• 26 Dicembre 2024
Editoriale

La differenza tra storia locale e storia nazionale è empirica ma non storiografica. La conoscenza storica ha due elementi: documento e narrazione. Quando uno dei due manca non si conosce, al massimo ci si illude di conoscere. Il documento è cieco senza la narrazione, la narrazione è vuota senza il documento. Entrambi sono necessari, ma presi ognun per sé sono insufficienti. La storia, dunque, non si distingue per luogo o tempo o importanza ma solo se è storia o no, se è vera o falsa. La storia, ogni storia, che sia di un municipio o di una nazione è sempre insieme particolare-universale. Eppure, questa consapevolezza di cosa sia la storia è oggi mancante ai più.

In un mio libro sulla storia del mio paese, Sant’Agata dei Goti, ho commesso un errore che mi dà tormento. Soffermandomi sugli affreschi della sala consiliare ho scritto che il re raffigurato è Vittorio Emanuele II mentre è Umberto I. Più che un errore, uno svarione. Dovuto, forse, a un lapsus, a distrazione. Ma una volta scritta la sciocchezza lì è rimasta e me ne sono reso conto solo anni dopo quando ho ripreso in mano quelle pagine proprio per cercare notizie sugli affreschi. Non vedo l’ora di fare una nuova edizione del libro per correggere l’errore. Ma c’è un paradosso: il tormento che mi dà l’errore è testimonianza dello scrupolo che porto nella considerazione della storia, locale e nazionale, che in quanto verità storica è la premessa della buona vita civile. Invece, se mi guardo intorno devo, ahimè, constatare che la storia è manipolata e usata a fini di propaganda. A volte la manipolazione avviene in modo inconsapevole, proprio perché non si ha una reale critica coscienza storica, altre volte addirittura accade con lo scopo di censurare e negare.

La tecnologia, con la sua potentissima capacità di diffusione di massa, ha aumentato l’arte manipolatoria: sia per la cronaca sia per la storia. Certo, il web – la rete, internet – permette di ampliare la ricerca con la disponibilità di archivi e fonti. Tuttavia, il pericolo è maggiore dell’opportunità. Il lavoro filologico e storiografico è rigoroso e frutto di esperienza e finezza spirituale. Non consiste nel ritrovamento di una cartuccia con cui si crede di aver scoperto il Santo Graal. La diffusione istantanea attraverso i social non produce conoscenza ma illusione di conoscenza perché si basa su finzioni, emozioni, contraffazioni, dati volutamente errati. C’è poco da fare: è il nostro tempo – che in realtà dura da almeno un secolo – e bisogna sforzarsi di pensarlo proprio storicamente. E’ un tempo in cui abbondano le stronzate che a volte prendono anche nomi pretenziosi come “post-verità” ossia verità costruite a tavolino. Ecco perché ho avvertito il bisogno di scrivere un testo come Teoria generale delle stronzate (Castelvecchi). Perché con le stronzate, cioè con la stupidità organizzata, si può perfino portare al disastro una nazione.

Uno dei casi di manipolazione storica di cui mi sono occupato è la storia di Pontelandolfo e di Casalduni. Quello che fu l’incendio di Pontelandolfo e di Casalduni è stato trasformato ad arte nell’eccidio di Pontelandolfo attraverso l’invenzione di numeri, la manipolazione di fonti, la censura di documenti. Mentre il vero eccidio – quello dei 41 soldati italiani trucidati – è stato svalutato, deriso, apprezzato. Il mio lavoro, Pontelandolfo 1861. Tutta unaltra storia (Rubbettino), ha con acribia e giudizio storico – sudate qualità che mi sono state almeno riconosciute dagli storici italiani e dalla stampa nazionale che a suo tempo si lasciò incantare dalle bugie – ricostruito fatti e avvenimenti mettendo insieme, appunto, documenti e narrazione. Dopo la mia pubblicazione ci sono stati altri studi – il libro di Silvia Sonetti, gli ulteriori approfondimenti di Ugo Simeone, la sempre apprezzata attenzione di padre Davide Fernando Panella e anche i saggi di Carmine Pinto – che hanno fatto uscire sia la storia di Pontelandolfo e di Casalduni sia il Risorgimento meridionale da un cono d’ombra e di menzogne e di vittimismo in cui erano state non senza colpe relegate.

Ora la cattiva abitudine della storia inventata colpisce anche il mio paese – Sant’Agata dei Goti – che di storia è così ricco. Da un po’ di tempo, proprio attraverso la diffusione social, ha preso piede una strana teoria: il nome “Sant’Agata dei Goti” non deriverebbe dai Goti bensì dalla famiglia de Goth. Nella pagina Wikipedia dedicata a Sant’Agata dei Goti, con tanto di stemma comunale, si legge (riporto testualmente): “Secondo alcuni studiosi esisterebbero fonti storiche, mai pubblicate o citate in alcun testo, secondo le quali fu Roberto d’Angiò a trasferire la proprietà del feudo a un ramo dei De-Goth provenienti da Aquitania e Guascogna venute in Italia in occasione della guerra a seguito del re”. Quindi, chi ha scritto la pagina dice che le cose che sostiene sono prive di documenti. Poi termina così: “…ma mentre le tesi sopra esposte sono dimostrabili dalle tracce normanne lasciate nella città, quella relativa a una fondazione o a un passaggio da parte dei Goti non è in alcun modo dimostrabile”. Qui siamo davanti al capovolgimento dei fatti: la storia documentata diventa non dimostrata e la storia non documentata diventa dimostrata. L’obiettivo, da quanto è dato capire, è l’esclusione dei Goti dalla storia di Sant’Agata dei Goti.

La questione del nome di Sant’Agata dei Goti è un (relativo) problema moderno che non era presente, per forza di cose, ai Goti o ai Longobardi e alle altre genti che vennero dopo e credere di trovare da qualche parte un atto di fondazione della città con tanto di nome è per lo meno ingenuo. Ciò non toglie che a Sant’Agata – come si vede lo scrivo anch’io senza dei Goti – ci siano documenti che riportano proprio quel Gothorum la cui esistenza è perfino negata e censurata o postdatata al 1500 mentre esisteva già da mille anni con la Historia Gothorum di Cassiodoro o con la chiesa di Sanctae Agathae Gothorum a Roma. Sulla pietra visibile a tutti, per fare un esempio tra i tanti che si possono fare, compresa la cancelleria della Santa Sede, è scritto in latino qui tradotto: “…questa città che i Goti superstiti costruirono col nome di Sant’Agata”. Alla negazione dei documenti si aggiunge poi la narrazione insensata. Sostenere che chi ha scritto dei Goti lo ha fatto perché ha trascritto o ha sentito feudo de Goth ma non conoscendo la famiglia de Goth ha inteso dei Goti significa sostenere il nulla perché il feudo non è familiare ma nazionale ossia appartiene alla Corona. Insomma, la pseudo-tesi de Goth – che vuole escludere i Goti dalla storia santagatese, mentre è ormai dimostrato che nell’area sannita ci fu un insediamento di Goti – si fonda su una censura e su un’invenzione. Cose che con gli studi storici non vanno d’accordo. Il progresso civile è frutto della conoscenza storica e la storia di Sant’Agata dei Goti, che dispone di una ricca bibliografia, merita più cura e attenzione da parte dell’amministrazione comunale. E’ il caso che l’assessorato alla cultura si ponga il problema di dare un’informazione istituzionale più rispettosa della storia di Sant’Agata dei Goti. Fu Francesco Viparelli, autore nel XIX secolo delle Memorie Istoriche della Città di Sant’Agata de’ Goti, a notare nell’Aggiunta della sua opera: “Se tale oscurità cuopre la prima origine di S. Agata de’ Goti, che di sicuro dir si può sul suo conto, e non delirare?”. Era ironico il Viparelli e diceva di non avere “tutto in saccoccia” ma non poteva immaginare che proprio sulla storia di Sant’Agata dei Goti si sarebbe delirato credendo di avere la verità in saccoccia.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.