Il progetto è stato coltivato a lungo. Il sogno è addirittura antico. Nel corso del tempo soltanto chi ha voluto negarla per motivi puramente ideologici si è ostinato a decretare l’inesistenza della cultura della destra in Italia. Ma il progetto ed il sogno – nonostante l’ignoranza proterva di una sinistra senza miti e senza idee – non sono mai venuti meno, neppure quando, nell’oscurità mediatica, si elaboravano idee e generazioni di intellettuali si avvicendavano per tener desta, con mezzi a dir poco scarsi, ma tutt’altro che scadenti, quella cultura che contestava in radice il radicalismo progressista, il relativismo ottuso, il sistema della menzogna (soprattutto di marca socialcomunista).
Ora, tra lo sconcerto degli orfani delle dimore dorate, dove si sono rinserrati ad elaborare il lutto, rinasce a nuova vita, e finalmente se ne parla per l’ovvio motivo che quella cultura negletta non può essere più sottovalutata per il semplice fatto che è la cultura del governo del Paese o, almeno, l’ispiratrice, a grandi linee, della sua azione. E che l’ “assalto”, come qualcuno lo qualifica, della destra culturale alle istituzioni formative è un atto che si consuma senza il permesso di alcuno, non mi pare davvero contestabile.
La mitezza nella fattispecie non si addice al governo della destra che pur senza vantare egemonie che ripugnano al suo modo di essere imperniato attorno al civile concetto di pluralità (accidente storico mai condiviso a sinistra dove il disconoscimento dell’avversario si è sempre espresso come dileggio sistematico) . E allora se l’elettorato ha deciso che questa parte di “infedeli” del conformismo e del pensiero unico debba prendersi quel che le spetta, non è un abuso, ma una naturale acquisizione di spazi nei quali praticare il dialogo ed il confronto, senza esclusive, senza arroccamenti, lontani da ubbie vetero-gramsciane o neo-globaliste.
Le donne e gli uomini che si riconoscono qualche qualità ed operano nell’ambito della destra politica è fin troppo logico che non avranno l’impudicizia di certi politici del centrodestra del passato che hanno lasciato in ogni dove chi vi avevano trovato, ereditandoli dalla sinistra che aveva riempito ministeri e anfratti underground del suo personale militante, sopratutto nei luoghi dove alberga l’amministrazione della cultura. E ciò a taluno fa orrore, a talaltro schifo, ma la realtà di una politica della “presenza doverosa”, senza voler togliere a nessuno il diritto di coltivare il suo orto, è non soltanto logica, ma perfino utile nella visione di un’Italia più colorata, nella quale oltre al pensiero conforme, alla cancel culture, alla cultura woke (ultimo spregevole tentativo di buttarla sul razzismo e l’intolleranza quando non si condividono i precetti del politically correct), sia attiva e riconosciuta nell’offerta pubblica innanzitutto ciò che a vario titolo è cultura di destra.
La destra, senza infingimenti, ma esplicitandolo con chiarezza, sembra voler valorizzare ciò che è dominante nel sentimento di appartenenza nazionale, testimoniato dal recente esito elettorale, ma al quale finora non è stata data voce. E non ci pare una bestemmia. Dalle tradizioni tradite alla cultura del merito; dal riconoscimento dei corpi intermedi alla visione sacrale della vita; dalla modernizzazione sostenibile alla tutela della natura (che nulla ha a che fare con certo ambientalismo ideologico); da un’idea di dignità e appartenenza nazionale al riconoscimento dell’Europa delle culture e delle genti; dal differentismo all’inegalitarismo qualitativo (che non vuol dire negare le possibilità di affermazione a nessuno: proprio per questo il merito – svillaneggiato dai sostenitori dell’accattonaggio di Stato – è un asset della cultura della destra che si fa governo delle particolarità). E poi, molto altro ancora nel campo dell’arte e delle scienze umane, non meno che in quelle tecnico-scientifiche con l’avvertenza che il totalitarismo scientista e tecnologico è da avversare piuttosto che da incoraggiare.
Insomma, per farla breve, la cultura della destra che non intende dare l’assalto al cielo, ma limitarsi a costruire i presupposti di un nuovo rinascimento comprensibile e fruibile riuscirà a non imporsi egemonicamente, ma molto più civilmente come un modello critico intessuto di molte parole e concetti fin qui negati allo scopo di rendere fruibile la Bellezza e farne un caposaldo della sua politica tesa al ripristino dei canoni civili a cui conformare l’esistenza della comunità.
L’ effervescenza intellettuale come risposta al conformismo politico. Il bagliore delle idee che acceca la noia del vuoto televisivo e generalmente mediatico. Le riscoperte mondate dalla retorica come vendetta postuma contro tutti coloro che hanno negato il fervore culturale di tempi gremiti da autentici geni che hanno completato la costruzione dell’Italia con lo sfavillio dell’intelligenza.
Questi gli elementi di una prospettiva ambiziosa. E poi rimanderà agli epigoni della sconfitta della fantasia l’insulto ostinato per decenni indirizzato a chi non si è riconosciuto nella vulgata del cretinismo italico intessuto di velleità abrogazioniste della memoria e della trasgressione intellettuale seppellendo scrittori, saggisti, artisti, poeti, creativi anticonformisti e avversari del modernismo sotto le fredde coltri dell’indifferenza quando non della dannazione sistematica.
La reazione all’acquiescenza davanti al colonialismo culturale, firmata con sangue annacquato la resa dell’Occidente, è lo sbocco naturale di una destra che ha nel suo codice genetico i principi dell’orgoglio nazionale e la propensione alla difesa spirituale della comunità nazionale. E se nulla vuole imporre, certamente non intende abdicare a se stessa disconoscendo le sue radici e appiattendo il suo carattere. Non è tracotante usurpazione, ma vitale disposizione in ossequio al mandato ricevuto. E non si limita a razzolare nel proprio recinto. La cultura che veniva definita dei “vinti”, in verità, dilata la propria influenza anche a partibus infidelium; mentre quella dei “vincitori” di un tempo, sembra di capire, si trincera dietro le paratie dell’odio elementare , esplicitato dagli “addetti ai livori” per non mostrarsi nuda, come certi scrittorelli che hanno goduto di fama immeritata monopolizzando salotti televisivi e lo star system editoriale per oltre mezzo secolo.
Cinquant’anni fa ci fu chi invocò l’istituzione di una sorta di “cordone sanitario” attorno a quella che venne chiamata, definita, elogiata e dileggiata come “cultura di destra”. Dopo tanto tempo non c’è più bisogno di difendersi dagli affronti e dalle volgarità meschine di saltimbanchi che da Berkeley a Francoforte celebravano patetici sabba intellettuali nel nome del progressismo. Hanno saltato nel cerchio di fuoco del comunismo morente e si sono bruciati. Non resta più niente del freudo-marxismo o del libertarismo teso a legittimare la distruzione di tutto ciò che è naturale: dall’aborto alla distruzione della famiglia, alla fine della genitorialità, alla costruzione di un roveto di perversioni che disegnano la modernità decadente, l’approdo nichilista.
Il “mondo peggiore”, come lo definiva Vintila Horia, sta avendo quel che si merita. Almeno sul piano culturale. Egemoni del nulla vedono grandi editori pubblicare autori infamati per decenni; ignoranti appesi alla scuola “libera” quanto indecente si devono sorbire romanzieri e saggisti di ieri e di oggi che diventano “casi” culturali come Jean Raspail, che ci lasciò due anni fa, con il suo Campo dei Santi o Dominique Venner con la sua atroce testimonianza di francese, europeo, occidentale e tutti gli iconoclastie rivoluzionario-conservatori che nietzescheanamente si sono posti al di là del bene e del male nel contrastare, sfidando isolamento ed empietà, il conformismo intellettuale.
Davanti allo scompiglio, piccole, nel senso delle dimensioni, realtà editoriali ed intellettuali stanno facendo tornare la destra plurale ricca di proposte e di suggestioni che fanno intuire i segni di una rinascita che pochi consideravano possibile soltanto qualche tempo fa.
Ed è naturalmente plurale la destra – comunque la si voglia declinare, ma un nome bisognerà pur darglielo ! – perché le sue facce, come un solido poliedro, sono molteplici ancorché ispirate ad un principio unico ed unitario. tradizionalista e reazionaria, conservatrice e spiritualista, nazionalista e solidarista, perfino etologica ed ecologista: le definizioni connotano la ricchezza della destra plurale e diffusa.
Non ci si lasci ingannare, tuttavia, da chi pretende l’esclusiva del marchio. Sarebbe un’onta per un pensiero fecondo che oggi sta conoscendo, grazie soprattutto a giovani intellettuali, una stagione di “ritorno” nella quale non s’intravedono le contrapposizioni di un tempo, ma piuttosto la ricerca della composizione di una “nuova cultura” nella quale, con intelligenza tutto si tiene poiché per affermare un’idea ispirata al diritto naturale, come fondamento del futuro, non si può prescindere da apporti diversi tendenti ad un unico obiettivo.
Mezzo secolo dopo la coltivazione della dannazione sistematica, i frutti di quella cultura di destra, così ingenuamente da taluni riguardata e da altri vilipesa, forse stanno maturando. E saranno raccolti per tempo. Non sembra ci sia nessuna intenzione di farli marcire.