Il silenzio è irreale. Si ode soltanto il rumore dei passi leggeri di centinaia di donne, di uomini, di bambini che costeggiano, come in un cammino religioso, le transenne intorno alle “ferite” di Notre-Dame. La maggior parte ha il capo chino che ogni tanto leva per vedere lo sfacelo che sembra pungere il cielo grigio di marzo. I colori di Parigi sono invernali , ma chi ci fa caso davanti alla cattedrale orrendamente mutilata? Perfino la Senna, a pochi metri, sembra scorrere più lentamente. La Cité è triste da cinque anni. Il 15 aprile 2019 non è mai passato. E si sta qui, davanti al simbolo di una tragedia che nessuno ha metabolizzato, tantomeno coloro che le fiamme le hanno viste da vicino, che quasi gli sono entrate in casa, che restano, mi dice il vecchio ristoratore alsaziano che non sorride più come una volta, a testimoniare la nostra fragilità se perfino ciò che si riteneva ingenuamente inattaccabile può andare in fumo in pochi minuti lasciando spazi vuoti nell’anima oltre che nel paesaggio che i secoli hanno formato attorno ad un simbolo amato.
Il clima è decisamente mutato. Nelle viuzze tra l’Ile de Saint-Louis e Notre-Dame è come se fosse passato un invisibile ciclone lasciando una scia di malessere. Saranno suggestioni, mi dico, ma poi entrando in negozi e ristoranti, scambiando qualche parola nei soliti bistrot con avventori per lo più abituali, la sensazione che non soltanto su quello spazio tra i due ponti al centro del fiume è calata una mestizia che nessuno ricorda dalla fine della guerra, ma anche su tutta la città si è addensata una cappa di incertezza, sconfinante nella malinconia, che mai frequentando da tempo immemorabile l’antistante piazza della cattedrale, avremmo immaginato che potesse imprimersi così profondamente nel cuore di Parigi.
Probabilmente ha ragione Sylvain Tesson, scrittore tra i più sensibili nel raccogliere i segni della decadenza nell’architettura, quando definisce Notre-Dame “Regina del dolore”. E del resto, se improvvisamente, si apre un buco nel cuore del Medio Evo preservato e vivente nella modernità di una delle città più dinamiche d’Europa, tra la chiesa di Saint-Julien-le Pauvre e quella di Saint-Séverin dove fu battezzato Karl-Joris Huysmans, il dissacratore per eccellenza finito per diventare oblato benedettino, l’autore da chiunque ammirato, credente e non credente, non è possibile restare indifferenti.
Non lo sono i francesi, non lo sono tutti coloro che a Parigi affluiscono continuamente e a Notre-Dame sembrano ormai recarsi con lo stesso spirito con cui vanno al Père Lachaise a rendere omaggio a Oscar Wilde e a Maria Callas, a Edith Piaf o a Jim Morrison. Ma la “città dei morti”, protetta da migliaia di alberi, dove il respiro dell’effimero è particolarmente forte, non richiama la devozione, spinta formidabile che percorre lo spirito di chi si sente attratto da una fede e perfino da chi alla fede porta il rispetto dovuto pur nutrendo scetticismo, come il Tempio andato in fiamme che non è soltanto la reliquia sontuosa della Cristianità trionfante, ma il simbolo universalmente riconosciuto di un’Europa che vorremmo tanto continuasse ad esistere nel cuore e nelle menti delle genti del Continente che, come pure è stato detto, anch’esso brucia per quanto le fiamme che lo minano non si vedono eppur si sentono.
Perché allora quelle persone provenienti da tutti gli angoli della Terra si affacciano con rispetto, pietà, dolore sulla Notre-Dame invisibile, le rendono omaggio, forse pregano a modo loro, a prescindere dalle credenze che le muovono? Sono ragioni che la stessa ragione è impossibilitata a conoscere, avrebbe forse concluso il giansenista Blaise Pascal. Ma Ken Follet, nel suo splendido ed accorato epicedio, scritto in pochi giorni, di getto, sul rogo che lo lasciò interdetto, proprio lui che sullo spirito ed il mistero delle cattedrali ci ha donato i suoi romanzi più belli e avvincenti, qualcosa ce la dice rispetto alla sofferenza di quel lontano 15 aprile: “Notre-Dame è troppo vicina al mio cuore. Non sono credente, ma vado in chiesa. Amo l’architettura, la musica, le parole della Bibbia e la sensazione di condividere con altre persone qualcosa di profondo. Da tempo trovo una profonda pace spirituale nelle grandi cattedrali, come milioni di altre persone, religiose e non”.
La verità è dunque che ad ogni latitudine hanno avvertito come una impietosa vendetta – contro cosa nessuno può dirlo – del Destino lo sfregio di Notre-Dame, simbolo per ognuno di ciò che vuole, ma per tutti esempio tangibile di Bellezza che ha attraversato i secoli ed ha accolto chi tra le sue navate qualcosa ha cercato, spesso trovandolo, talaltra limitandosi ad ammirare il genio europeo religiosamente piegato davanti alle pietre scolpite nel corso del tempo come se fossero parte della musica sacra celebrata dal grande organo ormai muto. Come ha scritto, con felice ispirazione Adrian Goetz, Accademico delle Belle Arti, in un aureo libretto all’indomani della tragedia, “l’antica cattedrale di Parigi è divenuta davanti agli occhi di tutti Notre-Dame di Francia, Notre-Dame del mondo, Notre-Dame dell’Umanità”.
In un mondo divorato dagli odi, dagli egoismi, dai populismi, dall’insulto continuo che dovrebbe fondare una sorta di “nuova morale”, al di là delle nazioni e delle religioni, è inevitabile credere, di fronte a Notre-Dame moribonda, come l’arte possa efficacemente parlare a tutti gli uomini, inondare davvero di una sensibilità universale perfino coloro che sono stati allevati in laiciste “religioni” dedite ad approfondire solchi e ad acuire incomprensioni. Si può restare indifferenti davanti ad un bambino dai lineamenti orientali con la piccola mano stretta a quella di sua madre, vestito con la maglietta del Paris Saint-Germain, sostare con il volto serio, contrito, dinanzi alle rovine di un luogo di culto? E i minuti sono passati lenti prima che riprendesse il cammino. La tentazione di fuggire lontano da lì credo sia forte per chiunque, ma ho sperimentato che dovunque si vada alla fine l’anima di una città ti ripiomba addosso. E Parigi non fa eccezione. Soprattutto oggi.
Notre-Dame ha mostrato all’umanità del Ventunesimo secolo ciò che era il Medio Evo: un’opera d’arte totale. Tra gli altri la pensavano così Claude Monet, affascinato dalla cattedrale di Rouen e Auguste Rodin che pure scolpì la sua “Cattedrale” , Marcel Proust che dei templi gotici subiva il fascino e Richard Wagner che fece del teatro di Bayreuth una sorta di chiesa consacrata alle origini, mentre John Ruskin, l’ascoltatore delle “pietre che cantano”, leggeva la “Bibbia di Amiens” come la “cattedrale perfetta”. E si potrebbe continuare a lungo.
I visitatori sbigottiti ignorano quasi tutti, soprattutto se stranieri, che Notre-Dame è ancora in pericolo. La fragilità delle volte e il rischio di crolli dell’impalcatura costruita attorno alla guglia prima dell’incendio, tengono in allarme gli addetti ai lavori. “Le Parisien”, quotidiano della capitale, riportò le preoccupazioni dell’architetto che guida il cantiere della cattedrale, Philippe Villeneuve: “Il monumento rimane in pericolo su due piani: quello delle volte che possono sempre cadere e quello dell’impalcatura che può crollare. Non sono inezie: lì ci sono circa 200-300 tonnellate di ferraglia”.
Se non bastasse il “New York Times” pubblicò un’inchiesta sugli effetti nocivi per la salute causati dal piombo diffuso durante l’incendio. Ed denunciò la reticenza da parte delle autorità francesi che non rivelarono la pericolosità delle zone contaminate, peraltro bonificate, ma non si sa fino a che punto, soltanto settimane dopo la tragedia. E che lo abbiano fatto nelle aree più colpite soltanto molte settimane dopo l’incendio. L’autorevole giornale mosso un’accusa assai grave: la ricostruzione della cattedrale sarebbe stata anteposta alla salvaguardia dell’incolumità di migliaia di cittadini perché la ricostruzione della cattedrale – che il presidente Emmanuel Macron promise di completare in cinque anni, in coincidenza con le Olimpiadi – sarebbe addirittura strategica dal punto di vista dell’immagine della Francia e della sua economia.
In effetti il tetto e la guglia della cattedrale contenevano circa 460 tonnellate di piombo, parte delle quali è evaporata nell’incendio e le micro particelle si sarebbero depositate su edifici, piazze, scuole e molti altri luoghi pubblici. L’inchiesta del New York Times sarebbe fondata su alcuni documenti riservati, tra i quali le relazioni dell’Ispettorato del lavoro, un rapporto della polizia e alcuni testi riservati del ministero della Cultura che, per sedare le polemiche, rese noto che “Il dispositivo di sicurezza messo in campo risponde integralmente alle prescrizioni. Le raccomandazioni dell’ispettorato del lavoro sono state totalmente prese in considerazione nell’organizzazione dei lavori”.
Mettendo da parte le contingenze, e tornando al corteo silenzioso di gente d’ogni luogo che pietosamente e forse religiosamente scorre intorno a Notre-Dame senza avere la possibilità di visitarla, resta una domanda: cosa pensano questi turisti, questi curiosi, questi umili viaggiatori delle nostre cattedrali?
Un tempo, raccontano gli storici, l’impressione che ne traevano vedendole persino da lontano era di sbigottimento. Oggi forse vale lo stesso a fronte delle brutture architettoniche che dovrebbero celebrare il sacro. Ma è solo davanti ad esse, monumenti senza tempo per i più, che l’estasi e il raccoglimento si ricompongono in una visione che non ammette definizioni preconfezionate, tanto è specifica e personale. Perciò a Chartres, a Reims, a Strasburgo, a Notre-Dame – solo per citare le cattedrali francesi, ma non finiremmo più elencando le italiane, le tedesche, le spagnole – ci si sente come trasfigurati. Ed ancor più, questo “miracolo” che insegue il tempo e si esaurirà con esso non è il frutto della decantazione di un mito, ma la tangibile epifania del sacro che s’incarna nella Bellezza. Al punto di commuovere perfino un bambino. Come commuove noi davanti alla devastata cattedrale dalla quale le sonorità gregoriane che fuoriuscivano chissà quando potremo riascoltarle. Eppure, misteriosamente, abbiamo l’impressione che essa non abbia perso la voce.