• 23 Novembre 2024

Molti, ma molti anni fa un giovane Benedetto Croce studiava all’Archivio di Stato di Napoli quando fu interrotto da due impiegati che litigavano per un tavolino. “Cosa c’è?”, disse lo studioso. “E’ il tavolino di don Dima Ciappa e porta fortuna”, fu la risposta. “E chi era don Dima Ciappa?” chiese il giovane Croce. “Un impiegato del nostro Archivio che fu impiccato ai primi del secolo”. “Per motivi politici?” incalzò Croce. “No. Per mandato di assassinio a causa di una donna. E don Dima Ciappa era prete”.

Inizia pressappoco così il racconto “Il tavolino dell’impiccato” che Croce scrisse nel 1902 e che fu pubblicato nel 1914 nel libro Aneddoti e profili settecenteschi curato da Salvatore Di Giacomo e che la Adelphi inserì nella raccolta del 2006 intitolata Un paradiso abitato da diavoli. Ma che fine ha fatto quel tavolino? Esiste ancora e, passato di mano in mano tra gli impiegati dell’Archivio, è ora giunto all’archivista Lorenzo Terzi che, sentendosi un po’ fortunato e un po’ onorato, ha realizzato un video che si può seguire su YouTube: La casa delle storie – Dima Ciappa e il tavolino dellimpiccato.

Dima Ciappa era uomo religiosissimo, discendeva da una famiglia che aveva sempre servito il Trono e l’Altare, era cavaliere dell’ordine costantiniano, confessore di monache. Ma aveva una seconda e forse tripla vita. Era avido ed esercitava l’usura dando anticipazioni ai “pensionisti”, religiosi e militari, con tassi d’interesse che salivano al cinquanta per cento in pochi giorni. Ma di tanti soldi che ne faceva il sacerdote archivista? “Don Dima Ciappa era un gran donnaiolo – dice Croce –: ecco il suo segreto”. Ed ecco la terza vita. Fu proprio una donna che, quando don Dima aveva ormai 54 anni, gli fece perdere la testa: la giovane e bella Giuseppina Pinto che prestava le sue arti e bellezze nella suburra napoletana “nel sozzo vico Politi” con la protezione di tal Francesco Miranda e sua moglie Anna Polinini.

La bella Giuseppina faceva girare la testa anche al giovin signore, cavaliere Carlo Capecelatro. I due, don Dima Ciappa e il Capecelatro, furono messi in gara tra loro a tal punto che prima vennero a parole forti – “straccione”, “usuraio” – e poi don Dima, sentendosi ferito per l’età nell’onore virile, passò ai fatti: “Sborsò seicento ducati d’oro e fornì un pugnale al Miranda, che promise di sbarazzarlo presto del rivale”. Così la sera dell’8 marzo 1817, a capo del vico dei Politi a Magnocavallo, Carlo Capecelatro fu trovato agonizzante. Spirò senza sapere chi fosse l’assassino. In poco tempo la polizia risalì ai coniugi Miranda che confessarono il delitto e il nome del mandante: don Dima Ciappa. Il quale non negò le sue avventure erotiche e chiese la grazia che il Re negò. Fu impiccato l’11 agosto 1818 nel cortile di Castel Capuano.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.