“La vita negli anni della vecchiaia assomiglia al quinto atto di una tragedia, si sa della tragica fine che si sta avvicinando, però non si conosce ancora quale sarà”. Così Arthur Schopenhauer in L’arte della saggezza. Il mistero della vecchiaia è racchiuso in queste parole del filosofo tedesco. E ad esse si uniscono i pensieri di ognuno, superata una certa età, che sono di afflizione o di consolazione. Ma la vecchiaia, per quanto trasparente ed evidente, almeno dall’età di sessant’anni, è l’anticamera della fine che, per quanto nessuno possa sapere quando verrà, è inevitabile che essa si approssima. Con il decadimento fisico, le patologie più varie, la disconnessione (spesso) dalla realtà, l’incomprensione delle generazioni più giovani, l’età che prelude l’ingresso nell’eternità, non è una maledizione perché iscritta nel nostro destino, nel codice genetico di ognuno di noi.
Non si può fare altro che accettarla. Ed è spesso fonte di saggezza anche se, negli ultimi decenni, incontriamo vecchi che fanno di tutto per sentirsi pateticamente giovani. Sono barzellette di uomini declinanti che non conoscono la decenza: “Ho i miei anni, ma mi sento giovane dentro”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare da attempati soggetti questa frase che più idiota non la si potrebbe immaginare?
Un conto è reagire agli acciacchi ed anche alle patologie, per quell’innato sentimento di attaccamento alla vita che fa parte della nostra natura di essere umani; un altro è lasciarsi andare all’ineluttabile fine disprezzando le angustie dell’età. Forse per questo non siamo abbastanza preparati all’ultimo atto e desideriamo l’accanimento terapeutico anche quando avvertiamo che non c’è più niente da fare.
Eppure c’è un che di eroico nell’accettazione della vecchiaia. E rimanda proprio all’eroismo insito nella nascita di chi ci ha dato la vita: la madre è l’eroina alla quale dovremmo riferirci quando la solitudine della malattia ci affligge, quando le forze vengono meno, quando il destino lo vediamo giorno dopo giorno manifestarsi più marcatamente sulle nostre membra disfatte o soltanto nella umanissima paura che precede il trapasso. Ed insieme dovremmo raccontare a noi stessi, vecchi con la capacità di comprendere l’essenza della nostra condizione, che dopotutto la vita, unitamente a numerose parentesi d’infelicità, ci ha donato la gioia di vivere per noi stessi nella comunità in cui siamo capitati e per gli altri che abbiamo amato o perfino odiato da desiderare il loro male magari per un atroce torto subito.
Sparta godeva di un consesso chiamato “gerusia”, un consiglio di anziani che educava i giovani offrendogli esempi di saggezza e di comportamento. Anche ad Atene, in maniera più blanda, viveva il rispetto per gli anziani, ma come affermava il filosofo Lisandro, “Sparta è per gli uomini anziani la più autorevole delle dimore. Poiché in nessun altro luogo la vecchiaia è considerata”.
Oggi la disprezziamo. E con essa rendiamo la vita più ignobile. Il vecchio è un peso da sopportare a fronte della pensione che i parenti intascano; è un ingombro per chi vorrebbe trarne benefici economici senza oneri; è un lamentoso individuo che con i suoi racconti (ma ne fa sempre di meno) riempie di noia la vita dei giovani. E se ne sta seduto d’estate sotto un albero frondoso, d’inverno accanto al camino (se lo possiede) in attesa di un’attenzione, mentre chi dovrebbe dargliela spesso e volentieri lo trascura. Ma quanto oro in quell’anima affranta si potrebbe scorgere se solo la si volesse penetrare.
A sessantadue anni, nel Cato Maior de senectute, Cicerone scrive:
“Nulla di vero affermano quelli che dicono che il timoniere in navigazione, non fa nulla, dato che altri salgono sugli alberi, altri corrono su e giù sui ponti, altri svuotano la sentina dell’acqua, mentre lui, tenendo la barra del timone, se ne sta in riposo seduto a poppa! Non fa quei lavori che fanno i giovani, ma ne fa altri molto più seri e più importanti. Le grandi cose non si fanno con la forza o con la velocità o con l’agilità del corpo, ma con la saggezza, con l’autorità, con il prestigio delle quali virtù la vecchiaia di solito non solo non è priva ma anzi ne è arricchita”. Basterebbe questa considerazione a rivalutare la vecchiaia piuttosto che tormentarla come una fase inutile e fastidiosa della vita.
Non c’è altro da fare che accettare l’ammonimento di Saffo che sembra rassegnarsi ai danni del tempo: “Teme profondamente la mia pelle la vecchiaia / bianco divenne il capello, un tempo in trecce nere / le ginocchia non mi reggono più / e danzano così leggere come cerbiatto / ma cosa posso fare?”. Nulla, con tutta evidenza. Per Anacreonte la senilità è un male naturale al quale è impossibile sfuggire. E Solone, autore dell’ Elegia della vecchiaia, come legislatore promulgò una legge che obbligava i figli al mantenimento dei genitori anziani. Frammenti di altre civiltà, quando il mondo indoeuropeo era integro nei valori e acceso di fiammanti propositi che rimandavano alla generosità ed alla fedeltà. Nel nostro tempo, la furia del XX secolo che ha travolto tradizioni e valori, la famiglia patriarcale, figlia della cultura contadina, è stata messa in un angolo dalla urbanizzazione, dallo spopolamento dei borghi, dalle megalopoli disarticolate dalle nuove strutture industriali che fagocitano l’umanità con l’invasività tecnologica. Il sapere e l’esperienza dei vecchi non valgono più niente, non hanno più significato. Dimenticati quando non fastidiosi.