• 23 Novembre 2024
La mente, il corpo

Sarei tentato provocatoriamente di dare ragione la Commissione comunale di Milano che ha declinato l’offerta della famiglia della scultrice Vera Omodeo della statua sulla maternità, visto che nella città meneghina e non solo imperversa una forte denatalità, gli esperti della commissione prendono atto della situazione e scoraggiano la collocazione della statua in uno spazio pubblico. Naturalmente non è questo il reale motivo della bocciatura della statua. Per gli esperti la scultura rappresenterebbe valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne linserimento nello spazio pubblico. Pertanto, consigliano di  donare l’opera a un istituto privato, come un ospedale o un istituto religioso.Resta da capire cosa si intende per valori non condivisibili: essere una donna, allattare o persino partorire? Nellepoca della furia arcobaleno, non ci stupiamo più di niente. Specialmente a Milano. (M. Balsamo, Se allattare non è un valore condiviso, 5.4.24, atlanticoquotidiano.it) Intanto il sindaco Beppe Sala visto il notevole eco mediatico è stato costretto a fare un passo indietro e a scaricare le responsabilità sui tecnici.C’è una commissione che non risponde a me, ma alla quale chiederò di riesaminare la questione, perlomeno ascoltando il mio giudizio. Ossia non penso che urti alcuna sensibilità”. Sulla rivista CulturaIdentità, è intervenuta Rita Lazzaro ed ha centrato la questione. ( “No alla statua che allatta: vergogna woke a Milano”, 8.4.24) “la maternità era, è e sarà sempre donna. Che piaccia o meno solo il corpo della donna è capace ad accogliere e far nascere la vita. È il corpo della donna col suo utero, i suoi ovuli, il suo seno a essere il solo capace di ospitare e donare e accogliere la vita”. Probabilmente tutto questo, “infastidisce i censori al servizio del politicamente corretto: ricordare che la maternità è donna e che quindi la donna esiste. Quel politicamente corretto puntualmente scorretto con la figura femminile vituperandone la sua essenza. Basti pensare ai murales e alle statue raffiguranti un uomo che allatta o ai concorsi di bellezza femminili e gare sportive vinti da uomini che si sentono donne”.

Per la giornalista la causa di questa degradazione della donna è lacultura woke che, in nome della tutela della diversità, cancella quella che muove il mondo. Una diversità che si cerca in tutti i modi di censurare impedendo statue che osano” rappresentare la realtà o proponendo leggi che danno vita a una vera e propria caccia alle streghe sol perché dicono il vero, ossia che un trans non è una donna.

Sul tema è intervenuto anche Marco Invernizzi, responsabile nazionale di Alleanza Cattolica, che ha cercato di evidenziare alcuni aspetti della vicenda, che peraltro potrebbe essere liquidata con una semplice constatazione: lodio ideologico contro la maternità è andato oltre il sopportabile nella situazione attuale della società, che si è ribellata. Gli stessi sostenitori dellaborto libero tacciono perché si sono resi conto dellassurdità del parere espresso dalla Commissione. (Allattare è uno scandalo?, 8.4.24, alleanzacattolica.org)

Tuttavia Invernizzi, propone una riflessione impegnata in cinque punti. Dalle dichiarazioni della Commissione, la raffigurazione di una donna che allatta «rappresenta valori rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini». La statua della scultrice Vera Omodeo Salè, che si intitola Dal latte materno veniamo, non esprime dunque valori universali? Sarebbe bello potere interrogare gli estensori di tale parere e ascoltare la loro risposta. Da dove pensano che veniamo? O forse si vuole fare apologia della maternità surrogata, che peraltro prevede comunque la nascita da una madre biologica?

Inoltre, Invernizzi evidenzia che la dittatura del relativismoche domina la cultura moderna non può accettare lesistenza di valori universali, che prescindono anche dalla cultura di un popolo perché sono scritti nella natura di ogni uomo. Questo è il senso della statua e della mamma che allatta il suo bambino, come avviene normalmente. Con questi presupposti è difficile risalire la china del crollo demografico diffondendo questa mentalità.

La Commissione del Comune ha suggerito di donare la statua a un ente privato, magari religioso. Cosa significa, che, se una cosa è “religiosa”, allora è bene che sia relegata nel privato? Che idea hanno della religione i membri della Commissione? E qui si potrebbe aprire la questione della libertà religiosa. Tra l’altro non si sta nemmeno parlando di una confessione religiosa, ma della domanda religiosa che ogni uomo si pone: chiedersi da dove si viene e dove si va dopo la morte è un affare privato, oppure è la domanda universale, che ogni uomo si pone? Attenzione, perché con questa mentalità si mette in discussione il principio stesso della libertà religiosa, che non è soltanto la libertà di culto, ma anche e soprattutto la necessità di una dimensione pubblica per la domanda religiosa”.

In conclusione Invernizzi fa due osservazioni: 1 riguarda la drammatica scomparsa del senso comune nel modo di pensare dei cosiddetti intellettuali, che formano le commissioni “culturali” dei comuni. Neppure la maternità e il gesto così puro e naturale dellallattamento al seno si salva dalla pressione lgbtq a cui siamo sottoposti, a volte senza neppure rendercene conto. 2 osservazione, invece, è positiva e apre alla speranza: “c’è in giro ancora del buon senso, che potrebbe diventare senso comunese opportunamente coltivato. Se ne è accorto persino il sindaco Sala, che ha chiesto il riesame della decisione. Partiamo da lì per rifare un mondo migliore. E di questo senso comune non ancora scomparso è frutto l’intervento di Vittorio Feltri su Il Giornale  (“Che male fa una madre che allatta, 8.4.24) Il direttore rispondendo ad un lettore, valuta il gruppo di sedicenti e pseudo esperti d’arte, come ad un club di censori, “una sorta di polizia morale chiamata a compiere valutazioni prettamente etiche sulla base della loro ideologia. Pertanto, secondo Feltri, se la statua non rappresenterebbe, valori condivisibili da tutti i cittadini. Questo significa che può essere esposto solo quello che è condiviso da tutti? “Una maniera strana questa qui di concepire la democrazia. Ma, soprattutto, chi stabilisce che la maternità non sia un valore sentito da tutti i milanesi, i quali del resto sono tutti nati dal ventre materno, non dagli alieni né sono stati raccolti da sotto un cavolo o consegnati dalla cicogna?

Anche Feltri vede in questa faccenda, la mania del politicamente corretto che minaccia e cerca di intaccare e sovvertire i nostri valori, “diffondendo il convincimento che essi siano insultanti, quindi sbagliati, ossia da censurare e rinnegare o almeno da nascondere. Eppure si tratta di valori universali, che appartengono all’umanità, come appunto quello della maternità, il quale non è affatto legato ad un fattore culturale o ideologico né tantomeno sessuale. Insomma,– insiste Feltri – lo ribadisco, mi risulta che ciascuno di noi sia nato da una donna, che ciascuno di noi sia germogliato all’interno di un grembo femminile, che ciascuno di noi abbia avuto una madre che lo ha generato e partorito. Chi può dunque dirsi insolentito o ferito o denigrato o urtato alla vista di una statua che ritrae questa tipologia di legame primordiale, ossia quello tra madre e figlio?. Intanto agli smemorati ricorda che il simbolo di Roma è la lupa che allatta Romolo e Remo, cosa che non ha mai leso o indignato nessuno.

Feltri prima di concludere ricorda che la stessa commissione che ha bocciato quest’opera ha approvato altre opere di dubbio gusto, se non addirittura mostruose, come quella che deturpa attualmente la facciata della stazione centrale. Insomma, la statua della mamma con il neonato è offensiva, mentre determinate brutture conferiscono prestigio alla metropoli.

Autore

Nato a RODI MILICI (ME) nel 1955 è stato insegnante di Scuola Primaria nel messinese jonico e nell’hinterland Milanese. Militante di Alleanza Cattolica da lungo tempo. Appassionato cultore di storia, studioso e ricercatore possiede una biblioteca di 2100 volumi.Fin da giovane è stato protagonista animatore e redattore del periodico IL CAMPANILE, della Parrocchia "S. Bartolomeo" di Rodì negli anni 1972-74. Collabora con diversi giornali online, tra questi Il Corriere del Sud, Imgpress.it, Ilsudonline.it, Culturelite.it, Destra.it, Il Cattolico.it, Corrierejonico.it, Civico20news.it. Inoltre collabora con Sugarcoedizioni e EdizioniCantagalli per lo studio e le recensioni di libri. Da 1991 al 2000 ha collaborato con Raj Stereo Sound di S. Alessio (ME) conducendo e animando trasmissioni quotidiane socio-culturali e politiche, ha curato rassegne stampa cartacee collaborando con l'associazione "Tradizione Ambiente e Turismo" Da qualche anno cura un blog personale online di studio e di ricerca
Editoriale

Nel suo monologo sulla ricorrenza del 25 Aprile, ormai virale grazie all’involontaria complicità di zelanti caporali che ne hanno censurato la lettura su RaiTre, riferendosi al delitto Matteotti e alle stragi naziste compiute in Italia sul finire della guerra Antonio Scurati scrive parole tanto ardite sotto il profilo storiografico quanto azzardate sotto quello politico. Eccole: «Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del 24, primavera del 44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia (Meloni & co., ndr)?». Un paio di minuti (tanto durava il monologo) sono bastati per ridurre a mera delinquenza politica un ventennio di storia, rispetto alla quale persino il qualunquistico e tutto sommato descrittivo «Mussolini ha fatto anche cose buone» assurge a irripetibile bestemmia.

Tutto lascia pensare che Scurati sarà stato molto orgoglioso di vergare quelle parole. Al punto che manco si è accorto che stavano per portarlo fuori strada trasformando l’invettiva contro Giorgia Meloni, il suo partito e il suo governo nel più implacabile atto d’accusa contro un’intera classe dirigente che al fascismo aveva entusiasticamente aderito o verso il quale era stata comunque connivente. Non parliamo, per dirla con Totò, dei nostalgici “pro” del dopoguerra bensì dei tanti “anti” spuntati come funghi dopo il ribaltone del Gran Consiglio sull’ordine del giorno Grandi. Probabilmente Churchill esagerava nel censire 90 milioni di italiani, suddivisi in 45 milioni di fascisti pre-25 luglio e 45 milioni post, ma, di certo, con i nomi dei voltagabbana si potrebbero innalzare interi obelischi e forse non basterebbero piazze ad ospitarli. E qui casca l’asino: perché se il fascismo fu, come sostiene Scurati, «lungo tutta la sua esistenza storica (…)» solo«un irredimibile fenomeno di sistematica violenza omicida e stragista» che ne facciamo di Aldo Moro, Amintore Fanfani, Pietro Ingrao, Davide Lajolo, Ruggero Zangrandi, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Alberto Beneduce e tanti altri che a Mussolini inneggiarono o che con lui collaborarono attivamente nell’azione di governo? E in quale pantheon sistemiamo i nomi di Palmiro Togliatti, Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio e degli altri dirigenti stalinisti che nel 1936 lanciarono l’appello agli operai italiani, salutati addirittura come «fratelli in camicia nera», rassicurandoli sul fatto che «noi comunisti facciamo nostro il programma Fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori»?

Certo, qualcuno obietterà che molti di quei nomi appartengono a uomini allora molto giovani. Ma giovani erano anche Giancarlo Pajetta, Sandro Pertini, Giovanni Amendola, eppure non mancarono di schierarsi contro il regime. Sarebbe bello ricevere in merito una risposta che chiarisca la partecipazione di così promettenti giovani o di intelletti tanto ingegnosi alla vita e all’attività di un regime esclusivamente criminale e criminogeno. Ma non arriverà. Anche perché Scurati non è uno storico bensì – apprendiamo da Wikipedia – un docente di scrittura creativa. E si vede, aggiungiamo noi. A nessuno studioso del passato degno di tale titolo, infatti, sarebbe mai venuto in mente di liquidare un’intera fase storica con una prosa tanto approssimativa quanto superficiale e così grezzamente propagandistica. Propaganda per se stesso, intendiamo, arte in cui Scurati mostra di avere davvero pochi rivali. Non è l’unico, ovviamente. Rientra infatti a buon diritto in quella eletta schiera di giornalisti, divulgatori, opinionisti che con il fascismo ed il suo fondatore intrattengono un rapporto di mera convenienza. Antifascisti numismatici, verrebbe da definirli, immaginandone la legittima passione per le monete – quelle in corso legale beninteso – e per le medaglie, metaforiche s’intende, ma comunque belle da ostentare in tv e sempre utili a raggranellare recensioni compiacenti, partecipazione a premi letterari e citazioni a gogò sui giornali che contano. Insomma, sparlare del Duce è soprattutto un buon affare e perciò guai a chi vorrebbe calare il Demonio dagli altari in nome della pacificazione nazionale e del disarmo degli spiriti. Insomma, è il contesto che spiega il testo (del monologo).

E allora si capisce bene che per Scurati e compagni la censura di un caporale di giornata è vera manna dal cielo poiché consente loro di sistemare il loro trito conformismo nel seducente astuccio del maudit, dell’irregolare, del perseguitato contro cui s’avventa il potere per tappargli la bocca. Un critico del pensiero dominante come Alain Finkielkraut ha così tratteggiato questi aspiranti martiri: «Occupano tutti i posti: quello, vantaggioso, del Maestro, e quello, prestigioso, del Maledetto. Vivono come una sfida eroica allordine delle cose la loro adesione piena di sollecitudine alla norma del giorno. Il dogma sono loro; la bestemmia pure. E per darsi arie da emarginati insultano urlando i loro avversari. In breve, coniugano senza vergogna leuforia del potere con lebbrezza della sovversione». Che cos’altro aggiungere se non che anche il popolo li ha sgamati? Proprio così: non li segue, se ne infischia dei loro sermoni, dei loro allarmi, delle loro petizioni, dei loro appelli e dei loro monologhi perché hanno capito che sotto il titolo… niente. Non c’è studio, non c’è metodo, non c’è preparazione. Abbondano, invece, faziosità, approssimazione, giudizi sommari e volontà di banalizzare, nel migliore dei casi, di demonizzare e criminalizzare, nel peggiore. Non stupisce che il loro debordare nel dibattito pubblico coincida con la scomparsa degli intellettuali davvero scomodi come lo furono un Pasolini o uno Sciascia, e infatti oggi dobbiamo accontentarci degli Scurati, appunto, dei Raimo e dei Montanari. Ma coincide anche con il diradarsi degli storici veri, quelli, cioè, che non emettono sentenze in linea con la tendenza ideologica del momento ma ricostruiscono gli eventi sulla base di testimonianze e documenti. Oggi che le prime vanno estinguendosi per cause naturali, restano i secondi. Anche per questo non si capisce sulla base di quale elemento, traccia o indizio il solito Scurati, sempre nel suo monologo, abbia imputato alla Meloni e al suo partito la volontà di riscrivere la vicenda del Ventennio fascista. Nulla, in realtà, sembra confermare questo suo atroce sospetto. In compenso, sembra che sia proprio lui ad essere tentato dal sostituire alla storia i suoi romanzi con vista sul premio Strega. Se è così, si accomodi pure: di cantaballe dal cuore a sinistra e dal portafoglio a destra è piena l’Italia. E male che vada, potrà sempre confidare in un caporale di giornata e nella sua provvidenziale censura.

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).