• 23 Novembre 2024

Si parla abbastanza e non sempre con cognizione di causa del conservatorismo. Politicamente non si è capito ancora che cosa significhi. Si usa la parola, soprattutto da parte di qualche formazione politica, più come uno slogan che con la consapevolezza. Onde evitare equivoci, consiglio la lettura di un prezioso libro appena uscito: Conservatori. Storia e attualità di un pensiero politico, (Edizioni Ares, pp. 304, € 20) di Marco Invernizzi e Oscar Sanguinetti, con i contributi di Giovanni Otsina, Andrea Morigi, Francesco Pappalardo, Mauro Ronco.

È un libro che ho letto con il piacere di ritrovarci le cose da sempre pensate ed amate. Lo consiglio come una fonte dalla quale dissetarsi in tempi di carestia delle idee. E soprattutto come strumento di apprendimento delle fonti di un’idea che grida la necessità di tenere vive le libertà concrete e soprattutto i valori che scaturiscono dal diritto naturale.

Riflettevo su queste pagine qualche giorno fa. E mi sono venute in mente considerazioni che da molti anni vado facendo perlopiù inascoltato. Eccone alcune in estrema sintesi.

Conservare è istintivo. Connesso alla natura umana. Fa parte del codice genetico della persona. Non si dissipa ciò che si ama. A cominciare dalla vita. E poi si continua con gli affetti, le passioni, le memorie. Tutto questo, e altro ancora, può essere codificato in una dottrina? Credo di sì. E penso che il conservatorismo nasca in questo modo: come dottrina che cerca di sistematizzare il tentativo di non perdere nulla d’essenziale e tradurlo in una politica dello spirito. La consapevolezza di vivere per lasciarsi qualche cosa dietro, formare un’eredità riconoscendo, al tempo stesso, di essere eredi, è un modo di guardare alla vita in una forma che la trascende e contemporaneamente la rinnova. «Chi non pensa che lo scopo dell’esistenza si realizzi nel breve istante, nel momento, nel tempo dell’esistenza stessa è un conservatore», scriveva Arthur Moeller van den Bruck. E, lucidamente, avvertiva che il conservatore, al di là delle definizioni politiche più o meno resistenti all’usura del tempo, «sa che la nostra vita non è sufficiente a creare quel che si propone lo spirito, la volontà, la forza decisionale di un essere umano. Egli vede che in quanto uomini nati in un momento determinato sempre e soltanto portiamo avanti quell’opera che altri hanno intrapreso, e che lì dove noi interrompiamo la nostra opera altri, a loro volta, la porteranno avanti. Egli vede il singolo uomo passare, ma vede permanere l’insieme del nostro operato. Egli vede l’attività fruttuosa di generazioni nelle applicazioni di una sola idea. Ed egli vede nazioni adoperarsi nella costruzione della loro storia».

Si può direche, da questo punto di vista, il conservatore possiede il senso della storia a differenza del progressista che lo nega o del reazionario che neppure si pone il problema di salvaguardare ciò che merita di essere salvaguardato, ma si limita a reagire, con un moto contrario, a eventi che tendono a modificare l’ordine costituito quale esso sia. Se il progressista nega la continuità alla storia perché convinto che soltanto da un certo momento in poi è sorto ciò che merita di essere preservato e considera sostanzialmente tutto ciò che c’è stato in precedenza come avvolto nelle tenebre, il conservatore, ammoniva sempre Moeller van den Bruck, «distingue tutto quel che è avventizio, casuale e privo di consistenza, da quel che bisogna conservare in quanto valore. Egli riconosce quel che permane. Egli riconosce quello che dura. E antepone la sua prospettiva, che abbraccia un lungo tempo in un vasto spazio, a ogni prospettiva di scarso respiro e limitata nel tempo».

Ma c’è dell’altro che qualifica il conservatorismo ed è la visione di un «eterno ritorno» in tutte le vicende umane. Perciò si può parlare di «conservatorismo creativo» perché capace di rinnovare i valori della persona e del popolo nelle istituzioni politiche e sociali. In questo senso esso si distingue dal tradizionalismo sterile. In quanto nel conservatorismo domina la componente dinamica, mentre nel secondo prevale l’atteggiamento puramente reattivo o di rifiuto che lo condanna all’impotenza.

Ciò non vuol dire che la difesa della Trazione non sia uno degli elementi qualificanti il conservatorismo; essa però non lo esaurisce. In relazione al rifiuto della staticità, il conservatorismo assume le fattezze politiche a cui si è naturalmente portati a ricondurlo anche perché, come ha scritto Karl Mannheim, esso implica «un’omogeneità inerente più generalmente alla visione del mondo e ai sentimenti, che può spingersi fino alla costituzione di una determinata forma di pensiero».

Da qui l’irriducibilità del conservatorismo al tradizionalismo e la differenza tra l’agire dell’uno rispetto all’altro che si estrinseca nell’importanza che il primo dà all’impianto istituzionale delle società ben ordinate, mentre il secondo si attesta sulla difesa di valori primari non ponendosi il problema di dare consistenza agli stessi nelle forme giuridiche e sociali.

In questo senso, un grande conservatore tedesco, Gerd-Klaus Kaltenbrunner (1939-2011) sosteneva che «il conservatore ha tenuto fede alla sua vocazione se non intende ciò che solo egli può realizzare come una mera conservazione dei fragili resti di ordinamenti passati, ma come un originale contributo a un nuovo ordine che non solo non è distrutto ma connesso con la vita. Pronto a conservare fedelmente ciò che la storia ha tramandato e a tener testa senza panico alle novità, egli può essere visto come il vero rivoluzionario d’oggi, a differenza dei sedicenti tali. La tetraggine che si rimprovera al conservatore non è presente nella sua natura, poiché questa è portata a interpretare le più gravi distruzioni della storia come ritmi stagionali di un più grande ciclo di rinascite e di rinnovamenti, e a prendere dal passato non la cenere, ma il fuoco».

Il conservatorismo, come si vede, viene declinato in forme e modi diversi. Ma ha una indubbia ispirazione unitaria di fondo. Ispirazione che non può prescindere dall’occuparsi delle nuove tematiche politico-culturali rispetto alle quali sarebbe sciocco considerare il conservatorismo inadeguato. Al contrario, è proprio su temi come l’etica pubblica, la sovranità dei popoli, la salvaguardia delle identità culturali che un moderno conservatorismo può giocare un ruolo decisivo nel contribuire ad affrontarli con il realismo che fa parte del suo codice genetico. Nonostante l’avversione dei “fabbricanti di opinioni”, infatti, è di questo che la dottrina che ha avuto come padre Edmund Burke, è chiamata a occuparsi se vuole dare un senso a se stessa e una prospettiva al suo avvenire, magari incarnandosi in un grande movimento politico che spazzi via le piccole ambizioni storicamente superate. All’insegna, sperabilmente, di quel che diceva Paul Claudel: «Prima che si modifichi il mondo, sarebbe forse più importante non distruggerlo».

Un conservatorismo creativo, ma anche “ecologico” si profila sullo stanco orizzonte delle idee come elemento di innovazione? Bisogna crederci. Diversamente quel sentimento della vita che va preservato attraverso le istituzioni pubbliche potrebbe affievolirsi fino a venire meno. Con tutte le conseguenze prevedibili.

Autore

Giornalista, saggista e poeta. Ha diretto i quotidiani “Secolo d’Italia” e “L’Indipendente”. Ha pubblicato circa trenta volumi e migliaia di articoli. Ha collaborato con oltre settanta testate giornalistiche. Ha fondato e diretto la rivista di cultura politica “Percorsi”. Ha ottenuto diversi premi per la sua attività culturale. Per tre legislature è stato deputato al Parlamento, presidente del Comitato per i diritti umani e per oltre dieci anni ha fatto parte di organizzazioni parlamentari internazionali, tra le quali il Consiglio d’Europa e l’Assemblea parlamentare per l’Unione del Mediterraneo della quale ha presieduto la Commissione cultura. È stato membro del Consiglio d’amministrazione della Rai. Attualmente scrive per giornali, riviste e siti on line.