Unico fra gli animali, l’uomo vuole che il suo cibo non sia solo “buono da mangiare”, ma vuole anche, citando Lévi-Strauss, che sia “buono da pensare”, perché fra tutte le cose di cui ci nutriamo vi sono anche le idee. (M. Pollan, Cotto).
Noi non ci invitiamo l’un l’altro per mangiare e bere semplicemente, ma per mangiare e bere insieme. (Plutarco, Dispute conviviali).
Il cibo è una ghiottoneria mentale, una connotazione per nulla banale, è il “percorso” dalla bocca alla mente, è una cultura che l’uomo stesso costruisce e gestisce. Il cibo è sinonimo di sussistenza e di continuità, pratica necessaria per la persistenza della vita; la cultura è l’attività intellettuale, che pone l’uomo al di sopra delle altre specie del regno animale. Di conseguenza, la loro fusione é inevitabile e come afferma Fourier: “l’uomo è ciò che mangia”. Non deve sorprenderci, dunque, che cibo e letteratura formino un binomio d’antica data. Si potrebbe partire da un papiro del 3000 a.C., dove il poeta scrive che l’oggetto del desiderio (la morte!) gli sta dinanzi “come la birra davanti alle labbra dell’assetato”, o dal biblico “piatto di lenticchie”, divenuto luogo comune. E il capolavoro ”Fasti” di Ovidio, che si rivelò un perfetto ricettario di cucina povera tradizionale romana, la stessa che Catone il Censore si impose di seguire in onore ai costumi dei padri, rimediando una violenta dissenteria. La parca mensa dell’Ultima Cena (agnello in salsa di erbe amare, a dispetto dei gamberi, intoccabili per gli ebrei, si contrappone potentemente ai banchetti romani, siano essi quello di Nasidieno in Orazio o quelli di Pisone descritti da Cicerone. Il primo romanzo a imbandire un sontuoso banchetto è il Satyricon: la cena di Trimalcione, vera acme narrativa di questo “maestro del presto”, come lo definì Nietzsche.
L’affresco di una società i cui profondi mutamenti annunciano già la decadenza. Uno dei ricchissimi liberti ospiti inizia a raccontare: “C’era una volta un povero…”. “Che cos’è un povero?”, lo interrompe una voce, e tutti sghignazzano.
Nella Divina Commedia Dante ci regala la singolare apparizione di un cibo (tralasciando Ciacco, il Conte Ugolino e altre incursioni culinarie dall’immaginario horror di Alighieri):, le anguille: si tratta dell’incontro con Papa Martino IV (Purgatorio, Canto XIV), goloso pentitosi in punto di morte. La sua ricetta preferita? Anguille alla vernaccia; ricetta fatta di anguille, vino, rosmarino e spezie varie. Le anguille andavano (così pare) uccise proprio nel vino e si narra che – alla morte di Martino IV – furono proprio le anguille a rallegrarsi della sua dipartita, sentendosi forse salve. In un periodo di carestie e di peste, non poteva mancare la rappresentazione del paese di Bengodi. Boccaccio lo descrive con ricchezza di particolari nella terza novella dell’ottavo giorno. Qui: “…si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”. Il cibo è usato per beffare lo sprovveduto Calandrino spinto a credere nell’esistenza dell’elitropia, la pietra dell’invisibilità attraverso la raffigurazione di un paese dominato dal piacere. Il cibo cade addirittura in bocca degli uomini! Nel Quattrocento la cucina cominciava a destare interesse tanto che numerosi testi ci descrivono le contaminazioni tra ricette occidentali e orientali alla ricerca di un gusto sopraffino
Il Settecento letterario è poco interessato alla cucina: l’Antico Regime è fatto di tempi lunghi che rendono dolce la vita – per chi è nato dalla parte “giusta” – come ben sapeva Talleyrand. Anche nei quadri le nature morte scompaiono, a favore di camerierine con vassoi di leggiadri petits repas: è un secolo di friandises in tutti i sensi, in tutti i cinque sensi dell’uomo. Il déjeuner du matin di Prévert era lontano almeno tre rivoluzioni. Nelle Confessioni di Rousseau, la cucina appare nelle sue manifestazioni più dolci: cibi dolci preparati da donne dolci. Nelle Memorie di Casanova il peccato di gola quasi non appare: il gioco dell’ostrica è erotismo. “Ci divertimmo a mangiare le ostriche scambiandole quando già le avevamo in bocca. Lei mi presentava sulla sua lingua la sua nello stesso istante in cui io le imboccavo la mia. Non esiste gioco più lascivo, più voluttuoso tra due innamorati. Per puro caso, un’ostrica che stavo per metterle in bocca sdrucciolò fuori dal guscio e le cadde sul seno. Fece il gesto di raccoglierla con le dita, ma io glielo impedii, reclamando il diritto di sbottonarle il corpetto per raccoglierla con le labbra nel fondo in cui era caduta”.
Con l’Ottocento il cibo entra di prepotenza nel romanzo. Con l’avanzare della modernità, il cibo torna ad essere metafora sociale. Nei Promessi sposi al pranzo da don Rodrigo si discetta di duelli. Cosa si mangia? Pollastri? E poi? Sì, ci sono almeno altri due pranzi, e la cena milanese che a Renzo frutta l’interesse occhiuto della Legge, ma noi di tutto il romanzo ricordiamo il pane, abbandonato nelle vie di Milano durante la sommossa, e la polentina di Tonio. I capponi di Renzo, ben vivi, sono destinati alla mensa dell’Azzeccagarbugli. Cucina povera. Dalla sua Milano, Manzoni guarda indietro, e il modello di quella Lombardia sono forse le tele del Pitocchetto. Diversa la cucina del castello di Fratta, Ippolito Nievo, Confessioni di un italiano, nel quale la cucina viene descritta come un luogo magico, con spazi ariosi e volte altissime, con immensi camini dove“i girarrosti volgono, lenti come pianeti, schidionate di cacciagione”. Un mondo alla periferia della Storia. Cibo povero e cibo da signori; ma anche cibo della nuova borghesia. E il pranzo di nozze in Madame Bovary (Flaubert):cibi sapidi, solidi, un susseguirsi di tranci di carni,(c’erano quattro lombate di bue, sei fricassee di pollo, un umido di vitello, tre cosciotti arrosto, e, nel mezzo, un bel maialino di latte allo spiedo, circondato da quattro salsicciotti all’acetosella) innaffiati da “bottiglie di acquavite e sidro dolce” mentre “i bicchieri erano già stati riempiti di vino fino all’orlo”. Il dolce, che riassume il pessimo gusto borghese, già preannuncia un matrimonio fallimentare. Una generazione dopo, i salotti parigini di Bel Ami esibiscono voluttà culinarie certamente più raffinate e costose, ma altrettanto volgari nel loro fondo: “furono portate le ostriche d’Ostenda, piccole e grasse, simili a delicati orecchi infantili chiusi fra le valve, che si scioglievano tra il palato e la lingua come chicche salmastre”. Quanto è provinciale, al confronto, D’Annunzio, con quel suo “vin ghiacciato di Sciampagna”.
Il sontuoso declino della nobiltà del Gattopardo (Giuseppe Tomasi di Lampedusa) è tutto nel ricco buffet al ballo Ponteleone, dove “la monotona opulenza delle tables à thé dei grandi balli” nel trionfo di forme e colori dei cibi consente all’autore spericolate sinestesie (sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli), cenni sociali (collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dal quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri essi provenivano) e una considerazione su come in età barocca fede e sesso si mescolino felicemente in cucina: “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I “trionfi della gola” (la gola, peccato mortale!), le mammelle di Sant’Agata vendute dai monasteri e divorate dai festaioli. Mah!”. Tomasi di Lampedusa, però, scrive di Ottocento a distanza di quasi cent’anni. Lo sguardo rivolto all’indietro a facilitare la dimensione metaforica del cibo. Un mondo dove il contrasto fra regole e sentimenti, dovere e passione, spontaneità e rigido codice sociale è rappresentato a livello simbolico dalle cene che scandiscono la vicenda, come interpretò bene Scorsese nella trasposizione cinematografica, in un triplice gioco di specchi.
Nei Buddenbrook, Thomas Mann, marca con un pranzo l’inesorabile inizio della fine, quando Bendix Grünlich chiede per la prima volta la mano di Antonie, detta Tony. Un lungo pranzo di pesce che si chiude con il budino al maraschino, dolce-sigillo delle cene in casa Buddenbrook. La decadenza nella narrativa di Mann si manifesta sempre attraverso il cibo: si pensi alle fragole in Morte a Venezia. E i ricchi hanno, tutti, i denti guasti. Mi sovviene il mirabile Proust, che racchiude dieci secoli di storia francese in un asparago.
Con Gatsby inizia la modernità: in nome dei cocktail. E l’altro grande nome del modernismo culinario? “Leopold Bloom”, che mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica”. E dopo settecento pagine Leopold Bloom, tornato a casa, sul far dell’alba si cuoce un rognone. Stephen Dedalus non mangia quasi, beve. E molto. Già questo dice tutto. Un bar affollato, una biblioteca con pannelli di quercia e libri intonsi. La musica, la luna, lo champagne servito in bicchieri più grandi delle solite coppe… quand’anche fosse stato servito ottimo roastbeef, a quella tavola il cibo non ha più importanza. ”C’è stata una guerra, abbiamo varcato l’Atlantico, abbiamo visto giovani morire a migliaia nel fango e ora siamo qui, vivi: vivi, sì, ma tutto è cambiato. Non si mangia più, si beve. Non si sta più seduti, si consuma la vita”.
Nel caso delle “Parrocchie di Regalpetra” di Sciascia, a mangiare “pane e coltello” sono gli zolfatari, ‒mangiamo pane e coltello– dicevano, come dire che mangiavano solo pane, al massimo l’accompagnavano con l’acciuga salata o con un pomodoro. La nota messa in evidenza dall’espressione è solo quella dell’indigenza, attraverso la ripresa, da parte di Sciascia, di un modo di dire diffuso nel linguaggio popolare, per indicare la scarsità di cibo, la necessità di accontentarsi di un alimento così di base, senza companatico, che affliggevano il paese siciliano negli anni della sua infanzia e adolescenza. Tale modo di dire non appartiene solamente alla lingua isolana, ma è ampiamente utilizzato a indicare povertà, miseria ben lo sapeva un robusto bevitore quale Giosuè Carducci, che da patriota vedeva nel rosso il sangue dei combattenti del Risorgimento e nel bianco lo splendore del sole, dal quale emanava, come già per Dante, la forza generativa che faceva maturare il chicco d’uva.
“Ventre affamato non sente ragione”, Verga, si giustifica attraverso le parole di padron “Ntoni”, uno dei protagonisti dei Malavoglia (1881) usando uno dei tanti proverbi alimentari che custodiscono la saggezza di una famiglia fondata su un’economia di sopravvivenza, con l’orto, le galline, il lavoro della salatura delle acciughe; un ventre che rivendica la necessità di sfidare la legge, quando quest’ultima minaccia di violare un senso immediato di giustizia e che diviene quasi simbolo di continuità della vita, come sembra significare l’episodio del ‘consòlo’ per la morte di Bastianazzo: un ben di Dio viene portato dalla comunità nella casa colpita dal lutto, quasi a risarcire una perdita e a trasformare la morte in una promessa di vita. Ed è ancora una simbologia di nutrimento quella che segna l’esclusione del colpevole, la cui punizione non può essere la morte, ma lo sradicamento.
Nasce un nuovo secolo, quello della “generazione perduta”. Dalle trincee insanguinate della Grande Guerra è sorto il Secolo Breve. Si beve per dimenticare, per vivere. E le distinzioni fra classi sociali si fanno meno rigide. Il cibo va ad occupare un genere letterario popolare, considerato tuttavia da grandi romanzieri come Gide e Gadda, la chiave migliore per disserrare il cuore di tenebra del Novecento: il romanzo con al centro un delitto, e un’indagine. Il romanzo giallo o noir. Leggendo i giallisti dei paesi affacciati sul Mediterraneo, sembra talvolta di sfogliare libri di cucina: sia esso un ottimo cuoco, come Carvalho, o una buona e esigente forchetta, come i personaggi di Izzo, Camilleri e Markaris; l’eroe sembra più alle prese col cibo che non con l’indagine. Perché? Perché questa attenzione alla tavola? Una moda? Perché la cucina? Perché cucinare è operare trasmutazioni, ottenere dagli ingredienti primari qualcosa di diverso e più ricco. Proprio come nell’alchimia. Il rito del cucinare trasforma questo nostro tempo nel sogno di un tempo più ricco e strano. Proprio come scrivere, perché la scrittura è insoddisfazione (della vita) e trasmutazione (della parola).
Quanto al Novecento italiano, che ha visto il mondo contadino svanire nel corso degli anni Sessanta, archiviando così il paese della fame, potremmo ricordare i ravioli e le polente di Arpino; le attente fiabesche cotture di Buzzi, di raffinata povertà; il vino di Pavese, Soldati e Zavattini; il kipferl con cappuccino e l’aragosta con Silvaner ghiacciato che, nel ricordo, riesumano nella Dolcezza di Parise e l’incanto senza parole della vita che inesorabilmente si spegne. E, naturalmente, i deliri gastronomici di Gonzalo, (Gadda) contrapposti alle fangose viscide morte tinche della cucina materna nella ”Cognizione del dolore”, cibo come “vaneggiamento psicotico che convoca orale e anale a tessere l’indigeribile grumo di male oscuro, lo gliommero indistricabile”. E poi? E poi pochi altri, minori: i sapori in punta di stocc(afiss)o della Liguria di Orengo, per dire un nome. Ma oggi? Oggi, in questo fuso mondo globale, ben riassunto nella geniale julienne di lenticchie di Antonio Albanese, chiudo con la più breve estrema saporosa ricetta della letteratura italiana di Lele Luzzati, in una di quelle sue deliziose storie animate dove, frustrato, lo stolido cattivo di turno così minaccia l’astuto marmocchio: “Ti stacco la testa, ti strappo le budella, e quello che resta me lo friggo in padella”.
Consigli di lettura:“Leopardi a Napoli. Tra sorbettieri, pasticcieri e seguaci della filosofia dei maccheroni” di Carmine Cimmino. (Edizioni 2000diciassette, saggistica).