• 21 Novembre 2024
Editoriale

Sessant’anni fa, il 22 novembre 1963, veniva assassinato a Dallas (Texas) il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Aveva quarantasei anni. Eletto nel novembre 1960, il suo mandato iniziò il 20 gennaio 1961. Le edizioni Oaks per l’occasione ripropongono la raccolta dei suoi Ultimi discorsi (pp. 294, € 24.00) a cura di Gennaro Malgieri dalla cui introduzione pubblichiamo alcuni brani.

La serie di discorsi dell’ultimo anno di vita di John Fitzgerald Kennedy delineano  la figura di uno statista visionario e di un pragmatico politico che non rinuncia a far diventare prassi di governo i suoi sogni. Ed uno di questi, accanto al mito della “Nuova Frontiera”, è l’Atlantico più stretto. Ossia un legame dettato da un comune sentire tra l’Europa e l’America. Il che voleva dire, come dalle sue parole si evince, l’attuazione di un progetto ambizioso di restaurazione della civiltà dopo le due catastrofi mondiali. 

La conferma di questo obiettivo emerge da alcuni dei discorsi più importanti tenuti nel “cruciale” 1963, non soltanto nel Vecchio Continente, ma anche negli stessi Stati Uniti e in altre aree del Pianeta visitate o delle quali si occupava aventi ad oggetto la politica internazionale alla quale conferiva un particolare interesse non soltanto per motivi geo-strategici, ma anche in relazione alla pace nel mondo ed al benessere, ai diritti ed alla libertà  dei popoli. 

Testimoniò con le sue parole, dense di concetti politici avveniristici e fascinose al tempo stesso, un’avversione determinata e priva di qualsivoglia concessione diplomatica, economica e militare al comunismo sovietico, mentre sottolineava in ogni circostanza la necessità vitale per le relazioni pacifiche tra le nazioni dell’unione euro-atlantica, la comprensione delle rispettive e diverse esigenze da armonizzare al fine di contrastare l’impero sovietico e possibilmente smantellarlo. A tale comunità occidentale Kennedy conferiva un’appartenenza speciale, prima morale e culturale e poi politica. Le origini irlandesi della sua famiglia avevano un ruolo significativo nel sentimento che provava al punto che non perdeva occasione per farle “vivere” nei suoi discorsi, nelle dichiarazioni estemporanee, nei colloqui privati e nelle discussioni pubbliche alle quali partecipava.

Il giovane presidente mostrava, insomma, un attaccamento quasi romantico al mondo euro-mediterraneo considerandolo crocevia di civiltà diverse, eppure intrecciate in una storia comune. Visione questa che si fa notare tanto nel viaggio compiuto in Europa del Nord quanto, più in particolare e con maggiore partecipazione, in Italia nel luglio 1963: l’ultima missione in un Paese straniero prima della catastrofe.

L’entusiasmo suscitato dalla missione europea, indusse Kennedy a formulare una calda dichiarazione consuntiva dell’esperienza appena fatta al rientro negli Stati Uniti, pronunciata il 5 luglio, con lo spirito di chi non torna nella sua terra  da un mondo sconosciuto, ma consegna ai suoi connazionali lo spirito di una certezza fondata sulla riconquista della pace e sulla concordia di un ritrovato Occidente come “casa comune”.

“Questo viaggio – disse – è stato per me un’appassionante esperienza. Ho visto un’espressione di speranza e di fiducia sui volti degli abitanti di Berlino Ovest, 160 chilometri al di là del sipario di ferro (curiosa espressione per non dire “cortina”, N.d.C.). Ho ascoltato espressioni di fiducia negli Stati Uniti da parte degli esponenti governativi di Germania e di Inghilterra, d’Italia e d’Irlanda. E ho sentito l’ammirazione e l’affetto che i loro popoli hanno per il popolo degli Stati Uniti. Ma soprattutto in ogni paese ho trovato una profonda convinta fede nei nostri scopi comuni, nell’unità dell’Occidente, nelle libertà dell’uomo, nelle necessità della pace”.

Non mancò Kennedy, dunque, di riferirsi alla indispensabile ricomposizione delle fratture che ancora segnavano l’Occidente riconoscendo tuttavia che l’Europa “va rapidamente diventando una dinamica potenza negli affari mondiali”.

Accenti che rimandano da un lato alle speranze di Oswald Spengler e dall’altro ai progetti “paneuropei” di Richard Coudhenove-Kalergi. Non dimentichiamo le ascendenze culturali conservatrici di Kennedy che soltanto in occasione della sua prima partecipazione ad una competizione elettorale trovò spazio tra i democratici “di destra”.

Nei pensieri di Kennedy il cuore dell’Europa era Berlino, la martoriata Berlino, l’antica capitale del Reich rasa al suolo dalla armate sovietiche che le estirparono l’anima perché di essa non rimasse neppure più il ricordo. Una strage di civili senza precedenti la ridusse ad una città fantasma e l’ultima battaglia fu il grido di dolore di un popolo che non c’entrava niente con la guerra stessa, vittima di un conflitto rispetto al quale le responsabilità dei civili erano semplicemente inesistenti. A Berlino il presidente americano pronunciò alcuni discorsi che restano nella sua stessa storia personale ed in quella universale della ricomposizione di un Continente in parte soggiogato dal sovietismo stalinista. 

Nella capitale distrutta, Kennedy lanciò un monito storico che ancora oggi, soffiando i venti di guerra alle porte dell’Europa libera provenienti da Est, è  quanto mai attuale. Il 26 giugno sulla Rudolph Wilde Platz, di fronte al Rathaus Schöneberg, il Municipio di Berlino Ovest, Kennedy tenne il discorso più appassionato e coinvolgente del suo soggiorno tedesco. “Duemila anni fa – disse con voce ferma e possente -, il vanto più grande era questo: ‘Civis Romanus sum’. Oggi, nel mondo della libertà, il maggior vanto è poter dire ‘Ich bin ein Berliner’”. Ed invitò a raggiungere Berlino, visitarla, amarla tutti  coloro che non comprendevano quale fosse “il gran problema che divide il mondo libero dal mondo comunista”.

Proseguì incitando “taluni i quali dicono che il comunismo rappresenta l’ondata del futuro. Che vengano a Berlino. E ci sono poi alcuni che dicono, in Europa e altrove, che si potrebbe lavorare con i comunisti. E vengano anche questi a Berlino. E ci sono persino alcuni pochi i quali dicono che è vero, sì, che il comunismo è un cattivo sistema, ma che esso consente di realizzare il progresso economico”. Lass sie nach Berlin kommen (Lasciate che vengano a Berlino). Come a dire: lasciate che vengano e vedranno con i loro occhi il dramma della divisione.

E infine, riferendosi all’emblema del sistema comunista piantato nel corpo vivo dell’Europa, il Muro costruito un anno prima, rivelò, come leader del mondo libero, che “sebbene il Muro rappresenti la più ovvia e lampante dimostrazione degli insuccessi del sistema comunista dinanzi agli occhi del mondo intero, non ne possiamo trarre soddisfazione”. Per Kennedy esso rappresentava “un’offesa non solo alla storia, ma un’offesa all’umanità, perché divide le famiglie, divide i mariti dalle mogli e i fratelli dalle sorelle, e divide gli uni dagli altri i cittadini che vorrebbero vivere insieme”.

Questo discorso, pronunciato davanti a 250 mila persone sessant’anni fa, resta ancora oggi la più esplicita e potente condanna del sistema sovietico formulata da un capo di Stato che, in un’epoca ormai lontana e mentre tutto dimostrava il contrario, egli pose nei cuori dei berlinesi, dei tedeschi tutti un sogno, una certezza: quando il giorno della liberazione sarebbe arrivato “la popolazione di Berlino Ovest potrà avere motivo di misurata soddisfazione”. E tutti gli uomini liberi “ovunque si trovino, sono cittadini di Berlino. Come uomo libero, quindi, mi vanto di dire ‘Ich bin ein Berliner’”(…)

Qualche giorno dopo, raggiunta l’Italia, Kennedy ebbe immediatamente per la nostra nazione parole politicamente impegnative e dunque importanti, ma anche affettuose, come pronunciate da un vecchio amico dando l’impressione di sentirsi a casa sua. All’arrivo a Fiumicino, rivolgendosi al presidente della Repubblica Antonio Segni, infatti, disse: “L’Italia occupa una posizione di importanza strategica, vitale per la sicurezza dell’Europa, vitale per la sicurezza degli Stati Uniti. Nel cuore dell’Europa, protesa com’è nel Mediterraneo verso l’Africa, il mantenimento di una libera democrazia qui in Italia è di grande interesse – di vitale interesse – non solo per il vostro stesso popolo, ma anche per tutti noi che speriamo nella libertà”.

Venne, dunque, Kennedy, in “questo antichissimo Paese” per rafforzare l’intima amicizia che caratterizza i rapporti con gli Stati Uniti. Ed elencò: “ Per la Nato siamo alleati. Per necessità ci siamo uniti. Per amicizia troviamo che questa unione è quanto mai armonica”.

Le Destre, che ne avevano appoggiato la candidatura, furono particolarmente soddisfatte delle allocuzioni kennedyane, a differenza delle Sinistre che si sarebbero appropriate dell’immagine del presidente facendone un’icona soltanto dopo qualche decennio, le quali mal tollerarono i discorsi di Berlino e lo stretto appeasement con l’Italia che senza dubbio avrebbero volentieri  visto legata a Mosca piuttosto che a Washington. (…).

“Sono venuto in Europa – disse Kennedy rivolto al sindaco ed alle autorità della Capitale – , e concluderò il mio viaggio domani, perché sono fermamente convinto che l’Oceano Atlantico dovrebbe essere per tutti noi sulla sponda orientale o su quella occidentale di esso, un ‘mare nostrum’, dovrebbe essere un legame che ci unisce e che sia essenziale per il  mantenimento della libertà in entrambi i nostri continenti e, in effetti, in tutto il mondo, che gli Stati Uniti e il Canada da una parte e l’Europa dall’altra operino nella più stretta armonia”.

Non potevano i comunisti ed i loro alleati minimamente condividere queste parole del leader dell’Occidente quando al Cremlino dominava Kruscev. Così come è del tutto leggendario che un rullino di foto che immortalavano gli incontri con i dirigenti delle Sinistre sarebbe stato sequestarato Se è vero che Kennedy non si oppose al varo del primo centrosinistra guidato da Aldo Moro, evitando in tal modo interferenze nella politica interna di una nazione alleata, è leggendario, come rivelò “La Repubblica” il 16 gennaio 2011, che tra il presidente americano, Palmiro Togliatti e Pietro Nenni vi furono dei conciliaboli. Le “anime pie” del PCI che vent’anni dopo cominciavano a capire da che parte stava per incominciare a soffiare il vento della storia, “scoprirono” il kennedysmo, la “Nuova Frontiera”, i diritti civili e qualcuno perfino il patriottismo americano  mentre rinnegava il comunismo del quale paradossalmente era uno dei maggiori giovani esponenti destinato ad una folgorante carriera.

Ricordiamoci come reagirono il Pci e la stampa fiancheggiatrice al saluto di commiato al Quirinale la sera del 1 luglio. Gli affilati commenti non possono far dubitare del solco profondo che divideva Kennedy dalle Sinistre. Rivolto al presidente Segni e ai dignitari della Repubblica, Kennedy pronunciò un forte discorso nel quale, tra l’altro disse: “Soldati, marinai, aviatori italiani e americani prestano servizio fianco a fianco in questo Continente. Statisti italiani hanno svolto un ruolo di grande importanza nell’edificare l’unità europea e la associazione atlantica. Diplomatici e soldati italiani hanno avuto una funzione determinante nel preservare la vitalità e le garanzie delle Nazioni Unite. E malgrado un fuoco di fila sia di attacchi che di lusinghe da parte dell’Est comunista, l’Italia si è mantenuta rigorosamente ai principi della pace e della libertà. Il mio Paese crede nella pace. Noi crediamo che il mondo sia un tutto unico, che Est e Ovest possano imparare a vivere insieme nel rispetto della legge, che la guerra non sia inevitabile, e che il mettere efficacemente fine alla corsa agli armamenti offrirebbe maggiore sicurezza che il protrarsi di essa a tempo indefinito (…) E trovandomi in questo Paese desidero assicurarvi ancora una volta che, per le ragioni che ho già enunciato precedentemente nel corso di questo viaggio, gli Stati Uniti d’America considereranno  qualsiasi minaccia alla  vostra pace e libertà come una minaccia alla propria, e che noi non esiteremo a reagire di conseguenza”.

Prima di lasciare l’Italia la mattina del 2 luglio da Napoli Kennedy dice che “E’ giusto che i miei viaggi lontano dalla mia Patria abbiano termine in questo Paese e in questa città. L’Italia, scrisse Shelley è il Paradiso degli esiliati. In questo mio breve esilio dal clima di Washington ho immensamente goduto questo Paradiso come ultima tappa del mio viaggio in Europa”. (…)

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.