Ho avuto la fortuna, in anni purtroppo ormai lontani, di “frequentare” le cosiddette “lingue morte”. Nel collegio benedettino della Badia di Cava de’ Tirreni. Certo, non ero lieto, dedicandomi a quegli studi sapendo di dover subire interrogazioni durissime. E pertanto perfino i canti di Omero e di Virgilio, per quanto appassionanti, finivo per trovarli “terrorizzanti”. Ma con il passare del tempo, e soprattutto svestiti gli abiti dello studente, ho potuto apprezzare gli insegnanti ricevuti e ringraziare il Signore di avermi dato maestri capaci di introdurmi nel vasto mondo dell’antichità classica nel quale, manco a dirlo, ho poi scoperto le radici della cristianità (a chi non è d’accordo suggerisco la lettura di un prezioso saggio in merito della grande Simone Weil), oltre ad una complessiva visione del mondo e della vita che ha connotato la mia esistenza.
Ho ripensato, di recente, ai miei vecchi studi riflettendo sullo stupido assioma secondo il quale il greco ed il latino sarebbero “lingue morte”. I tempi, talvolta, ci riservano sorprese che stupiscono perfino chi dagli stereotipi della modernità si è sempre tenuto lontano. Infatti, da qualche tempo si assiste ad una rivalutazione, davvero in controtendenza con lo spirito dei tempi, di entrambe. Studiate con crescente successo in molte università occidentali, e non solo, vengono quasi universalmente riconosciute come le fonti del sapere universale e della logica. Curiosamente in Italia, almeno nelle scuole e nelle università, continuano ad essere sottovalutate. E ciò spiega, secondo alcuni esperti, il degrado della stessa lingua italiana che non si avvale più della conoscenza del greco e del latino le cui “costruzioni” fraseologiche e sintattiche, di derivazione indoeuropea, sono per secoli state – sia pure in versione “volgare”, come diceva Dante – i fondamenti della nostra lingua.
Se, come acclarato, gli studenti scrivono male è senz’altro perché si offre loro un pessimo insegnamento dell’italiano nelle scuole primarie e secondarie, ma anche perché il greco ed il latino sono stati inopinatamente banditi in ragione della loro indimostrata “inutilità”. Ci stiamo privando, generazioni dopo generazioni, di una preziosa miniera dalla quale estrarre non soltanto l’eleganza della parola scritta ed orale, ma soprattutto la profondità di concetti che “tradotti” non rendono come nell’originale. Sarebbe il caso che i numerosi “sovranisti” improvvisati, a cui sta a cuore evidentemente soltanto la moneta, si prendessero cura almeno un po’ anche della sovranità dell’idioma se è vero che il biglietto da visita di un popolo è la sua lingua. E questa non nasce dal nulla.
E’ vero, come hanno scritto in un appello-manifesto nel 2017 intellettuali ed accademici, indirizzato alle istituzioni rappresentative (perdita di tempo considerando che proprio la legislazione corrente ha ridotto nello stato penoso in cui si trova la scuola italiana, a cominciare dalle elementari e finendo al liceo classico!) che “è ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”. Ma è altrettanto vero che ciò accade per una sorta di idiosincrasia ideologica innestatasi nelle riforme scolastiche che si sono susseguite dalla fine degli anni Sessanta tese ad isolare l’italiano dalle sue radici che sono appunto il latino ed il greco. Gli stessi firmatari, tra i quali Canfora, Cacciari, Galli Della Loggia, sono consapevoli che ”a fronte di una situazione così preoccupante il governo del sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico più o meno da tutti i governi. Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema”.
Motivazioni e argomentazioni largamente condivisibili, ma non ci aspettiamo molto conoscendo l’insensibilità in materia della classe politica. La coscienza a cui si fa riferimento dovrebbe essere modulata nell’ambito di una scuola profondamente riformata. E’ tra le sue mura che la lingua italiana muore ed i suoi funerali li celebrano i giornali, la televisione, i nuovi media eccetera.
Basterebbe, comunque, che si tenesse conto che la lingua potrebbe non smarrirsi, se la sua struttura venisse adeguatamente insegnata, neppure con la prevalenza comunicativa delle tecnologie all’avanguardia.
Ce lo ricorda in un libro di grande interesse, ritrovato insieme con altri nel tentativo di mettere ordine nella mia biblioteca, di Giuseppe Antonelli, docente universitario di Linguistica: “Un italiano vero” (Rizzoli) nel quale, pur asserendo che l’italiano perfetto non esiste, che esso continua a cambiare, offre una suggestiva analisi di come si parla e si scrive al tempo di internet. Non è affatto scontato essere sgrammaticati, insomma. Perfino usando WhatsApp e tutte le diavolerie informatiche si può praticare un buon italiano. “Digito ergo sum”, insomma, non vuol dire mandare all’aria congiuntivi e condizionali, né banalizzare la scrittura ed il linguaggio al punto di renderli un balbettio incomprensibile. “La nostra lingua ci nutre – scrive Antonelli che offre un panorama vasto della modernità espressiva insieme con la riproposizione delle radici linguistiche che quasi tutti purtroppo oggi ignorano – educa i nostri pensieri e i nostri sentimenti, plasma la nostra visione del mondo. Tutti noi le dobbiamo tantissimo e per questo merita tutta la nostra riconoscenza: la nostra attenzione, il nostro studio, la nostra cura. Questa è la lingua. La lingua siamo noi”.
Ma per comprenderne meglio il senso, dovremmo anche sapere dove nasce e come si è formata la lingua italiana. Da due lingue che, come dicevo, morte non sono.
Il greco, innanzitutto. Ce lo ricorda la giovane ed appassionata grecista, Andrea Marcolongo con il godibilissimo libro La lingua geniale. Nove ragioni per amare il greco (Laterza). Un libro che parla di un amore, la storia più lunga ed intensa della sua vita, ammette l’autrice, dalla quale ha tratto non soltanto la conoscenza di una lingua viva come poche altre per ciò che riesce a trasmettere, ma anche una concezione della vita, se così si può dire, che l’ha quasi trasformata. Una lingua “spirituale”, insomma, la cui dimensione sintattico-grammaticale, per quanto importante, resta comunque accessoria. E la lettura dei classici dovrebbe provarlo ampiamente, al di là di ogni ragionevole perplessità. Purtroppo, scrive la Marcolongo, ci avviciniamo a questa eredità culturale da diseredati e da disadattati: “Se anche proviamo a riprenderci una briciola di ciò che la grecità ci ha lasciato in dote siamo vittima di uno dei sistemi scolastici più retrogradi e ottusi del mondo”. Questo è il punto. Inconfutabile. Infatti, la studiosa aggiunge: “Il liceo classico, così come è strutturato, sembra non avere altro scopo che mantenere i Greci ed il loro greco i più inaccessibili possibile, muti e gloriosi lassù nell’Olimpo, avvolti da un timore reverenziale che si trasforma spesso in un terrore divino e in una disperazione molto terrena”. A chi non sovvengono le “sofferenze” adolescenziali leggendo queste righe? Ma c’è di più. La Marcolongo osserva che “i metodi di apprendimento in uso, fatta eccezione per pochi e illuminati insegnanti, sono una perfetta garanzia di odio anziché di amore per chi osa avvicinarsi alla lingua greca. La conseguenza è la resa totale di fronte a questa eredità che non vogliamo più, perché appena la sfioriamo non la capiamo e scappiamo via terrorizzati”.
Questa è la verità. Tragica, ammettiamolo. Anche per le conseguenze non soltanto nella sfera dell’apprendimento. “Il greco antico, a partire da Omero, scelse di conservare l’originalità indoeuropea e quel modo puro e antico di vedere il mondo, senza tempo”, dice la Marcolongo. Ecco che cosa abbiamo perduto lasciando il greco bruciare nelle mani di burocrati ignoranti consapevolmente votati alla distruzione del retaggio di alcuni millenni di civiltà.
Lo stesso si può dire per il latino. Inarrivabili ignoranti abusivi dell’amministrazione scolastica ed universitaria, nell’ultimo mezzo secolo l’hanno declassato, umiliato, abrogato. E’ evidente che si può vivere senza Properzio e Catullo, Cesare e Cicerone, Ovidio e Tacito, Svetonio e Virgilio… Ma conoscere le origini del linguaggio che comunque, ancorché sciattamente pratichiamo, è non soltanto eticamente doveroso, ma anche necessario. A scuola, purtroppo, non s’insegna più la costruzione della frase e la logica: occorrerebbe per farlo appunto la dimestichezza con li latino. Troppo complicato. E in fondo, si sostiene, serve a qualcosa? Una “lingua morta” non serve assolutamente a niente. Ma morta non è, Nicola Gardini, docente di letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford, in un libro bello, piacevole e convincente: Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile (Garzanti), talmente “inutile” che lo studioso confessa: “Grazie al latino non sono stato solo. La mia vita si è allungata di secoli e ha abbracciato più continenti. Se ho fatto qualcosa di buono per gli altri, l’ho fatto grazie al latino. Il buono che ho dato a me stesso, quello, non c’è dubbio, l’ho tratto dal latino”.
Una dichiarazione d’amore, come quella della Marcolongo, che dovrebbe tentare qualcuno ad addentrarsi in questo libro che non è noioso in nessuna sua parte, anzi è avvincente come un romanzo al punto che dispiace girare l’ultima pagina, prendere congedo leggendo l’ultima riga: “Ricominciamo dal latino”. Perché? Per riappropriarci di ciò che si sta spegnendo: la bellezza. Anche la bellezza delle parole, “il dono più grande”, secondo Gardini, che ce la propone nella sua forma più classica: la lingua latina che contiene, se la si sa penetrare, un fascino che va al di là del tempo; una “squisita perfezione”, come diceva Giacomo Leopardi.
“L’indifferenza corrente – conclude Gardini -, benché non universale, nei confronti del latino e spesso il rifiuto e il boicottaggio (anche dall’alto, anche dall’interno) sono sintomi di un sistematico attacco alla letteratura e alla missione che tradizionalmente la letteratura ha assolto e che ancora avrebbe il potere di assolvere meglio di qualunque altra forma di sapere o di comunicazione: dare ordine e senso all’esperienza umana con storie e con metafore; ampliare i confini del vissuto attraverso nuove ipotesi di mondo; formare e trasmettere paradigmi di condotta e di pensiero”. E molto altro, come si può capire. Altro che “lingua morta”.
Sulla stessa lunghezza d’onda si colloca Enzo Mandruzzato con il libro Il piacere del latino (Lindau). Grecista e latinista finissimo, scomparso nel 2002, con la prima edizione di questo appassionato saggio pubblicato nel 1989 lanciò una pietra nello stagno del conformismo. Dimostrò allora e dimostra oggi che viene riproposto che il latino non è defunto, ma vitale, insito nella nostra cultura, riaffiora anche quando non ce ne accorgiamo. E per di più è espressione di una civiltà che per quanto ammaccata mostra ancora segni di vitalità. E’, insomma, la radice dell’identità dell’uomo occidentale, secondo Mandruzzato, che non va assolutamente dimenticata ed è per questo che l’ originale “grammatica” proposta dallo studioso (se così la si vuole intendere) si rivela un libro affascinante e “prodigioso”, come è stato definito. “Il latino – secondo l’autore – è una lingua non parlata ma tantomeno morta. E’ una lingua scritta, come il sanscrito e l’ebraico. Si può parlarla, ma non è questo il fine, chi la sa leggere la sa anche parlare ma l’artificio resta”.
Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.