Knut Hamsun in Italia è molto noto, e non da qualche anno. I suoi romanzi hanno avuto sempre una grande fortuna inversamente proporzionale alle disavventure dell’autore delle quale parla diffusamente, nella più completa biografia del Premio Nobel per la letteratura nel 1920, lo studioso finlandese Tarmo Kunnas del quale l’editore Settimo Sigillo ha pubblicato qualche anno fa L’avventura di Knut Hamsun, mentre Adelphi ha mandato in libreria alcuni dei suoi più significativi romanzi. Materiali per farsi un’idea della sua opera complessiva, dunque, ma soprattutto del suo pensiero e delle sue controverse opinioni politiche per le quali venne ostracizzato e demolito nell’immediato dopoguerra, non mancano. Il libro di Kunnas, oltretutto, mette fine ad una “demonizzazione” scandalosa, riconducendo Hamsun nell’alveo della letteratura europea del Novecento nella quale occupa un posto di grande rilievo.
L’ultimo suo libro apparso in Italia è un curioso e sapiente romanzo filosofico-economico: Il potere dei soldi , edito da Iduna con una introduzione di Paolo Mathlouthi. Il protagonista è Benoni Hartvigsen, un povero pescatore e postino che, un giorno, diventa improvvisamente ricco, e vive in prima persona la drammatica contrapposizione tra denaro e lavoro, tra Natura e città, tra la serenità di una vita povera ma inserita in una comunità armoniosa e le angosce di un’esistenza ricca vissuta in mezzo all’egoismo individualista, in una parola tra civiltà e civilizzazione . Un romanzo “conservatore”, potremmo definirlo. E lo riporta alle origini, ai romanzi come Fame, per esempio, che si guadagnò agli inizi del secolo scorso una grande notorietà. Al punto che furono in molti ad elogiarne le qualità letterarie ed ad apprezzarne l’eticità.
In occasione dell’attribuzione del Nobel nel 1920, per esempio, Thomas Mann disse che mai era stato assegnato a qualcuno che lo meritasse di più; Kafka, Brecht, Miller furono ammaliati dal suo stile; Isaac Bashevis Singer riteneva che la “tutta la letteratura moderna deriva da Hamsun”; Eugenio Montale lo considerava “il più degno successore di Ibsen e Bjornson nel cielo della moderna letteratura europea”.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne “gettato” in un “cattiverio” dal quale non sarebbe più dovuto uscire per decreto dei quegli stessi che stabilirono la “morte civile” per Ezra Pound, vincitori incuranti del suo genio e poco inclini a tenere separate arte e politica, costruirono attorno ad Hamsun una sorta di cordone sanitario del quale lo scrittore diede contezza nel suo esame di coscienza Io traditore. E’ vero che appoggiò Quisling, ma non aderì al nazionalsocialismo. Furono piuttosto, come scrive Kunnas, il suo antiamericanismo e l’ostilità all’Inghilterra, “potenza mercantile” che detestava, a negargli la “rispettabilità”. Per questo prima venne internato in un ospizio e poi in un manicomio. L’accusa, infondata, ancorché feroce, fu di “intelligenza con il nemico” e “collaborazionismo”. Un intellettuale “delinquente”, insomma. Della stessa “famiglia” dei Pound, Brasillach, Drieu La Rochelle, Céline… Il tempo comunque è galantuomo e su Hamsun non si è depositata la polvere. Lo testimonia la ripubblicazi
La sua opera, infatti, resta integra dal punto di vista letterario one dell’ultimo romanzo civitato. E conosce una rivalutazione sorprendente (a parte la voluta dimenticanza nei vari festival di letteratura nordica) per i caratteri originali che presenta. L’ostilità al materialismo, al mercantilismo, all’assolutismo del denaro, ai condizionamenti dell’industrialismo, al “pensiero unico”, insomma, ne fanno un antesignano della difesa della natura e dell’identità culturale del suo Paese, non meno che di tutte le differenze, come evidenzia Kunnas. Quella stessa natura che viene celebrata omaggiando una ragazzina ed un impalpabile movimento di opinione ambientalista, trascurando scrittori come Hamsun che dell’ecologismo ante-litteram permeò la sua produzione letteraria. Non foss’altro che per questo un posto in una rassegna come quella milanese avrebbe dovuto occuparlo, a testimonianza che la questione del rapporto uomo-natura è stato vissuto culturalmente, da oltre un secolo suscitando movimenti politici e letterari tra i quali un ruolo di tutto rispetto merita proprio ad Hamsun.
Di più. Per il suo biografo Kunnas, Hamsun “rappresenta uno degli analisti più perspicaci riguardo sia ad alcune forme estreme del mercato e dell’industrializzazione, sia alla vita politica”. In aggiunta, egli non esalta solamente la “grandezza dell’uomo europeo”, ma ne mette in evidenza anche i limiti. Ed ancora rivela “il lato arcaico di ogni uomo e dell’intera umanità”, dimostrando che il destino della persona è tutt’altro che agevole da definire e determinare nel contesto della civiltà moderna.
Di tutto questo lo Stato norvegese, alla fine della guerra, non tenne conto accanendosi contro Hamsun ben oltre ogni plausibile ragione, posto che lo scrittore non si era macchiato di nessun crimine ed aveva quasi novant’anni. Oggi lo consideriamo uno scrittore “postumo”. E Kunnas ci ricorda la sua “avventura”. Che ritorna con la ripubblicazione da parte dell’editore Fazi di quello che fu il suo ultimo libro, Per i sentieri dove cresce l’erba nel quale fece bene a mettere in chiaro in quella sorta di diario come stavano le cose; un libro di frammenti, memorie, suggestioni, difensivo e mai offensivo che va letto oggi come da pochi venne letto a dieci anni dalla scomparsa dello scrittore, nel 1962, quando apparve in Italia, edito dal Borghese, con il titolo Io, traditore, senza suscitare particolare interesse.
I tempi sono cambiati, almeno così sembra. Per i sentieri dove cresce l’erba (nuovo titolo, nuova traduzione) non può che essere accolto come l’esame di coscienza di uno scrittore che non cerca giustificazioni, ma reclama soltanto il diritto ad essere giudicato per le sue idee che, in ogni caso, non prefigurando delitti, non potevano essere messe alla sbarra. È perciò un libro che ci interroga sulla libertà di pensiero e sulle dimensioni dell’intolleranza esercitata soprattutto contro gli intellettuali.
Quando la Cassazione emise la sentenza, Hamsun finì di scrivere. Dopo quattro anni di silenzio, si spense. Aveva novantatré anni e si addormentò nella contemplazione della “sua” natura scandinava che aveva fatto da sfondo a quasi tutti i suoi romanzi. Un vero “iperboreo”, figlio di una etnia estremo-nordica, cara ad Apollo.