Dal 24 Gennaio in tutta l’Unione Europea potranno essere venduti e comprati prodotti alimentari a base di polvere di insetti. Una tappa fondamentale della decadenza alimentare, che rivela ben altra decadenza morale, culturale e civile nel nome del profitto. Vogliamo leggere le etichette di queste squisitezze che dovrebbero solleticare il nostro palato?
La farina di grillo avrà come dicitura Acheta domesticus, ma non sottovalutiamo anche la scritta Tenebrio Molitor.
La farina di insetti si potrebbe trovare nei seguenti prodotti: pane, biscotti, crackers,grissini, salse, minestre in polvere, pasta, pizza, miscele pronte per prodotti da forno, latte in polvere, prodotti trasformati a base di patate, snack.
Queste delizie dovrebbero mutare i nostri gusti e soprattutto chissà cosa combinare nei nostri stomaci che, per quanto abituati a digerire schifezze inenarrabili, non credo resteranno indenni dalle nuove succulente pietanze a base di insetti.
Credevamo che l’Unione europea avesse già toccato il fondo legiferando sulle misure di vari ortaggi e prescrivendo perfino gli ingredienti della pizza “politicamente corretta”, ma a tanto non ci eravamo arrivati.
Quando mesi fa denunciammo cosa gli chef-burocrati stellati dell’Unione si apprestavano ad approntare nei loro menu, annunciando la data del 24 gennaio 2024, alla quale si sono attenuti, per sfornare nuovi intingoli, prendemmo con serietà la “minaccia”, ma covando nel nostro animo la speranza che le polemiche e la palese insensatezza della iniziativa avrebbe fatto cadere l’ultimo grido della nouvelle cuisine inventata nella “capitale” d’Europa dove un Parlamento alieno dall’interessarsi della salute e del benessere dei suoi cittadini avallava qualsiasi sciocchezza veniva spacciata secondo i canoni della cancel culture.
Niente. Sono andati avanti come carri armati fino a propinarci gli ingredienti per mettere sulla tavola le oscene pietanze che da qualche giorno trovate sugli scaffali dei supermercati.
Perché questa “rivoluzione del cibo”? Il profitto, si diceva. Ed il grande mercato alimentare, in tutto il mondo, complici le classi politiche sulle quali una indagine andrebbe svolta a proposito di bizzarre idee che avallano come gli insetti nel piatto, si appresta ad invadere soprattutto l’Occidente (a Oriente e in Africa le culture alimentari sono profondamente diverse e non lontane da quelle che si stanno introducendo nelle nostre nazioni) con prodotti che nulla hanno a che fare con il nostro cibo e, presumibilmente, con la loro sostenibilità nel nostro organismo.
A Bruxelles, tuttavia, gli insetti vengono riguardati come proteine alternative in generale ed una risposta all’aumento del costo delle proteine animali, del loro impatto ambientale, dell’insicurezza (sic!) alimentare, della crescita della popolazione e della corrispondente e crescente domanda di proteine tra le classi medie: questo almeno si deduce dal dibattito e dai regolamenti europei.
Secondo i sostenitori dell’allevamento massivo di insetti esso potrebbe contribuire anche a ridurre le emissioni di gas serra e lo spreco alimentare. Ma non sottovalutiamo la carne sintetica che secondo i suoi sostenitori sarebbe addirittura salutare. Allo stesso modo, e con procedute altrettanto sofisticate si potrebbero allevare bovini, ovini, pollame, pesce. E questo ci metterebbe al riparo dai problemi che s’intendono risolvere, a cominciare dall’inquinamento? Tesi risibile e non dimostrata. Per fortuna il biberon italiana sembra che non voglia neanche sentir parlare di carne sintetica e affini.
Abbiamo il sospetto che le lobby ecologiste vadano a braccetto con le grandi industrie di prodotti alimentari e farmaceutici. E non è un caso che la ricerca delle proteine derivate da insetti venga considerata una delle aree più importanti del programma definito “Orizzonte Europa” che sostiene finanziariamente la sperimentazione nei Paesi Ue.
Gli italiani, tornando alle nuove farine in commercio, per come rileva un’indagine Coldiretti-Ixè, sembrano poco o niente entusiasti del programma “insetti a tavola”. Il 54% è contrario, il 24% è indifferente, solo il 16% è favorevole e il 6% non risponde.
Lo scabroso e contraddittorio tema, al netto di chi vorrebbe sostenerlo con la ragione secondo la quale nel 2050 saremo più di nove miliardi di abitanti sul nostro Pianeta e con la crescita (altrove, ma non in Europa) demografica sarà impossibile sfamare tutti: ma oggi, con quasi due miliardi in meno la fame nel mondo è forse scomparsa? Sono ottocento milioni, secondo la FAO, gli affamati sparsi nel mondo.
Ecco allora l’espediente salvifico: trovare altre forme di alimentazione, a cominciare dagli insetti. La risposta lascia interdetti soprattutto a chi ha consuetudini nutrizionali molto diverse ed intende mantenerle. Il cibo prima che una necessità materiale è un fattore culturale dal quale discendono le esistenze dei popoli ed i loro atteggiamenti e stili comportamentali.
Ecco perché si parla molto, e a proposito, di “sovranità alimentare”. Ognuno ha il diritto/dovere di nutrirsi come le proprie tradizioni, i propri usi, gusti e colture indigene consigliano. Essa viene definita, giustamente, come un indirizzo politico-economico volto ad affermare il diritto dei popoli a definire le autonome politiche e strategie sostenibili di produzione, distribuzione e consumo di cibo. Questa tendenza concerne, in particolare, le popolazioni indigene soggiogate, grazie alla grande distribuzione, da problemi di produzione e diffusione di prodotti alimentari, a causa dei mutamenti climatici e dei percorsi alimentari he ne subiscono le conseguenze ed influiscono sulla loro capacità di accesso alle fonti alimentari tradizionali e contribuiscono all’aumento delle malattie. Queste esigenze sono state affrontate negli ultimi anni da diverse organizzazioni internazionali, che hanno adottato con vari Paesi politiche di sovranità alimentare. Il concetto di sovranità alimentare è stato proposto per la prima volta dal movimento internazionale “Via Campesina”, durante la sua Conferenza internazionale svoltasi a Tlaxca, in Messico, nell’aprile del 1996. Nasce in opposizione al modello neo-liberale del processo globalizzazione, fornendo una chiave per la comprensione della governance internazionale sull’alimentazione e l’agricoltura. In particolare, la sovranità alimentare è stata proposta in risposta al termine sicurezza alimentare utilizzato dalle ONG e dai governi sui temi di alimentazione e agricoltura.
Contrapponendosi al programma sul commercio dell’alimentazione e dell’agricoltura promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, la sovranità alimentare prevede un legame essenziale tra alimentazione, agricoltura ecosistemi e culture, valorizzando la diversità e il lavoro legato alla produzione alimentare nel mondo. E dunque differenziando produzione e distribuzione, il solo modo per conservare la varietà dei cibi e dei modelli alimentari.
Pertanto le nazioni, in base alla sovranità alimentare, devono poter definire una propria politica agricola caratterizzata da specifiche necessità, alle ragioni organiche che motivano le scelte alimentari, alle abitudini contratte da secoli rapportandosi tanto al mercato quanto alle esigenze degli agricoltori, degli allevatori e dei consumatori.
È inaccettabile che la globalizzazione metta i piedi nel piatto e per giunta senza lavarseli. Con il cibo, insomma, non si scherza. Ed è una forma di totalitarismo estremo imporre linee nutrizionali soltanto perché bisognerebbe sfamare più gente naturalmente per guadagnare di più.
L’imperatore Adriano nelle sue Memorie, per il tramite di Marguerite Yourcenar, solennizza il cibo con parole che restano scolpite nell’animo: «Impinzarsi nei giorni di festa è stata sempre l’ambizione, la gioia, e l’orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l’aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che nel campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso, alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo discretamente l’odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m’ispiravano ripugnanza e tedio tanto se alle volte – durante un’esplorazione o una spedizione militare – ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi».
Il cibo è così: ha un’anima per chi la sa scorgere e per chi non ne è capace rimane riposta nella gioia che crea, nel privatissimo mondo di sensazioni che, comunque, trasfigura tutti noi che ne beneficiamo in piccoli sacerdoti di un rito antico quanto è antico il mondo. La tavola è un altare laico sulla quale s’affollano gesti lievi e misurati che la tradizione ha consacrato, una sorta di riti ancestrali dedicati alla cura umile di una pietanza sapendo che il corpo la custodirà come una reliquia
La battaglia per la sovranità alimentare, come quella dell’acqua e delle identità culturali segneranno il XXI secolo, come nessuno, al suo debutto, ventiquattro anni fa, poteva immaginarselo.