• 23 Novembre 2024

Cosa è stato Guido Gozzano nella cultura letteraria del Novecento? Oltre Torino e l’Italia ci sono gli Orienti. L’India. La favola. Il mito. Oltre il crepuscolo il tempo delle geografie. Metafore. Il viaggio e la metafora. 

      L’India di Gozzano non è soltanto capire il viaggio e gli Oriente. Le sue lettere inVerso la cruna del mondo costituiscono una chiave di lettura fondamentale tra il 1912 1913. Da questa lettura un Guido Gozzano non solo come poeta del “crepuscolo”. Ovvero il crepuscolarismo che apre alle avventure di un Novecento già iniziato dalla pioggia che cadeva nel pineto e gli alveoli si mostravano con pudore malcelato. Ma il crepuscolarismo di Gozzano è un viaggio nella poetica del fragile e dell’inquieto che conosce il valore del tempo e delle cadenze (non tanto delle decadenze) in un tempo che è un rimescolio di età brevi, di rimembranze e di sogni nel silenzio delle parole.

Un Gozzano che resta nella idea guida di “Felicita” ma anche un poeta che stabilisce un incontro tra la cultura occidentale e quella orientale. Questo raccordo non nasce, comunque, dalla poesia o dal “crepuscolo degli dei” tragico – romantico ma da un “colloquiare” con la favola. Le favole di Gozzano sono l’Oriente e la magia che supera la stessa poesia per farsi non più e non solo ricordo ma sogno.

Guido Gozzano è un Oriente di esplorare.. Sulla sua tangibilità nel panorama delle poetiche novecentesche. Una poesia che è un attraversamento e offre una interpretazione a modelli linguistici e non soli poetici tout court.

Bisogna riparlare di Gozzano all’interno di una rilettura generale della poesia del Novecento. Soprattutto in una fase di contraddizioni linguistiche e in un contesto in cui la letteratura, quella vera, quella pura, stenta ad affermarsi con delle caratteristiche originali impostare un intervento di promozione sul piano istituzionale mi pare un evento significativi e culturalmente forte. Gozzano una poetica dai linguaggi sottesi. Anche in questi colloqui.

      “Il mio sogno è nutrito d’abbandono,/di rimpianto. Non amo che le rose/che non colsi. Non amo che le cose/che potevano essere e non sono/state…”. Sono versi di “Cocotte” di Guido Gozzano. Un poeta che nonostante sia morto in giovane età ed abbia lasciato non molti testi è sicuramente un punto di riferimento certo nella poesia italiana del Novecento. Non si smette di riflettere su Gozzano. Proprio perché è un poeta con il quale bisogna fare sempre i conti ed è, oltretutto, un poeta che ha inciso notevolmente nella temperie di tutto il Novecento. Nasce a Torino nel 1883 e vi muore nel 1916. Da cosa è stata contraddistinta la sua pagina poetica? Beppe Benvenuto in un suo scritto che si trova nel testo edito, qualche anno fa, dalla Sellerio La signorina Felicita e le poesie dei Colloqui di Guido Gozzano, propone una discussione a tutto tondo sul ruolo che ha rivestito Gozzano nel quadro della poesia italiana. Oggi Torino celebra Gozzano. Una temperie di incontri e di riflessioni.

      L’analisi che compie Benvenuto, nello scritto citato di cui a suo tempo già mi interessai, resta importate nella sua complessità e soprattutto quando insiste sulla caratterizzazione dell’ironia che ha attraversato la poesia di Gozzano. Un contributo che apre delle prospettive e diventa interessante soprattutto per una riproposta di un Novecento poetico che è tutto da rileggere e da rincontestualizzare.

      L’armonia e l’inquietudine. Ma Gozzano era fatto di un’altra pasta rispetto a Pavese nonostante tra i due ci fossero sia Leopardi che D’Annunzio. Un altro corregionale ma che si allontana dalla piemonteselizzazione.  L’ironia era un fatto propedeutico in Gozzano. Interessante è la riproposta del giudizio che Renato Serra dà su Gozzano definendolo un artista “di quelli per cui le parole esistono, prima di ogni altra cosa”. Attraverso le parole si proietta l’ironia che è un dato letterario ma anche un atteggio esistenziale nonostante la tristezza a grappoli su quel movimento che si chiamò, appunto, crepuscolarismo.

L’ironia salva. Ma l’ironia è anche il “tratto, osserva Benvenuto, forte che lo distingue davvero dai suoi maggiori antecedenti (Pascoli e D’Annunzio), come da coloro che passano per i suoi correligionari crepuscolari (da Sergio Corazzini a Corrado Govoni, da Carlo Vallini a Marino Moretti, piccola parziale eccezione, varrebbe un discorso a sé, per Aldo Palazzeschi). Stesso discorso o quasi per i lirici successivi”. Ma da dove nasce questa ironia gozzaniana? Lo spiega Giuliano Landolfi citato da Benvenuto in un articolo pubblicato sulla rivista “Atelier” del settembre 1966. Così: “L’ironia gozzaniana nasce proprio dalla consapevolezza dell’inconsistenza da ogni tentativo di fuga, per cui non resta che la dura e tragica realtà della solitudine priva d’amore, della malattia, della morte, dell’insuccesso letterario, da cui l’autore prende le distanze per attenuare il cocente senso di delusione personale”.

      L’ironia è nelle sue lettere dall’India e si confronta spesso con la nostalgia. Una nostalgia che occupa la mente, il cuore, il corpo del poeta. Come i versi minimi citati in apertura. Gozzano, dunque, è sì il poeta dell’ironia che viene ad essere metabolizzata da un rapporto fisico e psicologico tra la parola e il dire la parola ma resta soprattutto il poeta del rimpiangere le ferite che il tempo imprime nella giovinezza. La nostalgia che è palpabile è tra l’altro un vissuto onirico che si serve di scenari e crea atmosfere. Il primo Pavese rientrerebbe in questa visione. Una poesia sostanzialmente teatralizzabile. Drammatizzabile direi tra un retroscena a caduta libera o affidato all’improvvisata dell’esistere e una recita che sembra avere schemi precostituiti. E’ una recita costante “L’amica di nonna Speranza”. La si ascolta e la si vive come se fosse “impalcata” su uno scenario da palco.

      Il teatro, in fondo, è una metafora che intreccia la vita con la finzione che c’è nella vita. Ovvero è un gioco tra l’esuberanza e l’agonia della realtà e la maschera che quotidianamente si indossa per custodire segreti non solo agli altri ma soprattutto a noi stessi. Non è un caso che Gozzano tira nel gioco e nel miscuglio del vivere, appunto, l’ironia e la malinconia – nostalgia. “Quello che fingo d’essere e non sono!” (in “La signorina Felicita ovvero la Felicità”). Oppure: “…sorrido e guardo vivere me stesso” (in “I colloqui”).

      L’intercalare letteratura e realtà è una componente non fittizia ma profondamente esistenziale nella poesia di Gozzano. E’ proprio ne “I colloqui” che si ascolta: “…che fosti bella come un bel romanzo!”. Non c’è dubbio che Gozzano usa la metafora trasportandola come se il tutto fosse definibile sul palcoscenico di un teatro. Si pensi a “Totò Merùmeni”. O si pensi proprio all’attacco de “La signorina Felicita”: “Signorina Felicita, a quest’ora/scende la sera nel giardino antico/della tua casa. Nel mio cuore amico/scende il ricordo. E ti rivedo ancora,/e Ivrea rivedo e la cerulea Dora/e quel dolce paese che non dico”. Uno strappo alla poesia raccontata ma il racconto può diventare una recita con i suoi personaggi ben definiti.

      Nell’accennare ai luoghi Gozzano li qualifica immediatamente. Luoghi che non sono solo paesaggi o città ma anche ambienti. Il teatro, infatti, entra dentro la parola e la parola stessa diventa quasi espressione di una teatralità scenica nella quale il poeta è sempre al centro. Forse è proprio in questo tracciato che si spinge al teatro che l’ironia prende il sopravvento.

      L’io poetico non è un io chiuso. Gozzano è un poeta che vive e sa vivere la forza estetica della parola ma per reggersi questo estetismo del linguaggio ha bisogno del movimento. E’ come se la poesia non avesse bisogno della cementificazione della parola o da effetti statici. Ma da atmosfere, da avvenimenti, da campi scenici.

La parola diventa personaggio. E così l’ironia si impossessa del gioco del vivere nel destino del tempo. “Giocosa amica, il Tempo vola, invola/ ogni promessa” (in “Il gioco del silenzio”). D’Annunzio e Proust sembrano darsi la mano. Ritorna dunque D’Annunzio.

C’è un D’Annunzio crepuscolare? Perché non dovrebbe esserci o starci un D’Annunzio nei crepuscoli settembrini? Credo che sarebbe ora di ripartire, appunto, da Gozzano attraversando le malinconie dannunziane e ri – congiungersi con quella che è stata la poesia di un Vincenzo Cardarelli. Questa linea ci porta direttamente verso quella “cruna” dove si vive di “arrossamento di pudore o sorridiamo di malizia”. Un poeta e un innovatore tra il crepuscolo e la profezia.

Autore

nato in Calabria. Scrittore, poeta, italianista e critico letterario. Esperto di Letteratura dei Mediterranei. Vive la letteratura come modello di antropologia religiosa. Ha pubblicato diversi testi sulla cristianità in letteratura. Il suo stile analitico gli permette di fornire visioni sempre inedite su tematiche letterarie, filosofiche e metafisiche. Si è dedicato al legame tra letteratura e favola, letteratura e mondo sciamanico, linguaggi e alchimia. È presidente del Centro Studi e Ricerche “Francesco Grisi”.