La Storia c’insegna che il senso del pudore è mutevole e ciò che oggi disturba, in passato poteva essere considerato lecito. Un caso è quello dei “seni nudi”: c’è stato un tempo in cui metterli in bella mostra, sulla tela o nella vita reale, non era affatto un problema. Nessuno vi vedeva un’implicita profferta sessuale o una provocazione, anzi esso era intriso di valore sacro, simbolo di fertilità e maternità o di status sociale. Nell’antichità, più le donne erano considerate pari agli uomini, più potevano “scoprirsi” per moda o religione.
La civiltà minoica presentava un codice d’uguaglianza di genere da fare invidia a molte culture moderne. Le opere d’arte ci rimandano una donna emancipata, libera di prendere parte alla vita sociale e di mostrare il proprio seno senza veli e senza pudori. Anche in pratiche rituali come la “taurocatapsia”, o salto del toro, in cui si doveva afferrare un toro per le corna e saltargli in groppa, le donne che vi prendevano parte erano a petto nudo. In Egitto, in un affresco nella necropoli tebana di Gurna, due fanciulle offerenti si esibiscono con i capezzoli a vista. Nessuna vergogna per la “donna del Nilo”, la cui bellezza leggendaria ha ispirato l’arte egizia nelle sue diverse forme. Oggi la visione di una donna che allatta in pubblico suscita scalpore, tanto che in alcuni paese è addirittura vietato. Eppure, una tale immagine è riprodotta in molte chiese cristiane. Nel “Dittico di Melun”, di Jean Fouquet (1450/55), le grazie della Madonna traboccano da un corpetto slacciato. Fu con il Concilio di Trento (1545/63) che le immagini troppo “sconvenienti” vennero ritoccate e coperte, poiché la sensualità poteva distrarre i credenti.
Tra il XVII e il XVIII secolo, nei regni di Carlo II d’Inghilterra e Luigi XV di Francia, fiorì una ritrattistica in cui le donne di alto rango sfoggiavano scollature così profonde da lasciare intravedere i capezzoli. Era vietato scoprire, però, le caviglie. Si suppone, che l’esposizione del seno fosse un incidente messo in preventivo, perché vi era una preparazione cosmetica a monte.
Pare esistesse un cosmetico per rendere la parte più rosea. Emilie du Chatelet, matematica e fashionista, amante di Voltaire ebbe molto successo per i suoi capezzoli imbellettati. Anche l’attrice inglese Nell Gwyn, amante di Carlo II, recitava a teatro, indossando abiti dal corpetto aperto sul busto. L’esibizione di un solo seno era segno distintivo di ricchezza e posizione sociale. Impossibile non citare Madame de Pompadour, che secondo la leggenda, ispirò le dimensioni del seno ideale, ossia quello contenuto in una coppa di “champagne”.
Quando tutto è cambiato? A porre un freno alla libertà di mostrare il seno fu il puritanesimo ottocentesco, che si prese la briga di “rivestire” il più possibile le donne. Dal XIX secolo, molte opere giudicate indecenti vennero censurate e altre distrutte. La Maja Desnuda di Goya fu bollata come oscena e sequestrata perché il nudo non era giustificato da alcun pretesto mitologico. Le parti “ignude” vennero coperte con foglie, fiori e capelli. Oggi non è cambiato molto, questo modo di pensare è ancora attuale, anche se il “nudo” è un genere artistico assai diffuso, che ha avuto le migliori espressioni, per ovvi motivi, nella scultura e nella pittura.
Anche la poesia italiana ha, non di rado, posto l’attenzione alla bellezza del corpo umano. Vi sono versi in cui si parla esclusivamente di nudi femminili. Protagoniste sono modelle, spogliarelliste, amanti, giovinette e figure non ben identificabili che, per come vengono descritte, somigliano molto a vere e proprie divinità. Non sono assenti tracce di erotismo; nessun riferimento, invece, alla volgarità, poiché la nudità è trattata come qualcosa di totalmente naturale, rientrante nella libertà di agire e di mostrarsi, che appartiene a qualsiasi essere umano adulto e consapevole.
Tra i poeti del nudo in poesia sicuramente Sibilla Aleramo, Nuda nel sole: “Nuda nel sole per te che dipingi sto immobile/il seno soltanto ritmando/la vita gagliarda del cuore… E adori, e fervente le dolci dita/su la tela conduci./Nuda nel sole ed immobile,/frammento di natura,/ti miro orante ed oprante”.
E ancora: Raffaele Carrieri, Bagno di Sara: “Quanti sguardi alle balaustre/e trapani nell’aria:/più nuda non potevi essere./Da siepi e feritoie/spiavano i caprai,/ti tagliavano con gli occhi./Più nuda non potevi essere/del pesce spada controvento”.
“Ignuda”, di Umberto Saba: “Ignuda come un ruscelletto e bocca/a bocca, ogni tuo brivido addolciva/quel bacio che mi torna oggi al pensiero./M’era in sogno, ma forse ero nel vero,/che in te parlasse, fatto carne, un angelo./Un angelo del bene anche acquiesce/per bontà, per eccesso in lui d’amore”.
“Canto della mia nudità” di Antonia Pozzi: “Guardami: sono nuda. Dall’inquieto/languore della mia capigliatura/alla tensione snella del mio piede,/io sono tutta una magrezza acerba/inguainata in un color d’avorio./Guarda: pallida è la carne mia./Si direbbe che il sangue non vi scorra./Rosso non ne traspare. Solo un languido/palpito azzurro sfuma in mezzo al petto./Vedi come incavato ho il ventre./Incerta è la curva dei fianchi, ma i ginocchi/e le caviglie e tutte le giunture,/ho scarne e salde come un puro sangue./Oggi, m’inarco nuda, nel nitore/del bagno bianco e m’inarcherò nuda/domani sopra un letto, se qualcuno/mi prenderà. E un giorno nuda, sola,/stesa supina sotto troppa terra,/starò, quando la morte avrà chiamato”.
Nell’arte pittorica contemporanea di pregio, il Maestro Stefano Presutti e la sua sezione: “dipinti di donna”. Una vita dedicata alla pittura, alla scultura sia sacra, che profana. Molte opere del Maestro sono ispirate al mondo femminile, da cui traspare un’arte di genere tra “il divenire” e “la completezza palpabile”; protagonista la donna “mai imprigionata”, “nuda e leggera”, mostrata nella pienezza della sua essenza, come questi versi a lui dedicati celebrano: “No, non Ti coprire! Prelibata pietanza, inebriata coppa, filare: figlia delle vigne sannite, delle alture robuste, del mare, degli scogli scoscesi”. L’artista sannita “strappa il velo” dell’ipocrisia, restituendo agli occhi dell’osservatore una “Donna” pura, una pianta selvaggia e libera. Di tutti e di nessuno”. Stefano Presutti rivela quel mondo femminile come simbolo universale, che si realizza in un pieno realismo artistico.