Ci siamo: approdando alla Camera per il definitivo via libera, il ddl Calderoli supera l’ultima curva ed è ora sul rettilineo che conduce al traguardo. L’autonomia differenziata sta per diventare legge. A questo punto, direbbe il Poeta, c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico: il ritorno dell’Italia alla sua dimensione di «espressione geografica» cui l’aveva condannata il principe di Metternich per sottolinearne il ruolo di pedina a disposizione delle strategie dei grandi Stati nel ribollente scacchiere europeo dell’Ottocento. A distanza di oltre un secolo e mezzo, l’Italietta degli staterelli è pronta alla sua grand rentrée sui tavoli dei negoziati europei, dove ci presenteremo in ordine sparso a trattare questioni strategiche come energia, grandi infrastrutture, reti di comunicazione e via sfasciando. Si sfarina così lo Stato unitario realizzato nel 1861. Se ne constaterà formalmente il decesso quando i governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna passeranno ad incassare le intese necessarie per gestire in esclusiva una sterminata congerie di materie oggi dello Stato. Zaia ha già annunciato che per quelle non abbisognevoli della preventiva determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), lo farà un minuto dopo la pubblicazione della legge in Gazzetta Ufficiale. Sono nove, cui sono connesse ben 184 funzioni, e tra esse spiccano competenze come commercio estero, professioni, rapporti internazionali e con l’Ue, protezione civile e previdenza complementare. Le altre seguiranno a Lep determinati e finanziati.
Ma è del tutto inutile attardarsi in questo latinorum a base di acronimi e astruserie procedurali. Ridotta all’osso, la questione è semplice: con l’autonomia differenziata le Regioni diventeranno Stati sovrani e l’Italia si trasformerà in una carnevalesca Repubblica di Arlecchino, dove ogni pezza colorata rappresenterà un territorio con leggi proprie, diverse le une dalle altre, e dove diverso sarà il godimento dei diritti e la fruizione dei servizi da parte dei cittadini. Il resto sono chiacchiere. E si illude chi a destra confida nella funzione riequilibratrice del premierato: la devoluzione di competenze dal centro alla periferia ridurrà il governo nazionale a un bidone vuoto. Magari sarà pure nobile montargli di guardia, ma sempre un bidone vuoto resterà. Che dire? È incredibile come la destra, la cui cultura politica si è nutrita per decenni di realistica diffidenza verso l’istituto regionale, si appresti ora con disinvoltura degna di miglior causa a incastonarlo come il perno della rediviva Italietta pre-unitaria. Realpolitik, suggerisce qualcuno adducendo a sua giustificazione la necessità di non scontentare l’alleato leghista. Ma è altrettanto vero che rischia di naufragare in questo mare chi affida alla logica dello scambio il dossier delle riforme, con due al prezzo di una come il famoso detersivo della pubblicità. Ma autonomia differenziata più premierato significa solo rimediare ad un errore con un altro errore.
È il caso di ricordare che la devolution, poi arenatasi sullo scoglio del referendum confermativo dell’autunno 2006 complice anche il disinteresse del centrodestra uscito sconfitto dalle elezioni politiche di pochi mesi prima, non solo abrogava la legislazione concorrente introdotta nel 2001 dalla sinistra con la scellerata riforma del Titolo V su cui s’innerva l’autonomia differenziata, ma riportava allo Stato competenze strategiche per il sistema-Paese, sanità compresa. Eppure anche allora al governo c’era anche la Lega. Qual è, dunque, la differenza con l’oggi? Semplice: il governo del 2005 imboccò la strada della riforma complessiva mentre l’attuale esecutivo ha preferito defilarsi lungo la scorciatoia dello spezzatino – un pezzo a me, uno a te – senza neanche accorgersi di essersi incanalato, sul versante dell’autonomia differenziata, nell’alveo delle politiche made in sinistra dal 2001 al governo Gentiloni.
Strano che i media non abbiano mai esplorato questi anfratti politici preferendo piuttosto trastullarsi con gossip e altre armi di distrazione di massa. Zero attenzione, invece, per la degenerazione in contropotere delle Regioni. Eppure, in questi mesi di scontro sull’autonomia differenziata sarebbe stato utile approntare un résumé del loro ruolo o stilare un bilancio del loro apporto rispetto, ad esempio, all’obiettivo della programmazione del territorio, del decentramento delle funzioni dello Stato, dello snellimento delle procedure burocratiche, della riduzione del divario Nord-Sud, del contrasto ai vizi e ai guasti del vecchio centralismo. Così come sarebbe servita un’inchiesta sullo stato di salute della sanità italiana, competenza da tempo in mano alle regioni che vi destinano l’80 per cento dei loro bilanci, al fine di appurare se gestirla in periferia piuttosto che al centro abbia dato i risultati sperati. Oppure si sarebbe potuto analizzare la qualità delle performance regionali durante la recente pandemia per poi capire se competenze tanto frammentate e metodiche così diverse siano state più di aiuto o più di intralcio all’azione di contrasto al virus. E, infine, si sarebbe potuto considerare il calo (ben più vistoso che in altre consultazioni popolari) delle percentuali di votanti alle varie elezioni regionali per misurare il grado di affezione popolare ancora riscosso da queste semi-istituzioni. Insomma, si sarebbe potuta avviare una salutare operazione-verità sul regionalismo, ma non si è voluto. E il discorso pubblico ne è rimasto desolatamente monco.
Fatale, dunque, che ora si proceda a casaccio con l’autonomia differenziata che s’ha da fare per accontentare Salvini, che a sua volta deve accontentare Zaia, che a sua volta ancora deve accontentare i veneti che nel 2017 votarono in un referendum privo di qualsivoglia valore legale. E fatale è anche che la destra finisca per incenerire non solo la sua antica tradizione unitaria ma anche la più recente postura sovranista, invero indispensabile sul fronte interno per meglio fronteggiare l’inarrestabile processo di integrazione europea. Ma tant’è, rendendosi complice dell’introduzione del regionalismo differenziato il partito di maggioranza relativa ha gettato le premesse giuridico-costituzionali perché l’Italia stia nella Ue esattamente come l’Italietta pre-unitaria dei tempi di Metternich stava nel concerto delle nazioni europee: divisa e derisa. Ma quale destra al mondo spacca la nazione che le è stata affidata dagli elettori in nome di effimere convenienze politiche? Nessuna. Può farlo giusto un socialista come Pedro Sanchez, che in Spagna non ha esitato a concedere l’amnistia agli indipendentisti catalani pur di non mollare la sua poltrona alla Moncloa. Evidentemente l’Italia si candida ad assurgere a laboratorio di sperimentazione di un inedito patriottismo che la patria, però, la manda a quel paese. Strappa, pertanto, un amaro sorriso constatare come da tempo stampa e tv si perdano dietro ai fantasmi di un’inesistente destra fascista mentre quella insospettabilmente “sfascista” nessuno l’ha vista arrivare.