• 30 Dicembre 2024
Editoriale

La marcia degli agricoltori in Europa nasce da differenti variabili di un’equazione economico-politica europea non risolta, e motivata da rivendicazioni serie al fine di risollevare la categoria, poiché fra vincoli astringenti di produzione, rincari dei prezzi, riduzione dei sussidi ai costi dei carburanti, aumento delle tasse,  transizione energetica ed ecologica, nonché concorrenza sleale di altri Paesi e costi al ribasso dei Paesi emergenti, la sostenibilità economica e sociale, e la competitività del settore sta venendo meno.

Inoltre, le nuove misure della Pac, Politica agricola comune, dell’Unione Europea, per predisporre l’adesione al Green Deal, sottopone la categoria ad una reale svolta di cambiamento sul piano effettivo della sostenibilità ambientale. Una destrutturazione dell’agricoltura, dell’agroalimentare e della zootecnia, ponendo un superamento classico delle pratiche di coltivazione, per addivenire ad un approccio sistemico ideologico ambientalista, per niente pragmatico e conservativo delle tradizioni di coltura e di produzione.

La sicurezza alimentare, di cui l’Europa si fece garante all’Unione della comunità per assicurarne l’autosufficienza alimentare, sta cedendo il passo, secondo le politiche poste in campo dall’ultima Commissione, ad un asset produttivo, dove non solo non si garantisce un giusto reddito per gli agricoltori, ma una minore di disponibilità di cibo sano, ad un prezzo non competitivo che sia equo per i consumatori europei e non solo.

Infatti, la categoria patisce lo scotto di una sperequazione, legata ad una filiera, non a km 0, collegata alla grande distribuzione, che sminuisce in termini di margini, i costi sostenuti dal settore, marginalizzando i guadagni.  

I modelli economici europei, così rivisitati, a fronte di nuovi paradigmi reali e climatici, volgono uno sguardo e un approccio troppo ideologico, e rappresentano il primario sintomo di disagio vissuto dall’intero comparto economico, da sempre considerato per il 70%, la causa di aumento delle emissioni di co2, emarginati in un progressismo ecologico, ma punta di diamante del Pil europeo, costituendone il 30%, Il comparto economico agricolo, riconoscendosi parte di una reale sostenibilità, per un trend economico sempre meno produttivo, sottoposta anche a richieste paradossali ad una produzione già in perdita,  le si impone, altresì, di non produrre per gestire al meglio il cambiamento climatico , di fatti, insorge, e lo fa con una massiva forza, che ricorda i tempi, della rivoluzione Rossa,  e altre importanti rivoluzioni storiche che da sempre hanno cambiato l’asset di governo degli Stati dei tempi passati.

La destinazione del 4% dei terreni, ad una paritetica esigenza di energia alternativa, sembra una obbligazione, che sottopone gli agricoltori ad una pressione assolutamente sbagliata, se le terre abbandonate cambiano destinazione, poco rilevante, ma che impianti agricoli subiscono simili cambiamenti incide sulla indisponibilità di una politica irriverente dal punto di vista sociale ed economico, infatti, invece di aumentare la produttività, e di crescere in termini reddituali, la politica europea, innesca un default irreversibile, a svantaggio diseconomico dell’intero comparto, e assecondando una biotecnologia che prevede finanziariamente l’avanzare delle proteine in cultura, per l’industrializzazione della carne sintetica, “inconsapevoli del cambiamento metabolico della società” avrebbe detto Karl Marx, con una rielaborazione  integrativa degli insetti per farine proteiche, sinonimo di una cultura più asiatica e meno occidentale.

Gli agricoltori, dunque non solo sono vittime del cambiamento climatico, e dell’avanzare di una siccità spaventosa, diventano vittime altresì di una politica che aggredisce un comparto ed un settore già naturalmente in crisi, riducendo l’uso di fitofarmaci, per difendere e curare le piante meno resistenti a nuove siccità e nuove malattie, andando incontro (in mancanza di studi e di ricerche alternative, mai finanziati) ad una scarsa attenzione delle necessità primarie alimentari europee, da sempre basate, secondo la dieta mediterranea su produzioni di cereali e proteine vegetali.

La rotazione ciclica, delle colture, dunque, impone una restrizione di produzione e un dimezzamento della capacità produttiva, comporta inoltre una complessità di gestione amministrativa poco compatibile con la reale produzione agricola e la gestione dei campi.

Investire nel settore agricolo, senza dimenticare il crollo dei prezzi delle produzioni europee, crea il bisogno di una maggiore tecnologia bio-integrata e una maggiore digitalizzazione, al fine di accelerare senza fatica il processo produttivo riducendo l’uso dei fitofarmaci o programmandolo in maniera adeguata, anche, secondo un tavolo di concertazione precipuo fra esperti e agricoltori, usando una programmazione meno invasiva e più logica del settore, rendendo l’agricoltura europea sempre più competitiva e meno lontana dal Green Deal, verso l’assunzione di un economia circolare dove le fonti energetiche derivano direttamente dal riciclo delle biomasse, degli allevamenti, come ad esempio il biometano che può alimentare trattori di nuova generazione, con una forte riduzione delle emissioni.

La politica, dunque deve, rivedere i suoi paradigmi, sviluppare una bioeconomia, che sia non predittiva ma risolutiva in tempo reale, delle variabili non risolte e dei disaggi che il settore deve rivalutare, per una moderna valorizzazione agraria. Come per la competitività industriale anche il comparto agricolo non è più rurale e necessita di uno sviluppo avanzato.  

Un riepilogo mette in evidenza durante il Ventennio, in Italia, dopo una riforma agraria, che vide lo sviluppo esponenziale della vita rurale e contadina, tale da rinvigorire l’economia agroalimentare italiana con bonifiche territoriali, che ancora oggi, rappresentano le punte di spicco di territori a vocazione agroalimentare e zootecnica, come la rinomata pianura Pontina. Segue all’ingresso del Mec, nonostante i presupposti sociali favorevoli, verso la fine del Secolo scorso, con la bordata delle quote agricole, e della imposizione in primis delle quote latte, l’inizio dell’impoverimento di un settore, e della sua naturale vocazione, gli incentivi o meglio gli indennizzi ai maggiori comparti e alle loro filiere, per produrre meno e secondo i diktat europei. Determinata poi la disfatta, nella produzione dei pomodori in Campania e dell’olio nel tavoliere delle Puglie, avviene il ribaltamento dei terreni ai contadini, a favore di una politica di sottrazione e di impoverimento, lento che oggi sta raggiungendo il suo culmine, con la transizione ecologica, infatti, stiamo cedendo il passo ad una sovranità climatica, che non prevede la coltivazione a grano dei nostri avamposti per derrate, agroalimentari. Costretti, ad importare grano, olio, cereali, con l’arguirsi della crisi bellica ucraina, asset, di privilegio europeo di riserve importanti, l’Europa, ma in particolare l’Italia epicentro di un sistema autonomo, trova difficoltà a soddisfare la domanda alimentare interna.

Il centro sud, diviene territorio di predazione, invece di incentivare una politica di ricerca applicata che dia al mondo rurale, la possibilità con le biomasse di fare la differenza in termini di energie alternative, la politica europea ha svuotato, intere aree, implementato il fotovoltaico, l’eolico, riducendo zone agricole a deserti non coltivati, subordinati ad un associazionismo malavitoso, che ha veicolato a proprio vantaggio, gli incentivi per i pascoli, arricchendosi, a discapito di allevatori onesti che del loro mestiere avevano per tradizione fatto un fiore all’occhiello, di molte zone a pascolo. La narrativa delinquenziale di questi disastri, ambientali, ha reso possibile, non solo l’isolamento degli allevatori abbandonati ad un destino critico e senza possibilità di ripresa, ma al fenomeno delle mucche bucoliche. Il tutto indice di una politica UE che ha teso a sovvertire, l’esistente, le diversità, le biodiversità, a vantaggio di una governance, che distrugge ogni filiera, ogni indotto, senza prevenire la competitività anche tra gli stessi Paesi europei.

Siamo oggi subordinati, allo svuotamento dei borghi, all’annientamento delle tradizioni sensoriali agroalimentari degli stessi, per una cessione di sovranità ad una industria agroalimentare massiva per niente competitiva, dissacrante delle nostre origini e peculiarità rurali, che si spalmavano su intere aree regionali, coinvolgendo l’intera filiera, fino a giungere ad una logistica di distribuzione ora ridotta al trasporto delle importazioni dai paesi emergenti. Il ritorno alla ruralità, ad una integrazione tra sviluppo energetico, e agricoltura, deve essere la politica di base delle nostre regioni, anche il comparto della trasformazione ne trarrà vantaggio, per un nuovo prodotto italiano, protetto, una protezione, che deve coinvolgere fino d’ora la politica di cambiamento europeo.

Cambiare i paradigmi di una bioeconomia per renderla non solo circolare, ma fortemente ancorata al territorio di appartenenza e al suo sviluppo operativo agricolo, occupazionale, non aveva bisogno di una rivolta sociale, essa nasce da una mancanza di attenzione totale, alle esigenze degli agricoltori e degli allevatori, e l’approccio ideologico a un problema concreto ha enfatizzato il sistema di reazione. Troppo spesso le politiche europee hanno dimenticato, che gli agricoltori producono ciò che mangiamo, ciò che mettiamo ogni giorno sulle nostre tavole, e ciò sembra sfuggire ad una politica sovrannazionale comunitaria, che ha abbandonato, l’idea di divenire Nazione, per restare  Paese, frantumato da aspettative finanziarie, che sono ben lontane dalle tradizioni e dalle diversità europee, a vantaggio di un salvifica politica climatica, lontana “dalle esigenze del quotidiano e dell’ambiente, fonte di vita famigliare”, ( Roger Scruton), fonte di vita  per redimere un capitalismo spinto e fortemente industrializzato.

Riportare le richieste della mobilitazione, su una piattaforma di buonsenso, non è compito solo di misure di governo nazionale, ma anche sovranazionale, un nuovo patto europeo deve guardare con fiducia alle imprese agricole, per intraprendere una strada di maggiore tutela non solo con un maggiore sistema di credito e sussidi, ma con un una fiscalità equa e una reale attenzione allo sviluppo di un nuovo modello agricolo che corrisponda alle esigenze di crescita sostenibile dello stesso.

La Pac deve essere orientata a risultati concreti, deve avere obiettivi chiari che possono far evolvere l’agricoltura europea, un impiego di ingenti risorse, per un’innovazione bio-integrata del comparto, dove oltre alla innovazione connettiva e digitale, vi devono essere risposte per una nuova ricerca che sviluppi conoscenze agricole, finora non ottimizzate. La gestione, del flusso dei dati agricoli europei, guarda ad un nuovo sviluppo agroalimentare, che però non deve penalizzare la ruralità dei prodotti agroalimentari e zootecnici, la transizione digitale deve avere un ruolo di supporto non deve sostituirsi al sostenibile, alla ruralità e alle tradizioni che consentono il risultato di prodotti genuini e sani. In altre parole, ottimizzare le produzioni e gli allevamenti non deve indurre, ad un cambio di    salubrità produttiva ma un cambio solo di mentalità di impresa per migliorare i bilanci e la loro produttività secondo un percorso di sostenibilità ambientale e soddisfazione del consumatore.

Auspicando un futuro sostenibile e integrato la categoria, deve poter essere supportata in ogni ambito, senza essere penalizzata in politiche contro la qualità e la competitività dei prodotti. Frenare lo sviluppo non è produttivo. Assecondare il comparto economico agricolo e coadiuvarlo, fino all’ultimo gradino della filiera distributiva, può essere il passo verso una bioeconomia di soluzioni.

La dicotomia, venutasi a creare tra un mondo rurale antico, fatto di tradizioni e radici sostenibili, e le moderne imprese agricole, portatori non di eccellenze di nicchia, ma di prodotti comunque di qualità , introduce la necessità di un potenziale di cambiamento, continuare a produrre grani antichi è doveroso ma non si armonizza con un concetto di produttività massiva e con il futuro agricolo che grida sostenibilità e superamento dei limiti connessi al clima. L’adattamento al clima è fonte di cambiamento genetico, pertanto paradossalmente, per sostenere la domanda alimentare europea bisogna affrontare una repentina ricerca volta al miglioramento genetico delle sementi , prodotte non in aree marginali, e ad una produzione di nicchia, ma ad un implementazione della capacità produttiva, tenendo conto anche dell’impatto metabolico umano, e di una nuova competitività redditizia, il CREA, sa che siamo ad un bivio che potenziare e valorizzare il prodotto tipico di sempre, si pone su basi di integrazione alimentare europea, ma una nuova conoscenza può riguardare un nuovo sviluppo per il mondo agricolo per eliminare l’uso dei fitofarmaci e fronteggiare la domanda.

Autore

Economista, Bio-economista, web master di eu-bioeconomia, ricercatrice Unicas, autrice e ideatrice di numerosi lavori scientifici in ambito internazionale. Esperta di marketing. Saggista, studiosa di geopolitica e di sociopolitica. È autrice dei saggi “Il paradosso della Monarchia” e di “Europa Nazione”. Ha in preparazione altri due saggi sull’identità e sulla politica europee.