Non era assolutamente un mezzo per descrivere la realtà, era sostanzialmente qualcosa di più che si apriva a valutazioni metaforiche e marcatamente culturali nel senso critico del termine e in quello più strettamente poetico. Se ne serviva per capire, attraverso l’immagine, la messinscena, la ribalta, il retroscena, i suoi conflitti, le sue contraddizioni esistenziali che lo hanno lacerato profondamente. Il cinema, dunque, come metafora, come ricerca e come confronto. Ecco cosa scriveva: “… persona e scena hanno uguale importanza e son collocate e messe, nel dinamismo del quadro in posizioni e movimenti che valgono in quanto composizioni mobili di luci e di ombre, fuori del preciso realismo del gesto nella vita”.

È questa la visione che Pavese ha del cinema. Una visione che travalica il concetto stesso di realismo per dare una dimensione dinamica, sintattica, corale all’immagine filmica. Ecco perché il rapporto cinema letteratura è un binomio essenziale della sua ricerca. I suoi romanzi d’altronde si spiegano sulla pagina come se fossero sul campo aperto dello schermo. Le pagine si leggono come se fossero immagini e in questo caso esse non solo si ammirano ma si ascoltano anche come se fossero parole. I suoi soggetti e tutto il suo lavoro di sceneggiatura e di critica cinematografica rimangono fortemente legati alla passione per il cinema tout court e al suo operare per la letteratura e per la poesia. D’altronde, la sua vita e i suoi scritti ne sono una testimonianza.

Autore

nato in Calabria. Scrittore, poeta, italianista e critico letterario. Esperto di Letteratura dei Mediterranei. Vive la letteratura come modello di antropologia religiosa. Ha pubblicato diversi testi sulla cristianità in letteratura. Il suo stile analitico gli permette di fornire visioni sempre inedite su tematiche letterarie, filosofiche e metafisiche. Si è dedicato al legame tra letteratura e favola, letteratura e mondo sciamanico, linguaggi e alchimia. È presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”.