• 26 Dicembre 2024
Tradizioni & Leggende

Perché esistono le storie? Ci si chiede spesso il motivo per cui si raccontano, quale contributo o quale utilità sociale possano apportare. D’altronde è davvero necessario che debbano essere utili? Dato che “utile” è un concetto relativo, c’è anche chi racconta le storie per il semplice scopo di emozionare, turbare, spaventare, rispondendo all’umana voglia di vivere vite altrui, situazioni non proprie, sensazioni non quotidiane. A volte le storie nascondono dei moniti e nascono con scopi pedagogici. Ci sono anche storie che, narrate nel tempo, vanno ad imprimere il carattere identitario di un luogo. Si tratta delle leggende. Al di là della veridicità o meno, la leggenda diventa identità, marchio, simbolo, cultura, tradizione, quindi folclore. E così a Napoli, ad esempio, abbiamo la leggenda del “munaciello”, della “bella ‘mbriana”, della “sirena Partenope” e chi più ne ha più ne metta. Ce n’è anche un’altra diffusasi a Napoli, direttamente da Benevento: quella delle streghe, o per essere più precisi, delle “janare”. Ma da dove vengono questi racconti? Perché si narrano? Che senso hanno? Come si suol dire, le leggende poggiano su un fondo di verità, forse non quella del loro contenuto letterale, ma sicuramente quella delle loro origini. Una leggenda, insomma, non nasce per caso ed è affascinante come queste storie si presentino quali vere e proprie rielaborazioni di fatti, testimonianze ed esperienze. Ed ecco che da esse si possono trarre tutta una serie di elementi che messi insieme ci permettono di ritornare indietro nel tempo, lì dove tutto ha origine. Qui noi trattiamo di una leggenda propria di Ailano, piccolo comune dell’alto casertano. Una storia nella quale dobbiamo tener conto di un albero, un capro, una danza, un parroco e le streghe venute da Benevento che lo hanno tormentato. Iniziamo.

La campana della chiesa di Ailano “suona a morto” continuamente. E’ un continuo “massacro” in paese. Non c’è funerale che Don Silvestro Cacciola non debba celebrare. Ma le morti nel paese sono strane. Sono così tanti i bambini e i figli scomparsi, vittime di disgrazie, che quasi non conviene più concepire. E Don Silvestro prega, prega e fa pregare, perché si scopra la causa di questo male e lo si estirpi. Così, tra un funerale e l’altro, il parroco resta speranzoso che il Signore dia subito una risposta. Una risposta che non tarda ad arrivare. Ma è una risposta bizzarra, troppo poco cristiana. Infatti, come spesso accade, la confessione diventa il pretesto del pettegolezzo, e le varie madri senza più figli iniziano a dirgli tutte la stessa cosa. “Io so chi è stato, io so chi è stato” e gli danno tanto di nomi e indirizzo. “Quelle sono le donne della notte, serve di Diana, le ho viste radunarsi sui gradini dell’Annunziata ogni notte”. Ma Don Silvestro non ci crede. Quelle donne infatti erano le più buone, le più caritatevoli e non mancavano mai ad una messa. Se erano davvero serve di Diana, non potevano essere anche serve di Dio. Ma il prete aveva dimenticato una cosa: il demone arriva lì proprio dove alberga il Bene. E terminata quella che credeva fosse l’ultima confessione, Don Silvestro si sente sollevato: era stufo di sentire quelle chiacchiere di paese, così superstiziose, e nella casa di Dio, per giunta. Ma ecco che, sorpreso e deluso, capisce che deve fare i conti con un’altra donna. Ma questa non è una delle madri. Anzi, è proprio una di quelle famigerate “streghe”. Ma figuratevi se a Don Silvestro importasse. Tanto comunque non ci credeva. Una volta nel confessionale, la donna inizia a confidare peccatucci “insignificanti”, di quelli che Don Silvestro sentiva in continuazione.  E così inizia a sonnecchiare. “Padre?”. Sembra quasi russare. Quale mancanza di rispetto! “Padre! Ma che fate, dormite!?”. Don Silvestro scuote la testa e si desta dal dormiveglia. In quel momento, o per scherzo o per stanchezza, le risponde: “Scusate, stanotte sono stato con le streghe”. La donna lo fissa aguzzando lo sguardo, come quando si fa per inquadrare o ricordare meglio una persona. La sua bellezza sembra quasi sfiorire, i suoi occhi diventano inquietanti così come la sua voce: “Ma io non vi ho visto…” .

Don Silvestro stavolta prova qualcosa che non riesce a spiegarsi. Quella risposta… poteva essere uno sfottò. E se invece quelle madri avessero avuto ragione? Se quella donna fosse davvero una ianara? E allora al dubbio si sostituisce la curiosità. “Incontriamoci stasera, così mi vedrete sicuro”. La sera non tarda ad arrivare. Bussano alla sua porta e il parroco va ad aprire. Fuori il tempo è tetro e umido. Ed eccola, la donna del confessionale. Ma non è da sola. Con lei ci sono altre donne, avvolte in mantelli e gabbane scure come la notte, quasi a confondersi con il cielo. Lo fissano, con gli occhi  velati dai loro cappucci. Poi la donna gli sorride e gli tende la mano: tiene tra le dita una mela. E’ l’invito, il “biglietto”. Il prete si avvicina. Gli viene subito in mente il “frutto proibito dell’Eden” il frutto della dannazione, del peccato. Cosa avrebbe dovuto fare? Qualsiasi cosa avesse fatto sarebbe stata una sua scelta. E intanto quella mano resta tesa lì. “Per conoscere il Bene bisogna conoscere anche il Male”. Se l’era detto tra sé e sé, per darsi coraggio, o forse per giustificare l’azione che avrebbe da lì a poco compiuto. Ed ecco che prende la mela. Ne dà un morso. Le ianare sorridono tutte e fanno avanzare un capretto. “Sali”. Don Silvestro obbedisce. E così una delle streghe pronuncia la frase “coppa acqua, coppa viento, portame al noce re Veneviento”. Tutto quello che avrebbe ricordato Don Silvestro è di essersi ritrovato sul capro davanti ad un grande albero, un noce illuminato da torce e falò. Intorno a loro le ianare mettono in scena una danza macabra e demoniaca con vocalizzi striduli e una musica tetra. “Vieni, vieni a ballare con noi”. Ma il prete si rifiuta. “Hai mangiato la mela, ora devi ballare con noi!”. Don Silvestro si è appena pentito del suo patto con quelle streghe. E così, pieno di rimorso, paura e sdegno, getta ai piedi delle ianare la mela con ancora visibile il morso, nella speranza che quel gesto avrebbe potuto concludere quell’orrenda esperienza. Come avvolto da una vampata di fuoco si ritrova immediatamente sotto le coperte del suo letto. Era fatta. Era riuscito a tornare a casa, vivo e integro. Almeno così pesava. In realtà, le streghe non l’avrebbero mai abbandonato. Non sarebbe passato giorno in cui non fossero venute a fargli visita nei suoi incubi. Quella danza e quelle voci lo avrebbero tormentato per sempre.

La storia ci è pervenuta ad oggi sotto forma di leggenda locale che si presta a varie reinterpretazioni e riadattamenti, dai toni più o meno esoterici e dark. Ma quello che interessa è scoprire la verità nascosta. E per farlo dobbiamo chiederci: cos’è quel noce? Perché il capro? Cos’è quella danza? Perché Benevento? Le risposte ci portano indietro, a riscoprire le origine delle ianare. Il noce di Benevento è un famigerato albero presso il fiume Sabato, l’albero attribuito ad Odino, divinità ancora venerata dai Longobardi nel VII secolo d.C, anche se formalmente cristiani, avendo ricevuto il battesimo. Questi si recavano presso il noce dando inizio ad una cerimonia religiosa, per certi versi molto simile all’ Eucarestia cattolica. Si trattava dello “Sparagmos”: una carcassa di caprone veniva appesa su un ramo e i cavalieri vi giravano attorno cercando di strappare con  spade e lance brandelli di carne, di cui cibarsi come segno di ricongiungimento con la divinità. Tali riti, in un contesto prevalentemente cristiano, venivano visti con diffidenza e infine con ostilità dalle autorità religiose cattoliche per cui tutte le forme di culto pagano, come quello della dea Iside, venivano considerati rituali demoniaci. Lo stesso “sparagmos” andò a inserirsi nell’immaginario collettivo di queste danze e “riti sfrenati” come il “sabba”. Ma in tutto questo, se si è parlato di cavalieri longobardi, viene da chiedersi cosa c’entrino le ianare e perché si chiamino così?  Per capire il tutto bisogna dire che tra le divinità pagane venerate all’epoca, oltre ad Odino e Iside, vi erano anche Ecate (dea dell’oscurità) e Diana (dea della caccia). “Jarana” o “ianara” potrebbe derivare proprio da “Diana” diventando così il termine con cui si andava a definire la “sacerdotessa di Diana”. In conclusione, è interessante osservare come nella leggenda delle streghe di Ailano ricorrano tutti gli elementi delle “origini”: il noce di Benevento, la danza (ad indicare il sabba o il rituale pagano) il capro che viene interpretato come una sorta di mezzo di trasporto verso l’occulto. Tutto viene ripreso e tutto viene rielaborato nel corso del tempo, fino ad assumere le forme di un racconto che ancora oggi affascina. Leggende come queste portano in sé il seme di una identità che fiorisce e che si tramanda in generazione in generazione. Anche se resta nelle nostre coscienze la fatidica domanda della loro importanza e utilità, forse la verità è che siamo un po’ tutti attratti dall’occulto e dall’ignoto, da quella “notte dei tempi” che suole presentarsi nel presente sotto varie forme e che in un certo senso non ci abbandona mai, ma rimane impresso nel nostro genoma, così come le streghe che non abbandonarono mai la coscienza di Don Silvestro Cacciola. Al pari di lui, contagiato dai postumi di quell’incontro e di quella disavventura, anche noi siamo “contagiati” da un ancestrale bisogno di riscoprire il passato delle nostre terre e di raccontarle, quasi a voler implicitamente affermare con una certa fierezza “Noi siamo queste leggende, e le verità che recano in se stesse”.

Autore

nasce a Piedimonte Matese, provincia di Caserta, nel 1996. Dopo la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”, si cimenta nella recitazione, nel doppiaggio e nella regia cinematografica. Contemporaneamente coltiva la sua passione per la scrittura, con la sua prima opera, la trilogia di Partenope, come frutto del suo amore per il mare e come omaggio alle sue amatissime origini siculo-napoletane.