Liberato Di Lello nasce nel villaggio di Curti, il 13 Gennaio del 1823 alle ore 21, da Giovanni di 52 anni ed Irene Venditto di 40, è l’ultimo di quattro figli, due femmine ed un altro maschio. Alla momento della nascita erano presenti come testimoni Domenico Riccitelli di anni 22, di professione contadino e Don Giuseppe Notargiovanni domiciliato alla Strada Vicinato in Gioja, di anni 33, Possidente ( proprietario terriero).
Giovanni anch’egli Possidente, viveva con la sua famiglia in una abitazione,(ancora oggi esistente), che si affacciava sulla piccola piazza del villaggio di Curti. Giovanni aveva un particolare rapporto di amicizia e di affari con Don Filippo Onoratelli di Piedimonte D’Alife, grosso possidente, e persona ritenuta nel circondario, di grande serietà e sensibilità.
La loro amicizia era così intima, che Don Filippo fece da padrino al battesimo di Liberato. Dell’infanzia di Liberato sappiamo poco o nulla, di certo fu tra quei pochi bambini che ebbero la possibilità di andare a scuola, almeno per gli anni dell’avviamento scolastico. Si sposò, ed in pratica visse in famiglia fino al 1860. Il 1860 fu l’anno della svolta, sia per il Regno delle due Sicilie, che per lo stesso Liberato. A Settembre Garibaldi è a Napoli; a Piedimonte d’Alife Don Filippo Onoratelli è tra i membri del Decurionato cittadino. Ai primi del 1861 iniziano i primi moti reazionari, con l’intento di ristabilire il reame Borbonico.
Ai primi del 1861 Liberato entra nella banda di Ferdinando Ferradino di Alvignano. La banda, composta da oltre 100 individui, diviene in breve famosa. Azioni temerarie di assalto a villaggi e presidi delle forze dell’ordine, furti, grassazioni, estorsioni, rapimenti, fino all’omicidio, fanno di questo gruppo, uno dei più temuti del Matese. Nel volgere di alcuni mesi, grazie alle testimonianze di diverse persone alcuni componenti furono individuati, tra cui Liberato Di Lello. Tra le imprese che lo videro tra i protagonisti, vi fu l’assalto al villaggio di Calvisi nell’Agosto del 1861.
Queste azioni così temerarie incrementarono la caccia alla banda Ferradino e nel volgere di circa un anno la banda si ridusse per l’adozione di sistema di tattica a piccole unità, ma anche per la cattura di Ferradino. Liberato si unì alla banda di Cosimo Giordano di Cerreto, alias “Caporal Cosimo”, ex soldato dell’esercito Borbonico, il quale divenne ben presto uno dei più temerari capobanda del Meridione. Dichiaratosi legittimista in breve iniziò a sfidare le forze dell’ordine. Allorché Liberato si unì alla banda di “Caporal Cosimo”, ne divenne il “Furiere”, l’addetto alla preparazione dei biglietti minatori. Tra i due nacque una amicizia, difficile dire di che natura, ma certo Liberato partecipò a molte delle azioni della banda Giordano, la quale inoltre coprì il territorio da Cerreto fino a Gioja.
Qualche tempo dopo Liberato divenne egli stesso capobanda, coprendo il territorio da
Faicchio fino a Piedimonte d’Alife e con Cosimo Giordano che andò a coprire il territorio da Faicchio fino a Morcone, il Matese occidentale era in pratica sotto il loro controllo armato. Agli inizi del 1863 le due bande erano divenute le più temerarie, temute e pericolose del versante occidentale del Matese. Nel corso di quell’anno dopo numerose intimidazioni a liberali, estorsioni, rapimenti e vari scontri a fuoco, cercati, contro le forze di polizia, la notte del 16 Maggio assaltò la Caserma dei Carabinieri Reali a Gioja dove sostennero uno scontro a fuoco con i militi del 46° Fanteria di guardia all’edificio e con i Carabinieri stessi in servizio. Si comprese che un assalto così temerario ad una forza armata come i Carabinieri Reali, temutissimi dalle bande perché considerati motivati, ben preparati e militarmente efficienti poteva diventare esempio per altre bande. Fu così che si procedette ad istituire posti fissi formati da una forza pubblica mista ( Carabinieri Reali, Guardia Nazionale e Fanteria di Linea) in modo tale da avere un controllo maggiore sul territorio ma soprattutto furono inventati i presidi mobili con l’aggiunta di unità di Carabinieri Reali a Cavallo, per aumentare mobilità e velocità di intervento dei presidi stessi (le odierne Pantere dei Carabinieri). L’idea venne al Colonnello Comandante della 7^ Legione territoriale dei Carabinieri Reali di Napoli per combattere le due bande che imperversavano nel Circondario di Piedimonte e Cerreto. La dislocazione delle forze di Pubblica Sicurezza nel territorio di Gioja fu così composta da 7 Carabinieri Reali situati nella stazione di Gioja, 120 Guardie Nazionali dislocate a Gioja e Calvisi, e 15 militi del 46° Reggimento Fanteria di Linea “Bologna” dislocati a Calvisi nel palazzo Fiondella.
La caccia alla banda Di Lello portò con questo sistema ai primi risultati.
La banda in quell’anno si scontrò diverse volte con le forze dell’ordine facendola da padrone sui propri monti, riuscì coinvolgere queste ultime in vere eproprie battaglie campali, avendo sempre la meglio. Temerario, ed esperto di guerriglia quale era divenuto si spinse a dare un nuovo assalto al villaggio di Calvisi nell’estate del 1863, con l’unico intento di scontrarsi con la Guardia Nazionale e con il distaccamento del 46° di Linea qui stanziato, ci riuscì mettendoli in rotta. L’ultima impresa fu realizzata nella sera del 23 Agosto, quando la banda sopra San Marco a Calvisi attaccò il drappello della Guardia Nazionale di Calvisi comandata dal Capitano Giuseppe Di Nardo e il distaccamento del 46° Fanteria di Linea composto da 15 militi. Questi erano andati in perlustrazione dopo una segnalazione anonima, ed all’improvviso si
trovarono di fronte circa 30 Briganti che aprirono il fuoco contro il drappello di
militi. Lo scontro durò 3 ore, e fu coadiuvato anche dai Carabinieri Reali di Gioja che
avvisati si portarono sul luogo per dare man forte. Ma realizzato che era impossibile
resistere e si rischiava l’accerchiamento le forze dell’ordine furono costrette alla
ritirata, inseguite fino alle porte di Calvisi. Dopo la banda si allontanò verso la montagna sparando per aria e lanciando grida sediziose che furono udite dalla popolazione del villaggio. Ma questa ulteriore azione segnò il declino del capobanda. Nelle settimane che seguirono furono intensificati i controlli ed i pattugliamenti nell’intero tenimento di Gioja e vi furono degli arresti che decimarono la banda. Il 5 Ottobre 4 elementi della banda Di Lello si scontrarono sui monti di Gioja con un reparto misto formato da Carabinieri Reali a Cavallo e soldati del 46° Fanteria di Linea Bologna, e qui rimase ferita Elisabetta Palmieri, amante del brigante Cesare Cassella detto “Cesarone” componente della banda Di Lello. Elisabetta morì il giorno seguente presso l’ospedale di Piedimonte, non prima di aver accusato Don Filippo Onoratelli, (che aveva fatto parte del Decurionato che il 7 Settembre 1860 aveva proclamato il Governo Provvisorio in Piedimonte) di essere colluso con i briganti, in particolare con il Di Lello, essendo Don Filippo il suo padrino di battesimo. Questi avrebbe aiutato il suo figlioccio fornendo viveri, munizioni ed informazioni. A questo punto, venuto a mancare l’aiuto di Don Filippo, la banda si sciolse ed in breve Liberato, solo e senza più appoggi fu catturato il 7 Dicembre 1863 quando una pattuglia di 3 Carabinieri Reali guidati dal Brigadiere Beruti durante una perlustrazione a seguito di una delazione, controllarono un casolare a Curti. Si avvicinarono su due lati, ed il Brigadiere bussò alla porta. Non ebbe risposta ma sentì un rumore, con una rapida reazione sfondò la porta e si trovò di fronte un uomo. Prima ancora che questi potesse reagire, il Brigadiere gli puntò al petto il fucile d’ordinanza. Sul letto ove questi stava riposando vi erano un fucile ed una pistola. L’uomo era Liberato Di Lello il quale non più favorito da Don Filippo Onoratelli, con la banda decimata dagli scontri e dagli arresti si nascondeva nei pressi del suo villaggio. Il giorno dopo 8 Dicembre fu fucilato (senza processo come prevedeva la legge Pica) al Largo della Cavallerizza in Piedimonte. Il suo certificato di morte, tratto dal Liber Mortuorum della Parrocchia Ave Gratia Plena di Piedimonte al numero 99 così recita:
“…. Anno Domini Millesimo Octingentesimo sexagesimo terbio, die vero octava
mensis Decembris, Liberatus Di Lello filius Joannis ed Hirene Venditto conterraneus
Curti in Diocesi Cerretana, aetatis suae annorum triginta duorum. Seditiosus captus
cum mortali lege ignea ballista poena dannatus proemissa sacramentali confessione
infeliciter animam Deo redditit…”
Forse egli, in un ultimo disperato tentativo di salvarsi la vita dichiarò di avere 32
anni, invece di 40. Ma se così fu, non gli servì a nulla. Si chiudeva così un capitolo della resistenza post unitaria nel Matese, che con la cattura e la fucilazione di
Di Lello mitigò in parte le azioni di guerriglia, ma dal punto di vista sociale e politico non cambiò quasi nulla in un luogo dove la legge Pica forse fece più danni delle stesse azioni, condannando poco per volta alla povertà popolazioni che vivevano della pastorizia e della montagna, impedendo agli addetti di restare ai pascoli e di muoversi liberamente sui territori montani.