Davanti all’indecifrabile allegoria di Sandro Botticelli, semplicemente intitolata Primavera, c’è soltanto una chiave di lettura possibile, mentre il resto viene lasciato necessariamente alle interpretazioni più diverse in ragione dell’enigmaticità del dipinto. Sullo sfondo scuro si staglia un promettente e avvincente corteo di bellezza danzante, nel quale spicca il sorriso malizioso e seducente di una giovane donna vestita di veli leggeri, fiorati, il cui sguardo s’insinua in un punto misterioso con un’insistenza e una determinazione che non lasciano dubbi: esso è promessa di rinascita e di ostentata sfida a tutto ciò che le sta davanti, con la certezza che nulla lo spegnerà dopo aver attraversato presumibilmente il buio lasciatosi alle spalle, e che fa da sfondo al singolare quadro d’insieme che non si sa bene che cosa voglia rappresentare.
L’incantodell’opera botticelliana ritorna alla mia memoria, fin da quando ne sono rimasto avvinto per la prima volta ed ero poco più che un ragazzo, ogni anno, di questi tempi, al volgere della stagione mite dopo i rigori dell’inverno. E al di là dell’avvincente evocazione estetica, essa mi ha sempre ispirato sentimenti di rinascita colorando un po’ la mia esistenza spirituale quasi gotica e riportando in superficie le luci mediterranee sprofondate nella coscienza di chi ha nietzscheanamente toccato con mano la decadenza. Ecco. La primavera non è soltanto un periodo dell’anno in cui si accendono, miracolosamente, nuove speranze e si ritrovano motivazioni spentesi con la fine dell’estate. Essa è un dono spirituale che conferma la promessa dell’Essere a non abbandonarci. E tutto quanto di visibile si manifesta è l’apparizione dell’eterno ritorno nel segno di una creazione che non teme di stupire con la sua bellezza disinvolta, sfacciata, esibita.
Cambiano i colori nella consapevolezza che moriranno per rinascere; mutano gli umori esaltandosi nella gioia della natura che prorompe sapendo che torneranno grigi dopo mesi di passione culminante nel fuoco dell’estate; si arricchiscono le aspettative dei giovani davanti alla vita e un po’ si mitigano i dolori dei vecchi nella prospettiva della fine. Dalle mie parti, nel meraviglioso Sud affogato nel disprezzo comune e ingiustamente colonizzato da culture e costumi barbari, le feste della primavera, celebrate negli anni della fanciullezza e dell’adolescenza, retaggi di antichi riti pagani cui si sono sovrapposti quelli cristiani, erano feste di promesse e di rinascenza. Le sfolgoranti immagini di Madonne e Santi, portati in processione, non avevano mai la mestizia del martirio o del dolore, ma la vitalità che vince la brutale condizione umana per elevarsi nel cielo delle beatitudini. Ma il primo giorno di primavera è forse quello che ricordo meglio di ogni altro: la festa di San Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale, grande mistico, patrono poi dell’Europa, ma per me simbolo della mia fanciullezza essendo stato educato dai Padri benedettini cui devo tutto ciò che spiritualmente sono.
Nel fasto del 21 di marzo, tra le mura dell’Abbazia cavense, si ripeteva una professione di fede nei valori della nostra civiltà. E per me quella era la data dell’inizio del nuovo anno. Curioso, ma continuo a pensarla così. Anche gli usi domestici, le consuetudini alimentari, i festeggiamenti che precedevano, ma soprattutto seguivano la Pasqua di Resurrezione, venivano vissuti da popolazioni perlopiù contadine, come gioiose promesse di rinnovamento in attesa dell’estate imminente e del raccolto che si sperava copioso. Sicché i campi, abbandonati dopo la potatura, prendevano l’aspetto di grandi piazze frequentate da uomini e donne e bambini ognuno intento al proprio piccolo raccolto: asparagi selvatici, mammole profumate, erbe tra rovi che a prima vista si sarebbero detti inaccessibili, dalle quali si ricavavano magnifiche insalate o frittate povere appena arricchite di alcuni odori dell’orto. E si cominciava a misurare la lunghezza dei filari delle viti, mentre dalle botti si spillava finalmente il vino nuovo messo a riposare in ottobre, e qualche salume appena essiccato faceva bella mostra sulla tavola imbandita di semplicità.
Quanta primaveraci fosse nelle cantine della mia infanzia e nel mio cuore di bambino non saprei dire. Ma il ricordo mi commuove forse perché l’età grave avanza e distende la sua ombra. E so che davanti a me di primavere ne sono rimaste poche. Abbastanza, comunque spero, perché di questi tempi, rifugiato nelle campagne che conosco, possa ancora assaporare l’aria frizzante, ma non fredda del mattino, godere dello spettacolo dei mandorli, dei peschi, dei meli e dei ciliegi in fiore, raccogliere nei prati che so io le poche violette a cui l’edilizia selvaggia permette di vincere la sua brutale invadenza. E soprattutto posso assaporare il frutto indescrivibile della rinascita che spunta dentro di me e che poi appassirà e morirà per rinascere ancora. Ho sempre immaginato che dovendo scegliere il tempo della creazione, Dio abbia fatto il mondo e l’uomo in primavera. Non si spiegherebbe diversamente la ragione della sonnolenza che lascia il posto al risveglio. E, come nell’allegoria di Botticelli, la notte sullo sfondo esalta l’abbagliante luce che quasi fuoriesce dal dipinto. C’è un immenso amore in quel volto, in quei volti. E l’incedere della vita oltre le tenebre, così da sempre, come dal primo giorno. Frugando nella memoria e nei sentimenti, ognuno riconosce a primavera la propria rinascita. Sicché la poesia della stagione è un canto universale che i credenti celebrano attendendo la Resurrezione e coloro che cristiani non sono immergendosi in ritualità ancestrali che segnano la sconfitta della morte.
Primus è l’inizio, come si sa. Ver in sanscrito sta per radici. Primavera è il nuovo inizio, dunque. E come tale la più sacra delle stagioni. Non è invenzione dei poeti, né costruzione dei teologi. È nata con l’uomo cui ha ispirato e ispira, almeno lo spero, suggestioni tali da ricongiungerlo con la sua natura stessa e con quella dalla quale deriva. La profanazione del Tempo, propria della modernità, certo non aiuta a riconnetterci con quanto ci trascende. E rischia di restare appesa al calendario, la primavera sconosciuta nelle sue pieghe e nelle sue intime ragioni. Oggi, Botticelli non saprebbe come dipingerla. O, più probabilmente, darebbe un altro nome alla sua opera.