• 3 Dicembre 2024
La mente, il corpo

Cave canem (attenti al cane) era la scritta che gli antichi romani affiggevano davanti le  case per mettere in guardia le persone della presenza di un cane. Da questo monito latino mi è sopraggiunta una riflessione. Il dito viene sempre puntato sul cane, sul lupo della favola, su chi insomma, se messo in condizioni di reagire in malo modo per motivi vari, viene additato come aggressore da sopprimere in qualche modo. Allora mi sono detta, ognuno di noi può appendersi al collo  il cartello con su scritto “cave canem”, perché tutti possiamo diventare potenziali aggressori di qualcun altro, se messi in situazioni di pericolo, di stress emotivo o di violenza. La società odierna il più delle volte esposta in prima pagina sui rotocalchi, mostra una violenta avversione nei confronti dei propri simili. Una rabbia insita che probabilmente esprime repressione e problematiche a molti sconosciute. 

Quindi il discorso è meno semplicistico di quanto si creda. Una società di cui si parla sempre in terza persona è segno della mancata consapevolezza che tutti ne facciamo parte e, in quanto comunità, siamo investiti da una responsabilità civile e umana. Allora mi chiedo – esiste ancora un senso civico di comunità in questo momento storico e culturale? 

La violenza di genere, le aggressioni per futili motivi, sono la punta dell’  iceberg di un sommerso che spesso e volentieri si fa finta che non esista. Si guarda solo all’ effetto senza studiarne le cause. Andando ad osservare il mondo dei nostri ragazzi per esempio, la cronaca ci spiattella tutti i giorni notizie su risse, accoltellamenti, sparatorie, spaccio. Ci diremo sicuramente che sono fatti che negli anni addietro ci sono sempre stati. Può essere vero, ma non nei numeri. Gli eventi di grave violenza tra i giovani sono cresciuti in modo esponenziale. Sono tutti ragazzi pazzi o viziati? Noi adulti ci chiediamo quali sono le nostre responsabilità come genitori, insegnanti o semplici cittadini?

Sappiamo i desideri, le paure, i sogni dei nostri ragazzi, e siamo certi di essere capaci di accogliere i loro veri bisogni?

Partendo dalla musica che i giovani adolescenti ascoltano, per conoscere  meglio il loro mondo, metterei l’accento su due tipologie di generi : il kpop (pop coreano) e la trap. Il pop coreano è una tipologia di musica che ha preso largo tra le nuove generazioni e la sua massima espressione musicale è rappresentata dal gruppo BTS, sette giovani coreani che hanno fondato la loro carriera su testi che parlano di disagi e ribellioni giovanili. Nelle loro canzoni è  presente una ricerca spasmodica di affermare o meglio di scoprire la propria identità, attraverso la caccia del “nome interiore” , simbolo di  autodeterminazione tra una moltitudine omologata da brands commerciali, etichettati e resi anonimi nell’animo.

La trap invece è un genere musicale molto più  diffuso tra i giovanissimi, dal linguaggio violento e sessista, ingravidato di distorsioni  culturali e pregiudizi. Riscontriamo in questi testi la famelica voglia di ottenere dalla vita il lusso, i facili guadagni calpestando la legalità, anche attraverso l’incitamento alla eliminazione fisica di chi può contrastare i loro feroci obiettivi. Un pericolosa espressione quella della trap, che entra nelle camerette dei nostri ragazzi, esclusi dal mondo adulto, sordo e incapace di percepirne il grido di aiuto. Figli dei social, un universo dove tutto corre veloce, dove non c’è tempo per riflettere su quello che si post, perché il valore dei giovani o delle persone in generale è precariamente validato dai likes ricevuti. Una community in cui si parla con migliaia di fantomatici ‘amici’ nella solitudine delle proprie mura domestiche. Tutto corre, anche il mondo che entra nei cellulari dei bambini, degli adolescenti, senza filtri e in quelle stesse mani diventare un’  arma senza controllo.

Siamo noi adulti, tutti responsabili di ciò che accade alle nuove generazioni. Stiamo dando in eredità solo l’incertezza di un futuro; una competizione sfrenata; giovani messi come criceti nella ruota della vita, ad affannarsi in una perenne corsa, senza una meta e senza obiettivi. La responsabilità civile dinanzi a questo disagio giovanile dilagante è chiara. Abbiamo creato una società narcista dove l’Io egocentrato non lascia più spazio al noi come comunità. L’individualismo e la competizione tossica hanno creato tra i nostri figli paure e insicurezze, portandoli a volte al completo isolamento.

Mettersi in ascolto non significa solo sentire le richieste di scarpe firmate, la felpa di quella marca o l’ultimo gioco per la PS, vuol dire invece, dare importanza ai tanti segnali che i giovani ci mandano attraverso le loro ribellioni, le canzoni che ascoltano o il brutto voto a scuola.

Abbiamo tutti il dovere di ridare a questa generazione la speranza in un futuro più inclusivo, nel quale tutti possono far uscire la luce che hanno dentro e ripulirli dalla bruttura di un mondo indifferente, restituendo loro i sogni rubati da una società che non sogna più.

Siamo ancora convinti di poter appendere al collo di questi giovani il cartello con su scritto “Cave Canem”?

Autore

Nata a Solopaca in provincia di Benevento. Da sempre impegnata nel sociale a 360 gradi, appassionata di cinema e di teatro, ha fondato il gruppo teatrale "Ad Majora" per il quale ha scritto nove commedie, di cui sei portate in scena. Ha collaborato con varie associazioni culturali locali come "Associazione non solo anziani" e "Koinè".