Ho l’impressione che il massiccio, imponente, sontuoso mausoleo di Mustafa Kemal Ataturk, l’Antikabir, che domina Ankara, si sia come squarciato. Il padre della Patria è fuori posto in quella tomba che da sessantadue anni ne custodisce le spoglie. Che ha a che fare quel monumento alla gloria laica della Turchia con l’onda islamista che minaccia di travolgere la rivoluzione?
Non voleva una potenza regionale integralista e confessionale, orribilmente velata e vittima di una rivincita ottomana, sia pure ipocritamente risorgente dietro l’ossequio formale al suo nome. Ataturk vide lontano. E pose fine alle guerre di religione, condizione indispensabile per rivitalizzare un mondo in fin di vita. Santa Sofia a Istanbul è il simbolo della nazione, di tutte le fedi, di ogni credo: musulmani e cristiani possono ritrovarsi nel nome di una nazione unita, porta di tolleranza su un Oriente scosso, allora come ora, da velleitarismi sanguinari. Il sogno del giovane militare diventato capo di uno Stato finalmente rispettato dopo la disfatta ottomana, sta svanendo. Da Gezi Park alle terre turcomanne utilizzate come basi più o meno occulte di spregiudicate manovre politico-militari, affonda la Turchia alla quale pure chi scrive fino a qualche anno fa riconosceva i titoli per far parte dell’Unione di un’Europa alla quale avrebbe fatto bene il “contagio” del kemalismo, la cui liquidazione, per molti, viceversa, costituiva il presupposto per far parte del club di Bruxelles.
Nonostante tutto, dopo militari arroganti e ambiziosi, politici mediocri, burocrati corrotti, credemmo che con l’avvento di Tayyp Erdogan i tempi cominciavano ad essere maturi. Ataturk poteva continuare a dormire in pace nel suo Antikabir.
La bandiera dell’Islam non sarebbe stata dispiegata sulla nazione che si candidava ad essere moderatrice delle convulsioni del Levante e ad agire a Ponente come messaggera di integrazione politica, se non di costumi e di civiltà.
Ataturk è morto un po’ alla volta negli ultimi anni. I suoi ritratti che accolgono il viaggiatore fin da quando sbarca in un qualsiasi aeroporto turco e lo accompagnano in ogni dove, sono come sbiaditi. Si affretterà il nuovo signore dell’ambiguità orientale a farli sparire? Dimostrerebbe coerenza se lo facesse. Qualcuno, tempo fa, auspicava che Ataturk sarebbe rimasto presente come figura de-ideologizzata, il più sicuro ed inattaccabile riferimento patriottico insomma. Ed anche coloro che non approvano l’abolizione della legge coranica non si sarebbero sottratti a riconoscersi in un “insieme” nella diversità. E’ andata in un’altra maniera.
La Turchia ha avuto molte opportunità negli ultimi anni di dimostrarsi all’altezza dell’eredità di Ataturk: le ha sprecate tutte. Così come il suo leader ha gettato al vento, per affermare una concezione del potere autocratica ma priva di senso della comunità di appartenenza composita e complessa, l’eredità di Kemal pascià, costruita per liberare un popolo dalle idolatrie tardo-ottomane. Sulle rovine del kemalismo, si leva adesso il grido di una nazione soffocato nel conformismo. L’Occidente è lontano. Daesh è più vicino. Nello sperduto villaggio siriano di Yamadi non è caduto soltanto un jet russo, abbattuto da un missile dell’aviazione turca, ma si è infranta la sottile speranza di difesa comune da un nemico che chi dice di combatterlo e non lo fa si assume la responsabilità della sua sacrilega vittoria.