Ogni animale si fa la tana che gli è più congeniale. La mia è una casa foderata di libri. Non saprei vivere altrove. In qualsiasi altro posto, infatti, mi sento a disagio, estraneo, esule, profugo. Anche le case secondarie, mie o dei miei parenti, dove comunque soggiorno, sono arredate di libri. Una malattia, secondo qualcuno, fortunatamente non contagiosa. Tuttalpiù, fastidiosa per chi è costretto a convivere con la mia bibliomania. Per alcuni è bibliofollia. Ma io mi sento bene assediato da migliaia e migliaia di volumi ognuno dei quali mi parla, racconta non soltanto le storie che contiene, ma risveglia in me il ricordo dell’acquisto, del dono, della ricerca che lo hanno portato sugli scaffali della mia biblioteca.
Antichi e moderni, nessuno trascuro per lungo tempo. Sono sentinelle silenziose che mi vengono in soccorso quando ho bisogno di conoscere il molto che ignoro o quando devo consolarmi degli affanni che mi affliggono. Trascorrono con me notti lunghissime e condividono albe precoci. Mi accompagnano nei viaggi e vigilano sulla memoria che affievolisce. Sono dinamici nell’aiutare il pensiero a non addormentarsi e severi perché non ammettono contraddizioni. Attirano il mio sguardo, che stia seduto in salotto, alla scrivania, sdraiato sul letto o che faccia le consuete abluzioni nella sala da bagno.
Anche in cucina mi distraggono attirando la mia attenzione sulla nicchia che occupano e naturalmente raccontano di cibi e di vini, la materialità della vita vissuta spiritualmente, con il gusto di conoscere a fondo sapori ed odori, ingredienti e culture gastronomiche esotiche, elementi primordiali e delicate lavorazioni dei frutti della terra.
Inorridisco davanti alle campagne promozionali che invitano, incitano, prescrivono la lettura, l’acquisto di un libro, la frequentazione di librerie. Ho l’impressione che l’industrializzazione della cultura allontani piuttosto che avvicinare il possibile fruitore di pagine stampate. Nessuno, se non mio padre, mi ha mai detto che leggere è un dovere. L’ho sempre considerato un piacere, scoperto poco a poco, accompagnato dal sottile fremito della scoperta.
È così che ho fatto mio il libro, immergendomi in esso voluttuosamente, afferrandolo con rabbia e con dolcezza, con impazienza e con sufficienza, con disappunto e con gioia. Sempre con amore. Un amore tutto mio e mai indotto. Piuttosto il libro mi ha sedotto. Ecco, il suo potere. La seduzione appunto. Non diversamente da come attrae un corpo desiderato che non attende altro se non di essere accarezzato, spogliato, posseduto. Il libro è un segreto da violare, ma poi da custodire. Non so quanti nell’industria editoriale del nostro tempo hanno mai immaginato la creatura che fabbricano nel modo in cui si manifesta poi tra le mani e davanti agli occhi del lettore che per esso ha concepito un luogo di ricovero, una infinita vita, una dimestichezza familiare. Credo nessuno.
Davanti alle pareti della mia biblioteca non posso che rendere omaggio alla parola e alla vista. Un rito che ormai distrattamente compio tutte le volte che mi soffermo a cercare un libro. E avverto un senso di conquista quando immergendomi, sia pure occasionalmente, come per dare corpo ad uno studio, in un volume vi ritrovo spunti che rendono non soltanto più ricco il mio spirito, ma soprattutto più forte la mia mente salvo cadere nello sconforto prendendo contezza della mia abissale ignoranza.
Il libro è, dunque, lo strumento di misurazione del limite. È l’antidoto all’orgoglio. È il lascito della sapienza di qualsiasi livello che comunque attiva lo spirito critico ed attrezza alla meditazione. Perciò tante volte mi sono detto che se in un eventuale diluvio universale mi fosse concesso di salvare una sola cosa materiale, non avrei esitazione: il libro. Certamente non saprei quale e quanti. Ma fosse pure uno solo sarei contento perché con esso porterei l’umanità che c’è dentro, la vita della parola incarnata, della memoria che si fa storia. E poi come non considerare che è sempre da un libro che si incomincia qualcosa? Nessuno può dire di aver intrapreso dal nulla. Un inizio c’è stato. Non lo si ricorda spesso, ma frugando nel proprio passato ognuno ammetterà che un libro se non ha cambiato la sua esistenza, certamente ha contribuito ad un’avventura spirituale, culturale, morale o materiale, o anche la più umile per un alfabetizzato naturalmente.
Basterebbe questo, credo, per non lasciarsi abbindolare dalle mode che vorrebbero “costringere” ad amare il libro, come da altre tendenze secondo le quali il libro è già finito e non resta che cantare il de profundis alla sua illacrimata sepoltura. Franklin Delano Roosevelt, in un messaggio all’America, se non ricordo male nel 1942, in piena guerra mondiale, disse: «Tutti sappiamo che i libri bruciano: ma sappiamo anche che i libri non possono essere uccisi dal fuoco. Gli uomini muoiono, i libri non muoiono mai. Nessun uomo, nessuna forza possono abolire la memoria».
Che una considerazione del genere l’abbia fatta un politico non deve sorprendere. Una volta i politici, anche quelli meno grandi, leggevano, studiavano, si preparavano, approfondivano. Oggi affidano le loro balbettanti frasette a ghostwriter che le trasformano in dispacci di agenzia o in discorsi melensi e affatto attraenti, quando non si lasciano sedurre dai centoquaranta caratteri di Twitter per formulare un pensiero. Fa parte della decadenza. Come la stesura di certi libri: materiale scadente frutto di editor che sanno come appagare palati poco esigenti.
Sui banchi delle librerie sostano per qualche settimana prodotti seriali come dentifrici e saponette, ma neppure questo toglie dignità al libro in quanto tale: basta saperlo riconoscere, sceglierlo e ricoverarlo tra quelli che sono destinati a restare. Secondo alcuni sono pochissimi, secondo altri sono numerosi. Per ciò che mi riguarda mi attengo al criterio di Heinrich Heine: «Un libro, come un bambino, ha bisogno di tempo per nascere. I libri scritti in fretta mi ispirano diffidenza nei confronti dell’autore. Una donna per bene non dà alla luce un figlio prima dei nove mesi di rito».