Il dispotismo dell’intolleranza egualitaria è uno dei caratteri che connota il nostro tempo. Un conto è ritenere tutti eguali davanti alla legge (escludendo casi specificamente previsti: deboli di mente, marginali incapaci di intendere e di volere, eccetera) e nelle opportunità di affermazione delle loro personalità, altro è immaginare un mondo popolato da “automi” forniti di tutte le prerogative possibili ed immaginali, prescindendo da peculiarità e doti umane, morali, civili, culturali, intellettive. Purtroppo l’ideologia dell’indifferentismo si è imposta a scapito della ragionevolezza. Il punto di non ritorno sembra essere racchiuso nel più stupido degli aforismi coniati di recente: “Uno vale uno”. Demenziale, mica tanto, comunque. Esso è il presupposto per la costruzione di una nuova classe di oligarchi. Invero, se così fosse, soltanto i manovratori di un plebiscitarismo ottuso quanto manipolato potrebbero “pilotare” il consenso su coloro i quali dovrebbero poi asseverare con i comportamenti – cioè la nuova élite – le decisioni dei “eletti”, di coloro i quali hanno scolpito sulle tavole della legge l’assunto che, a conti fatti, nessuno vale più di un altro. E invece sappiamo che non è così.
Lo sapevano anche i giacobini, i quali sulla stessa lunghezza d’onda costruirono il loro potere, tranne scannarsi, con la raffinatezza che sappiamo, per imporre l’egualitarismo totalizzante ad una società divisa in ceti che, di fatto, furono aboliti con la Loi Le Chapelier, promossa da Isaac Guy Le Chapelier, avvocato bretone e poi deputato agli Stati generali del 1789, promulgata dall’ Assemblea Costituente il 14 giugno 1791. Essa abolì le organizzazione di mestiere, innanzitutto le corporazioni millenarie, ma anche le prime forme di sindacato e il diritto di sciopero proclamando di fatto un curioso “diritto d’impresa” al quale avevano “diritto” di partecipare soltanto coloro che potevano permettersi di imprendere, cioè una minoranza.
Le cose andavano così in quella Francia avvelenata, ma l’intolleranza è progredita rapidamente, nella stessa misura in cui lo sviluppo tecnologico e la conseguente sollecitazione dei bisogni hanno ampliato la loro portata caratterizzando in senso materialistico la società contemporanea. Di fronte alla possibilità data oggi ad ognuno di poter fruire delle medesime cose e di essere partecipe di uguali privilegi, si è avvertita la necessità di ideologizzare un tipo di atteggiamento verso tutti i complessi fenomeni della vita. Ecco l’istituzionalizzazione dell’egualitarismo per il quale non esistono più differenze formali e neppure sostanziali quando si pone la domanda: “E perché io no?”.
In principio era il “mito”: tutti sono eguali davanti a Dio; poi si è trasformato in filosofia politica: ogni essere umano è uguale all’altro; infine è divenuto un assunto antropologico: non esistono differenze biologiche, intellettive, umane, percettive. Dall’egualitarismo all’ideologia gender, per fare un esempio, il passo è stato brevissimo, quasi non ce ne siamo accorti.
Ma ciò che più colpisce è che l’egualitarismo, fin dalle prime formulazioni teoriche è apparso come il corollario naturale dello spirito economicista, tanto che si può affermare che il culto dell’egualitarismo è figlio del culto dell’economia. Il che è l’anticamera della distruzione delle diversità, ricchezza ancestrale che ci siamo portati dietro per tutta la storia dell’umanità, ma che oggi appare un’anticaglia inservibile.
Il livellamento esteriore – da tutti i punti di vista – è la manifestazione di un’ univoca mentalità tesa alla uniformazione di pensieri, sentimenti, attitudini, slanci vitali il cui punto d’approdo non può che essere il morbido totalitarismo segnato dalla’ “uno vale uno”. Cioè a dire: nessuno vale niente.
Il pensiero egualitario costituisce il comune denominatore delle dottrine universaliste e delle ideologie politiche ed economiche livellatrici. Tali teorie sostengono la fungibilità di ogni essere umano davanti agli eventi dell’esistenza, vale a dire il principio di sostituzione in uno stesso contesto sociale senza che muti il valore del contesto stesso. Come dire: se una schiera di premi Nobel si ingegnasse per far evolvere certe dinamiche sociali, lo stesso accadrebbe se una masnada di dilettanti si provasse a fare lo stesso. E purtroppo non è un paradosso fantasioso…
L’esclusione aprioristica di personalità o élites accertate non più che aprire la strada ad una sorta di riduzionismo che è poi la causa principale della decadenza contemporanea. E l’egualitarismo è fisiologicamente riduzionista: se tutti vengono infatti ritenuti essenzialmente identici allora essi sono anche intercambiabili a seconda delle esigenze delle classi dirigenti democraticamente deputate alla selezione dei rappresentanti del popolo, per esempio, o dei manager di Stato o ancora dei tecnici che devono sovrintendere alla funzionalità dei sistemi complessi.
“Uno vale uno”. Una società così formata non potrebbe essere altro che la somma delle sue parti (le “monadi di Leibniz), senza profondi coordinamenti tra loro, gravitanti soltanto “casualmente” in una stessa orbita. Si potrebbe dire che alle loro azioni non presiede una volontà informatrice di tipo superiore, ma soltanto la contingenza ha senso e valore.
L’egualitarismo è dunque una ideologia intrinsecamente meccanicistica alla quale sfugge il particolare in aderenza ad una rappresentazione universale dell’uomo. Ed il particolare , a ben vedere, è costituito dai dati caratteristici in possesso di ogni identità vivente. Fra queste identità intercorrono rapporti “naturali” di gerarchia che ne determinano in maniera decisiva le specifiche funzioni.
Le società, in effetti, sono degli insieme di viventi, cioè a dire di gruppi umani differenziati, come le membra di un corpo, eppure tutti concorrenti alla realizzazione del medesimo scopo: la perpetuazione della vita in modi e forme diversificate a seconda delle epoche, dei luoghi, dei contesti storico-politici.
L’organicità, insomma, non ammette l’egualitarismo. E non vi è stata nella storia nessuna comunità umana che non abbia conosciuto gerarchie, élites, corpi differenziati senza che questo volesse dire necessariamente subordinazione illiberale (che pur si è realizzata in contesti diversissimi), ma semplice distribuzione di ruoli e funzioni coordinati da coloro che venivano ritenuti atti a guidare, decidere, giudicare, proteggere le comunità stesse.
Ma com’è possibile l’organicità dei corpi (e la stessa verità potrebbe valere anche per le macchine) se si tende a costruire dei motori, delle “dentellature” uguali, ingranaggi “piatti”, insomma? È qui che l’ideologia egualitaria mostra la propria inconsistenza. Il meccanismo che l’ispira annulla lo sviluppo armonico dei rapporti intercorrenti fra gli uomini, li “pietrifica” e li “materializza”, come osservava Oswald Spengler, mostrando così i segni distintivi della decadenza.
Nelle famiglie, nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche, nelle cattedrali dove si inventa il futuro e la fantasia s’invera in “scatole” che segnano la nostra vita, in questo universo complesso almeno quanto lo era quello del pleistocene poiché nulla evolve senza gradualità, “uno non può valere uno”. È una finzione propagandistica che svolta in chiave politica deflora la ragione mitizzando la demagogia. La disuguaglianza oggettiva, vale a dire la diversità è il fondamento delle società sane. Scriveva Alexis Carrel, il grande biologo cattolico, a proposito dell’insorgenza e dell’affermazione del predominio dei mediocri: “Costoro sono ovunque preferiti ai forti: sono aiutati, protetti, spesso ammirati, come se non si sapesse quanto gli ammalati, i criminali, e i pazzi attirino la simpatia del grosso pubblico. Il mito dell’uguaglianza, l’amore del simbolo, lo sprezzo del fatto concreto sono colpevoli, in grande misura, dell’indebolimento dell’individualità. Siccome era impossibile innalzare gli inferiori, il solo mezzo di produrre l’uguaglianza fra gli uomini era di portarli tutti al livello più basso: in tal modo scomparve la forza della personalità.
Non solo il concetto di individuo venne confuso con quello di essere umano, ma quest’ultimo venne adulterato con l’introduzione di elementi estranei, di concetti derivati dalla meccanica, e privato di alcuni elementi suoi, essenziali”.
E, con particolare efficacia proseguiva: “Abbiamo dimenticato il pensiero, la sofferenza morale, il sacrificio, la bellezza e la pace: abbiamo trattato l’uomo come una sostanza chimica, una macchina, o una ruota di macchina; l’abbiamo amputato delle sue attività morali, estetiche e religiose, e abbiamo anche soppressi alcuni aspetti delle sue attività fisiologiche; non ci siamo chiesti in che modo i tessuti e la coscienza si sarebbero adattati ai mutamenti dell’alimentazione e del sistema di vita; abbiamo trascurato totalmente la funzione principale dell’attività di adattamento e la gravità delle conseguenze della loro messa in non cale. La nostra debolezza attuale deriva insieme dal mancato riconoscimento della individualità e dall’ignoranza della costituzione dell’essere umano”. È l’introduzione al riconoscimento dell’uomo-massa per il quale “uno vale uno”. E José Ortega y Gasset, il più grande antropologo e filosofo spagnolo del secolo scorso, di estrazione liberale, nella Ribellione delle masse, poteva consapevolmente scrivere: “La caratteristica del momento è che l’anima volgare, sapendosi volgare, ha il coraggio di affermare il diritto alla volgarità e lo impone dovunque. Come si dice in Nord America: essere differente è indecente. La massa travolge tutto il differenziato, l’eccelso, l’individuale, il qualificato, il selezionato. Chi non è come tutto il mondo, chi non pensa come tutto il mondo corre il rischio di essere eliminato. Ed è chiaro che questo ‘tutto il mondo’ non è veramente ‘tutto il mondo’. ‘Tutto il mondo’ era normalmente la unità complessa di masse e minoranze differenziate, particolari. Oggi tutto il mondo è solo massa.
Questo è il fatto formidabile del nostro tempo, descritto senza nascondere la brutalità della sua apparenza.
La storia dell’Impero Romano è anche la storia della sovversione, dell’impero delle masse, che assorbono e annullano le minoranze dirigenti e si pongono al loro posto. Anche allora si produce il fenomeno della agglomerazione, del pieno. (…). Viviamo in un’epoca di livellamenti: si livellano le fortune, si livella la cultura fra le distinte classi sociali, si livellano i sessi. Nel nostro tempo domina l’uomo-massa; è lui che decide”.
Difficile contraddire Carrel o Ortega. L’uomo-massa è il prodotto più maturo dell’abrogazione della selezione, della meritocrazia (che pur s’invoca come un gadget per istupidire coloro che devono essere convertiti alla teologia politica dell’ “uno vale uno”), dello spirito di sacrificio, del riconoscimento delle differenze, delle disuguaglianze organiche funzionali alle dinamiche delle società complesse.
Non basta un “uomo unico” perché il mondo ridiventi un posto migliore. C’è bisogno di uomini unici, di moltitudini differenti per cultura, religione, sentimenti, visioni del mondo affinché sia possibile l’integrazione della libertà con le necessità. Uno vale uno, oltre a non valere niente, è l’ideale insegna di un universo concentrazionario. Solzenicyn veniva considerato uno come un altro. Ma era Solzenicyn.