• 24 Novembre 2024

Perché gli studenti universitari italiani scrivono male? La risposta è semplice: leggono poco. Ma anche a causa del pessimo insegnamento della lingua che ricevono nelle scuole primarie e secondarie. Se ne sono resi conto seicento intellettuali, tra accademici della Crusca, professori, scrittori che hanno ritenuto di indirizzare un appello al Parlamento ed al Governo a tutela dell’italiano perché facciano qualcosa al fine di ristabilire l’ordine distrutto  dalla tolleranza nello stravolgimento dell’uso comune di numerosi termini oltre che dei verbi la cui coniugazione è diventata una sorta di mistero esoterico. Basterà? Non credo. Nel recente passato iniziative analoghe non hanno sortito un bel niente. Figuriamoci oggi se una classe politica, sul cui tasso di ignoranza non c’è da rivelare nulla –  bastano le comparsate dei suoi esponenti in televisione per renderci conto di come snaturino la lingua italiana – possa prendere coscienza di un problema tanto serio in quanto attinente alla nostra stessa identità.

Vorrei suggerire ai tanti “sovranisti” improvvisati di prendersi cura almeno un po’ anche della sovranità dell’idioma se è vero che il biglietto da visita di un popolo è la sua lingua.

“E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente – si legge in una  lettera-appello firmata qualche anno fa tra gli altri da Luciano Canfora, Massimo Cacciari, Mario Isnenghi , Galli della Loggia -. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”. Ed aggiungono:  ”A fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi. Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema”.

I firmatari reclamavano una “scuola esigente” sia nel controllo degli apprendimenti che efficace nella didattica. E dunque “dobbiamo porci come obiettivo urgente il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti”.

Difficile non condividere le motivazioni e le argomentazioni dei firmatari, ma francamente non ci aspettiamo molto. La coscienza a cui si fa riferimento dovrebbe essere modulata nell’ambito di una scuola profondamente riformata in senso meritocratico, mentre assistiamo al suo degrado giorno dopo giorno. E’ tra le sue mura che la lingua italiana muore ed i suoi funerali li celebrano i giornali, la televisione, i muovi media eccetera.

Basterebbe, comunque, che si tenesse conto che la lingua può non smarrirsi, se  la sua struttura viene adeguatamente insegnata, neppure con la prevalenza comunicativa delle tecnologie all’avanguardia. Ce lo ricorda in un libro di grande interesse Giuseppe Antonelli, docente universitario di Linguistica: “Un italiano vero” (Rizzoli) nel quale, pur asserendo che l’italiano perfetto non esiste, che esso continua a cambiare, offre una suggestiva analisi di come si parla e si scrive al tempo di internet. Non è affatto scontato essere sgrammaticati, insomma. Perfino usando WhatsApp e tutte le diavolerie informatiche si può praticare un buon italiano. “Digito ergo sum”, insomma, non vuol dire mandare all’aria congiuntivi e condizionali, né banalizzare la scrittura ed il linguaggio al punto di renderli un balbettio incomprensibile. “La nostra lingua ci nutre – scrive Antonelli che offre un panorama vasto della modernità espressiva insieme con la riproposizione delle radici linguistiche che quasi tutti purtroppo oggi ignorano – educa i nostri pensieri e i  nostri sentimenti, plasma la nostra visione del mondo. Tutti noi le dobbiamo tantissimo e per questo merita tutta la nostra riconoscenza: la nostra attenzione, il nostro studio, la nostra cura. Questa è la lingua. La lingua siamo noi”.

Ma per comprenderne meglio il senso, dovremmo anche sapere dove nasce e come si è formata la lingua italiana. Da una lingua che morta non è. Dal latino. I grandi ignoranti travestiti da riformatori nell’ultimo mezzo secolo l’hanno declassato, umiliato, abrogato. Certo, si può vivere senza Properzio e Catullo, Cesare e Cicerone, Ovidio e Tacito, Svetonio e Virgilio… Ma conoscere le origini del linguaggio che comunque, ancorché malamente pratichiamo, è non soltanto eticamente doveroso, ma anche necessario. A scuola, purtroppo, non s’insegna più la costruzione della frase e la logica: occorrerebbe per farlo appunto la dimestichezza con li latino. Troppo complicato. E poi, a che serve?

La risposta la offre Nicola Gardini, insegnante di letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford, in un libro di godibilissima lettura: “Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile” (Garzanti). Talmente “inutile” che lo studioso confessa: “Grazie al latino non sono stato solo. La mia vita si è allungata di secoli e ha abbracciato più continenti. Se ho fatto qualcosa di buono per gli altri, l’ho fatto grazie al latino. Il buono che ho dato a me stesso, quello, non c’è dubbio, l’ho tratto dal latino”.

Una dichiarazione d’amore in piena regola che dovrebbe quantomeno tentare qualcuno ad addentrarsi in questo libro che non è noioso in nessuna sua parte, anzi è avvincente come  un romanzo al punto che dispiace girare l’ultima pagina, prendere congedo leggendo l’ultima riga: “Ricominciamo dal latino”. Perché? Per riappropriarci di ciò che si sta spegnendo: la bellezza. Anche la bellezza delle parole, “il dono più grande”, secondo Gardini, che ce la propone nella sua forma più classica: la  lingua latina che contiene, se la si sa penetrare, un fascino che va al di là del tempo; una “squisita perfezione”, diceva Giacomo Leopardi.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.