• 21 Novembre 2024
Cultura

Cercare di raccontare come è stata fatta l’Italia da parte del Risorgimento (La Rivoluzione Italiana) significa toccare un tasto delicato e sfiorare una questione potenzialmente divisiva, soprattutto a ‘Destra’”, lo scrivono Invernizzi e Sanguinetti nel recente libro, Conservatori”. Tuttavia l’unità è stata fatta attraverso una guerra di conquista di uno Stato, il Regno Sabaudo e Piemontese a danno di altri Stati contigui e pacifici, come il Regno delle due Sicilie. Di fronte a questa realtà storica, non possono non sorgere diverse e gravi perplessità, non soltanto per la modalità. La conquista da noi ha avuto caratteristiche diverse rispetto ad altri Paesi, qui c’è stata una vera e propria incorporazione d’imperio nel regno sabaudo degli Stati sconfitti, esiliandone le dinastie e cancellandone le classi dirigenti civili e militari, alcune di alta qualità […]. In pratica si è creato uno Stato monarchico-parlamentare,totalmente accentrato e burocratizzato, elitario e classista, il cui territorio era controllato capillarmente dalle forze militari e poliziesche”. Inoltre l’unità non è stato solo un fenomeno politico-militare, bensì anche l’occasione di una vasto disegno di decostruzione e rimodellamento dell’ethos italiano”. Sostanzialmente il cambiamento di regime è stata un’operazione di pulizia culturale”, che ha attaccato alla radice le tradizioni degl’italiani, per distaccarli il più possibile dal loro pervicace cattolicesimo ‘vissuto’ e dalla fervente devozione alla Chiesa”. Di quest’ultimo  aspetto me ne occupo qualche altra volta qui cercherò di raccontare la conquista del Sud manu militare attraverso due libri che sono passati veramente alla storia, il primo è l’inossidabile Conquista del Sud”, di Carlo Alianello, romanziere, autore di testi teatrali e storico di alto pregio, cattolico tradizionalista. E l’altro volume è Storia del brigantaggio dopo l’unità”, di Franco Molfese, edizioni Feltrinelli. Molfese non è uno storico reazionario. Appartiene ad una cultura certamente di sinistra, almeno quando ha scritto questo testo, infatti nell’edizione che ho letto (del 1974) trapela una certa impostazione classista e marxisteggiante del fenomeno. Parto dal testo di Alianello, De “La conquista del Sud”, ho letto la 1 edizione pubblicata da Rusconi nel 1972, tra l’altro è uno dei miei primi libri letti non scolastici. Infine ho letto la riedizione riveduta dalla casa editrice  Il Cerchio, nel 2010.

Alianello è stato uno dei primi a narrare la vera storia del nostro Risorgimento, che per il Sud ha significato, una vera e propria conquista militare, peggiorando le condizioni sociali ed economiche e compromettendo fortemente ogni possibile suo sviluppo. Per decenni questa storia è rimasta semiclandestina perché poco rispettosa delle patrie memorie. Soltanto negli anni 90, è iniziata una vera e propria revisione storica ad opera di alcuni studiosi e storici nati negli ambienti tradizionalisti.  

Gli studi di Alianello assumono grande significato perché lui nonostante quello che scrive non è un nostalgico del legittimismo borbonico, al contrario dei militanti scrittori marxisti, liberali, azionisti a lui contemporanei, che spesso piegavano la verità alle superiori esigenze del Progresso, del Popolo, dellIdea.  

Il testo di Alianello non segue una cronologia degli avvenimenti. In ogni capitolo fornisce precise e lunghe citazioni, memorie di chi ha vissuto quegli anni, dando spazio non solo ai filo borbonici, ma anche a chi stava dall’altra parte. Inizia il suo studio raccontando come è nata la leggenda nera sul Regno delle Due Sicilie. I protagonisti furono due  eminenti e illustri politici inglesi, Gladstone e Palmerston che senza aver visitato le galere napoletane, scrivevano che il Regno borbonico, rappresenta lincessante, deliberata violazione di ogni diritto(…)la negazione di Dio; la sovversione dogni idea morale e sociale eretta a sistema di governo”. Dichiarazioni successivamente smentite dagli stessi interessati. Iniziava così quell’opera, non tanto sotterranea, di congiura da parte dell’Inghilterra contro il Regno di Napoli e Ferdinando II, rappresentato come un orco. A questo proposito scrive il Petruccelli della Gattina, patriota, cospiratore ed esule: Quando noi agitavamo lEuropa e la incitavamo contro i Borboni di Napoli, avevamo bisogno di personificare la negazione di questa orrida dinastia, avevamo bisogno di presentare ogni mattina ai credenti leggitori duna Europa libera una vittima vivente, palpitante, visibile, che quellorco di Ferdinando divorava a ogni pasto”.

Alianello racconta dei furbi e dei traditori del Regno, come il generale Lanza, Marra, che non si seppero neppure vendersi a giusto prezzo”, ma anche di quei valorosi soldati rimasti fedeli al Re di Napoli e che difesero l’onore a Gaeta. Alianello, è tra i pochi, forse a descrivere la causa principale di questo tradimento in massa, di generali, alti ufficiali, ministri, direttori, preti e vescovi. Fu una causa culturale, o meglio una cultura degradata e mal digerita posta al servizio dei propri comodi e delle proprie squallide furberie”. Una causa, infarinata superficialmente di illuminismo, giansenismo, giurisdizionalismo(…)Non mancava una buona vena di anticlericalismo, presente perfino in certi preti(…)Questi soggetti  erano ansiosi di essere moderni, simili agli inglesi e ai francesi, ansiosi di fare entrare in Napoli, la Cina dEuropa’”.  

Tra gli studi citati da Alianello c’è quello del cappellano Giuseppe Buttà, Da Boccadifalco a Gaeta”, così scrive dei “vinti” borbonici: Affamati, laceri, mietuti ogni giorno dal tifo petecchiale che falciava inesorabile i migliori, penetrando persino nellantro della casamatta dove si erano ridotti a vivere i sovrani, ammucchiati in ospedali traboccanti di feriti e di agonizzanti, puntualmente bombardati ogni giorno (nonostante le ipocrite offerte del Cialdini)…”. Questi erano i soldati di Franceschiello, come poi li chiamò la stampa liberale, quei cafoncelli che non conoscevano che cosa fossero sinistra e destra, quelli che marciavano al passo: colu pilo e senza lu pilo…”. I soldati del Re di Napoli, scherniti dai piemontesi, nonostante i tradimenti degli ufficiali, combatterono bene l’ultima battaglia, almeno dal Volturno in poi, con coraggio, con frenesia, la stessa cosa non si può dire dell’esercito avversario, cioè dei piemontesi. Infatti il generale Cialdini che sedeva comodo al sicuro prese la piazza di Gaeta per fame e non si sognò mai di tentare un assalto, una scalata, un attacco di forza contro gli assediati borbonici. Il Cialdini, piuttosto, si distinse più avanti nelle sue eroiche imprese” contro innocenti e disarmati, i cosiddetti briganti. Il libro cerca di fare chiarezza senza voler apparire per forza nostalgico o legittimista, al giorno doggi sarebbe perlomeno ridicolo: i Borboni, come i Savoia, non ci interessano; al massimo ci piacerà talvolta confrontare la fine degli uni e degli altri alla luce della nobiltà degli atti di valore”.

Scomparso il Regno di Napoli arriva la liberazione dei vincitori, che si traduce in LItalia combatte lItalia”, LItalia subissa lItalia”, così, dopo tanti sterminati vanti del nostro primato civile, ora diamo spettacolo davidità da pirati, di barbarie esecrande, di cinismo e dateismo vestiti di stucchevoli ipocrisie”. 

Siamo giunti ai dieci anni (1860-1870) del cosiddetto Brigantaggio, definito da alcuni, una guerra contro il popolo meridionale. Un testo che veramente racconta con ampia documentazione la storia della conquista militare del nostro Sud è il libro di Franco Molfese, «Storia del brigantaggio dopo l’unità», edizioni Feltrinelli. .

L’interpretazione classista di Molfese è stata successivamente mitigata, secondo lo storico Francesco Pappalardo, si è distaccato «da quelle […] correnti politiche e ideologiche piuttosto confuse di estrema sinistra giovanile che attribuiscono al brigantaggio un contenuto anticapitalistico o, comunque, antiborghese maggiore di quanto ebbe realmente». Anche se ancora oggi per Pappalardo, l’opinione diffusa presso il grande pubblico è che «alla base della rivolta dei contadini è un movente economico-sociale che non è certamente compreso da chi vuole servirsi per fini politici di povera gente vilipesa e oppressa».

Il testo di Molfese si divide in due parti. La 1a (Il grande brigantaggio); la 2a (Attacco e liquidazione del brigantaggio). Già nella premessa, Molfese è convinto che il brigantaggio costituisce una delle pagine più fosche e meno note della storia dell’Italia moderna. Probabilmente la storiografia liberale per non macchiare il mito dell’unanimità dei plebisciti d’annessione ha oscurato del tutto questa pagina di Storia, come del resto ha fatto con quella delle Insorgenze popolari contro gli eserciti napoleonici. Tuttavia Molfese per affrontare questo straordinario lavoro ha manifestato una vera e propria pazienza d’indagine, in un vastissimo materiale mai esplorato fino ad oggi. Del resto Molfese ha potuto attingere a questo materiale essendo vice direttore della biblioteca della Camera dei deputati.

Il libro è corredato di ben 60 pagine di note, in più 22 pagine di bibliografia. Inoltre sono presenti tre appendici, tra queste, l’archivio della commissione d’inchiesta sul brigantaggio nelle provincie meridionali del 1863.

Lo storico romano raccoglie un gran numero di notizie, di documenti, di nomi tra briganti e ufficiali dell’esercito sardo, di località più o meno importanti e soprattutto di scontri armati in tutti i territori del meridione continentale. Certamente chi intende studiare il fenomeno del brigantaggio non può fare a meno di quest’opera anche se scritta molti anni fa. Infatti la prima edizione è del 1964. Tra l’altro nei vari libri che ho letto sul Risorgimento, sono costanti le citazioni di Franco Molfese.

Per Molfese è importante valutare quale influenza abbia avuto nella crisi generale dell’Italia meridionale, lo scioglimento dell’esercito garibaldino, e soprattutto capire il tema del contrasto che divideva i moderati e i democratici sul tema dell’unificazione del Mezzogiorno e quindi «le gravi conseguenze politiche e militari connesse con la liquidazione di quella ragguardevole forza armata, compiuta proprio mentre si produceva il ritorno armato della reazione borbonica».

Intanto dopo il primo sbandamento le forze borboniche riescono a riorganizzarsi, arrivando a produrre una considerevole forza armata. I borbonici allestirono in breve tempo tre divisioni di fanteria e una di cavalleria, complessivamente circa 50.000.

I “galantuomini” liberali che all’inizio avevano appoggiato lo sbarco e l’avanzata garibaldina, occupando i territori, togliendo il potere ai borbonici, in nome di Vittorio Emanuele. Ora, in tanti, cercano di opporsi al nuovo potere. Al comando del colonnello Teodoro Klitsche de Lagrange, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre 1860, si cerca di ripristinare ovunque l’autorità borbonica, abbattendo i governi rivoluzionari.

In poche settimane si assiste a passaggi di potere e a scontri sanguinosi, furono rialzati gli stemmi borbonici, abbattuti dai rivoluzionari.

Tuttavia scrive Molfese. «la vittoriosa resistenza opposta dall’esercito garibaldino nella battaglia del Volturno, e l’intervento nel Mezzogiorno dell’esercito piemontese, resero effimeri sul terreno strategico questi successi borbonici […]». Poi l’esercito borbonico con Francesco II si ritirano nella fortezza di Gaeta, per fare l’ultima resistenza.

La rivolta contadina contro i possidenti liberali e rivoluzionari viene legittimata dalla monarchia borbonica e così si diffonde la convinzione della giustezza e della “legalità” dell’opposizione alla rivoluzione unitaria. Pertanto «si consolida in tal modo tra le masse, quel diffuso stato d’animo di resistenza e di avversione al nuovo regime unitario, che costituirà il fondamento psicologico di massa della combattività e della violenza delle successive ‘reazioni’, del conseguente sviluppo della protesta armata e del brigantaggio».

Molfese analizza la questione contadina del Mezzogiorno, facendo leva sulle sue teorie classiste. Infatti i contadini siciliani in uno primo tempo appoggiano Garibaldi, «ma quando i loro obiettivi di classe li avevano spinti ad attaccare la borghesia agraria nei suoi organismi di potere locali, le municipalità, la repressione garibaldina si era riversata su loro». La mancanza di un “partito” borbonico in Sicilia, non ha permesso di sfruttare questa delusione dei contadini ed organizzare la loro reazione.

Tuttavia la reazione dei contadini alla dittatura garibaldina cresce nel continente, si organizzano bande di combattenti del brigantaggio soprattutto per opera dei pontifici. I garibaldini non solo dovettero affrontare la minaccia militare borbonica in Terra di Lavoro e la guerra sociale in Abruzzo e nel Sannio, ma anche un’ondata di sommosse sanguinose che scoppiò un po’ dappertutto nelle altre regioni.

Ormai per la borghesia liberale l’unica salvezza per domare la rivolta contadina e battere l’esercito borbonico, veniva dall’invocare «l’annessione incondizionata e l’arrivo dell’esercito piemontese”, abbandonando la dittatura garibaldina che disturbava con talune misure di carattere democratico gli interessi costituiti, senza peraltro garantire la proprietà terriera dagli attacchi dei ‘cafoni’».

In sostanza al Sud la monarchia sabauda e il governo cavouriano, che non avevano una conoscenza della vera realtà nel Mezzogiorno, affrontavano due avversari: da un lato la dittatura garibaldina, ancora controllata dai democratici e poi la monarchia e l’esercito borbonico.

I moderati erano convinti che occorreva prima ristabilire l’ordine a Napoli e liquidare la “rivoluzione” garibaldina, poi fare i conti con i borboni. A Torino i vertici militari si trovarono a risolvere la questione del reclutamento dei componenti dell’esercito garibaldino. C’erano i soccorritori dell’ultima ora, gli arrivisti” e gli «opportunisti che poco avevano osato ma molto pretendevano raccogliere». Probabilmente a Torino hanno fatto qualche errore, per esempio licenziando molti “volontari” garibaldini meridionali, che poi diventarono futuri briganti e quindi protagonisti dell’insurrezione contro il nuovo Stato unitario. Altro errore secondo Molfese è stato quello di rifiutare la collaborazione politica e militare dei democratici, restarono quasi isolati politicamente e «soltanto grazie allo stato di assedio potranno sostenere la lotta contro le due crescenti opposizioni, quella democratica e quella contadina».

Altra questione per il governo di Torino fu quella dell’esercito borbonico: che cosa fare dei prigionieri “napoletani”, arruolarli nell’esercito regio oppure mandarli in prigione nel Borneo, a Macao o in qualche isola sperduta? Molfese ignora o non vuole dare conto del tragico esodo, la deportazione dei poveri napoletani nei lager dei Savoia, così ben descritta da Fulvio Izzo.

C’è stata una certa sottovalutazione dei vari dirigenti del governo a Torino, a partire da Farini, Fanti, Della Rocca e lo stesso Cavour, della sollevazione contadina a direzione reazionaria. Intanto in tutto il Meridione dappertutto si registrano manifestazioni, proteste, scioperi e malcontento. “Le popolazioni delle Due Sicilie devono veramente rallegrarsi del nuovo regime al quale vogliono sottometterle contro le loro tradizioni ed i loro interessi? Non è stato occupato militarmente tutto il regno? Non si fucilano sommariamente numerosi sudditi fedeli al loro re col pretesto che sono dei briganti? Non ci si affanna ad imprigionare a centinaia gli individui che si pronunziano in una maniera qualsiasi contro l’annessione o in favore del loro sovrano legittimo?». Con queste parole nel febbraio del 1861 l’ambasciatore borbonico a Londra denunziava al governo inglese la precarietà della situazione nel Mezzogiorno.

Nell’inverno 1860-61 inizia il grande brigantaggio; bande armate si andavano costituendo un po’ dappertutto, vi accorrevano ex soldati borbonici già congedati o “sbandati”, renitenti ai richiami, disertori, evasi dalle carceri, contadini e montanari ansiosi di libertà, di bottino e di vendetta. Qui inizia il racconto dettagliato di Franco Molfese, che ha potuto consultare archivi di Stato, biblioteche. E’ un susseguirsi di nomi di comandanti briganti e di località, di continui scontri con gli eserciti regolari provenienti dal Nord e con la Guardia nazionale. L’epicentro degli scontri è stata la Basilicata nei boschi del Volture e di Lagopesole, di Rionero, dove primeggiava Carmine Crocco con la sua nutrita banda ed il suo luogotenente Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco-Nanco.

Il Molfese, nell’appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400. Molti sono nomi noti altri meno. Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Luigi Alonzi (Chiavone),  Tristany nella Terra di Lavoro, e Stato Pontificio; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell’Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giuseppe Caruso in Basilicata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d’Otranto.

Scrive Molfese: «Le forze dell’esercito e le guardie nazionali sostennero il peso della lotta con non poca difficoltà. Il nemico agiva di sorpresa, mobilissimo, si ritirava fulmineamente dopo aver colpito, tendeva agguati continui, si batteva soltanto in condizioni favorevoli di tempo, di luogo e di forze. Le continue perlustrazioni non davano risultati apprezzabili; le piccole bande sfuggivano ad ogni rete: le bande più grosse, non appena strette davvicino, si frazionavano e si disperdevano. Gli scontri […] si riducevano in genere ad uno stillicidio di scaramucce con perdite esigue da ambedue le parti, ma che comportavano un grande logorio di forze fisiche […]».

L’esercito piemontese viene guidato dal generale Cialdini, elevato a luogotenente. Nella repressione della reazione borbonica-clericale questa volta si avvalse dei democratici e degli ex garibaldini. Oltre ai briganti, bisognava colpire «a fondo la reazione clericale-borbonica mediante misure poliziesche, quali l’arresto e l’espulsione dal regno di personalità del clero, della nobiltà legittimista e dell’esercito borbonico, tra le quali l’arcivescovo di Napoli Riario Sforza, l’arcivescovo di Salerno e il vescovo di Teramo[…]». In questo periodo ben 71 sedi vescovili risultano vacanti.

«Cialdini impresse alla repressione un carattere spietato – scrive Molfese – la lotta non conobbe più quartiere e particolarmente efferate furono le rappresaglie indiscriminate sulle popolazioni insorte». Naturalmente lo scrittore cita i luoghi dove si svolse la repressione a cominciare da Pontelandolfo, dove è stata commessa una strage della popolazione ad opera dei bersaglieri. Il governo Ricasoli continua a nascondere o perlomeno di minimizzare i fatti del brigantaggio non solo nel Paese ma anche all’estero. Si pensi che il rapporto Massari, ma anche quello di La Marmora sono stati segretati, almeno il popolo non ne era a conoscenza. Il dibattito diventa acceso su cosa fare con il Mezzogiorno, viene redatto un documento, una ‘circolare’ dal capo del governo, Massimo D’Azeglio risponde che se i “napoletani” sono contrari all’unità, «non credo che noi abbiamo il diritto di prenderli a fucilate».  Intanto si nega qualsiasi carattere politico all’azione del brigantaggio, in quanto svolto da volgari assassini”, che agiscono di propria iniziativa, senza guide legittimiste o di ufficiali borbonici.

Nell’estate del 1861 il governo borbonico in esilio, decise di dare una direzione militare e un forte indirizzo legittimista alla spontanea rivolta contadina. Viene incaricato il generale spagnolo Josè Borjes, di coordinare le varie bande per cercare di farle diventare un esercito. C’era quasi riuscito ad imporre le sue idee ai capibande, a Crocco. Con Borjes al comando i briganti avevano ottenuto delle significative vittorie. Borjes non raggiunge il suo scopo: far valere la sua strategia militare a Crocco e compagni, ben presto ha dovuto ritirarsi e ritornare a Roma. Sul confine con il territorio pontificio fu catturato l’8 dicembre 1861 e fucilato a Tagliacozzo.

Il terzo capitolo Molfese analizza la questione sociale del Mezzogiorno partendo dalle caratteristiche dei contadini, dei briganti e dei “galantuomini”, dei proprietari terrieri. Rinnovando le sue tesi classiste che hanno fatto esplodere il brigantaggio, riportando il parere dei vari Massari, Saffi, Fortunato. Tesi che convincono Molfese a scrivere che la guerra popolare” sbandierata dalla propaganda legittimista e clericale, tuttalpiù poggiava su basi superstiziose, mai su quelle religiose. Certamente per Molfese non si trattava di una guerra simile «alla Vandea controrivoluzionaria o alle guerre antinapoleoniche del popolo spagnolo». Del resto erano evidenti le resistenze dei capibande a militarizzare i propri uomini. Anche se per la verità i briganti avevano bisogno sempre di una certa parvenza di prospettiva della restaurazione borbonica, i briganti guardavano con attenzione ai proclami del re Francesco II.

Nella seconda parte Molfese descrive la repressione dell’esercito sardo-piemontese che si avvale della Legge Pica. L’esercito è il protagonista assoluto, il libro descrive il carattere e l’arbitrarietà della repressione dello stato d’assedio dei vari generali nei confronti dei “cafoni” meridionali. E poi naturalmente le lunghe lotte in Parlamento a Torino, le inchieste, contro il silenzio sulla repressione dei territori meridionali. Intanto cambiano i governi, ma la linea è sempre la stessa, Destra e Sinistra, tutti d’accordo nel distruggere radicalmente il brigantaggio e mettere a ferro e fuoco il Sud. Appare impressionante il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dal governo liberale sardo- piemontese nell’opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là dei briganti alla macchia.

Molfese pubblica delle tabelle sui denunciati, sui condannati, sui deceduti in carcere, sugli assolti. Riguardanti il periodo 1863-1865. Un quadro impressionante dove si rileva che i colpiti sono soprattutto i contadini ma anche tutte le altre classi sociali. Si intendeva spargere un “salutare terrore” tra i briganti ed i loro sostenitori.

Il numero preciso degli arrestati e dei fucilati non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L’olocausto del Sud. Nelle conclusioni lo storico romano si chiede se tutto questo massacro si poteva evitare, questa vera e propria guerra civile.

Un articolata risposta possiamo trovarla in Francesco Pappalardo, storico cattolico conservatore, nonché studioso del brigantaggio. «Permane tra gli storici un filone «unitario» che considera ancora i briganti alla stregua di delinquenti. E un filone marxista duro a morire che ripresenta il brigante come il cafone che prende le armi perché oppresso socialmente. Eppure anche uno storico come Giuseppe Galasso, che non è certamente filo-borbonico, insiste molto sulla componente dinastica: se nel 1799 ci fu una controrivoluzione per difendere la religione, dal 1860 ce ne fu una per difendere il regno. Certo libri come Terroni di Pino Aprile non aiutano svolgere a un ragionamento articolato: si semplifica e si banalizza troppo etichettando il Nord come predone del Sud. Non è che i piemontesi fossero cattivi. C’è stato un ceto dirigente che ha imposto uno Stato unitario anti-cattolico, non rispettoso delle altre entità statali della penisola, diverse per storia, costumi e cultura. La questione meridionale nacque allora, così pure quella cattolica e quella federale. È un processo storico che merita di essere riconsiderato. Ci sono anche lodevoli iniziative culturali, per esempio a Gaeta e in Basilicata. Ma attenzione a fare del folklore».

Autore

Nato a RODI MILICI (ME) nel 1955 è stato insegnante di Scuola Primaria nel messinese jonico e nell’hinterland Milanese. Militante di Alleanza Cattolica da lungo tempo. Appassionato cultore di storia, studioso e ricercatore possiede una biblioteca di 2100 volumi.Fin da giovane è stato protagonista animatore e redattore del periodico IL CAMPANILE, della Parrocchia "S. Bartolomeo" di Rodì negli anni 1972-74. Collabora con diversi giornali online, tra questi Il Corriere del Sud, Imgpress.it, Ilsudonline.it, Culturelite.it, Destra.it, Il Cattolico.it, Corrierejonico.it, Civico20news.it. Inoltre collabora con Sugarcoedizioni e EdizioniCantagalli per lo studio e le recensioni di libri. Da 1991 al 2000 ha collaborato con Raj Stereo Sound di S. Alessio (ME) conducendo e animando trasmissioni quotidiane socio-culturali e politiche, ha curato rassegne stampa cartacee collaborando con l'associazione "Tradizione Ambiente e Turismo" Da qualche anno cura un blog personale online di studio e di ricerca