• 21 Novembre 2024

È la sera della “prima”. Il giovane autore di “Le Villi”, l’opera lirica del debutto, attende dietro al palcoscenico. Indossa il suo unico vestito buono, di color marrone e non nero come l’occasione avrebbe richiesto. In tasca, appena 40 centesimi. Quando, al termine della rappresentazione, sale alle luci della ribalta per raccogliere gli interminabili applausi che riempirono il Teatro dal Verme di Milano, nessuno tuttavia fa caso al suo abbigliamento inadatto. Era il 31 maggio del 1884 e con la sua prima opera, il venticinquenne Giacomo Puccini aveva conquistato il pubblico forse più competente al mondo in fatto di lirica. Il giorno successivo la madre del compositore, che era malata e troppo povera per potersi permettere di assistere al debutto del figlio, ricevette il seguente telegramma:

Successo trionfale. Diciotto chiamate alla ribalta. Primo finale ripetuto tre volte. Sono felice. Giacomo“.

Tre giorni più tardi Giulio Ricordi, direttore della maggiore casa editrice musicale italiana, consegnò a Giacomo Puccini una banconota da mille lire, la prima che il compositore avesse mai posseduto.

Ma è il caso di fare qualche passo indietro.

Casa Puccini – Lucca

In questa casa nasce, alle ore 2 del 22 dicembre 1858, Giacomo Puccini. La dimora è un pregevole fabbricato in mattoncino; sulla facciata, lungo via Di Poggio, è esposta una lapide celebrativa, che reca questa iscrizione:

Da una lunga progenie di musici

Degni della viva tradizione patria

Qui nacque il 22 Dicembre 1858

GIACOMO PUCCINI

Che alle nuove voci di vita

Accordò note argute di verità e leggiadria

Riaffermando con le schiette agili forme

La nazionalità dell’arte

Nel suo primato di gloria nel mondo

La città orgogliosa di lui

Nel trigesimo della morte

29 Dicembre 1924.

I Puccini, da 4 generazioni, erano Maestri di Cappella al duomo di Lucca. Il padre Michele insegnava presso la scuola musicale Pacini. La sua morte, avvenuta quando Puccini aveva appena 5 anni, pose la famiglia in condizioni di ristrettezza. Da adulto Giacomo serbava ancora un ricordo assai vivo di quando il padre lo portava con sè alla cattedrale, gli faceva ascoltare l’organo e lo faceva sedere davanti alla tastiera. “Poiché io non volevo toccare i tasti, egli ebbe l’idea di mettere delle monete di rame sulla tastiera. Io allungai subito le mani per raccoglierle e così involontariamente le mie dita toccarono i tasti. L’organo iniziò a emettere dei suoni e io, senza accorgermene, presi coraggio e cominciai a suonare”. Alla morte del padre, la carica di organista fu assegnata allo zio Fortunato Magi, incaricato anche di dare lezioni di musica al nipote nonché solito assestare un calcio negli stinchi a Giacomo se sbagliava intonazione, tanto che Puccini sviluppò un curioso riflesso condizionato: quando gli capitava di udire una stonatura, la gamba aveva uno scatto improvviso. La madre Albina, convinta della vocazione del figlio, lo affidò a un insegnante più paziente, Carlo Angeloni, con cui Giacomo sviluppò le abilità indispensabili a un futuro musicista di chiesa. A dieci anni divenne cantore e a quattordici iniziò a sostituire gli organisti in diverse chiese a Lucca e dintorni. Per arrotondare le sue scarne entrate, Giacomo inoltre suonava il pianoforte nelle osterie di Lucca e (come il giovane Brahms) non disdegnò neppure l’attività di pianista in una casa di tolleranza. Il suo gusto per l’improvvisazione lo portò anche a infilare melodie popolari e arie operistiche nei preludi e negli inni che suonava in chiesa, un vezzo che le autorità ecclesiastiche gli rimproverarono severamente. Intanto Giacomo frequenta il seminario di San Michele. Secondo i suoi maestri, “entra in classe solo per consumare i pantaloni sulla sedia, non presta la minima attenzione a nessun argomento e continua a tamburellare sul suo banco come fosse un pianoforte”. Terminati gli studi di base si iscrive all’istituto musicale in cui aveva insegnato il padre e come elaborato finale presenta un capolavoro poco conosciuto: la “Messa a 4 voci”.

Afferma il maestro Luciano Branno, docente preso il Conservatorio “Domenico Cimarosa” di Avellino e tra i massimi esperti in Italia di musica corale: “In questa messa Puccini supera i limiti di un esercizio didattico e rivela un dominio della materia che molti compositori dell‘800 alle prime armi, incluso Verdi, non possedettero certo”.

La messa, eseguita al Teatro Goldoni di Lucca nel 1880, fu un autentico successo. Ma era tempo di lasciare la provincia alla volta di Milano, grazie a una borsa di studio di 100 lire mensili concessa a Puccini dalla regina Margherita e ai prestiti di un prozio, Nicolao Cerù. Superò l’esame di ammissione in Conservatorio e iniziò a condividere la stanza con Pietro Mascagni. La vita dei due era simile a quella descritta magistralmente nella “Bohème”, il cui straordinario realismo riflette probabilmente proprio le esperienze vissute dal giovane Puccini. In una lettera alla madre circa le sue condizioni di giovane “bohemièn” a Milano, scrive:

Cara Mamma, non ho ancora saputo nulla della mia ammissione al conservatorio, ma ho moltissime speranze di essere ammesso…lesame mio fu una sciocchezza perché mi fecero accompagnare un basso scritto su una riga che è facilissimo, e poi mi fecero svolgere una melodia in Re maggiore … e basta, mi andò fin troppo bene. La sera, quando ho quattrini, vado al caffè, ma ci sono moltissime sere che non ci vado perché costa 40 centesimi. Comunque vò sempre a letto presto perché mi secco a girar su e giù per la Galleria. La sera non so dove andare, non trovo nessuno, oppure il Pietro viene tardi e non ho quasi mai voglia di aspettare e me ne vado a letto. Ho una camerina bellissima, tutta ripulita, mi ci hanno messo un bel banco di noce che è una magnificenza, insomma ci sto volontieri, beninteso, chiuso in camera perché se esco vedo delle grigne antipatiche. Sentisse che baccalà che sono qui a Milano. Si sta bene. Oggi è una giornata noiosissima. Freddo per ora nulla. Addio Mamma. Giacomo suo.”

E a Cerù: “Quassù il freddo è straordinario: mi servirebbe un po’ di fuoco. La spesa per la stufa non è grande, ma quel che dà da pensare è il carbone che costa tanto. Ho scritto di questo anche alla mamma, così vedano se mi provano a rimediare qualcosa fra tutti e due. Auguri di pasqua da Giacomo suo, che le vuol tanto bene”.

Arriva poi il 1884, l’anno del primo trionfo. Da quel momento e fino alla sua morte, Puccini regalerà alla musica eterni capolavori, grazie anche all’appoggio della casa editrice Ricordi. Puccini fu un rivoluzionario, un genio capace di creare uno stile musicale personalissimo, che non ha avuto eguali nella storia, perfettamente riconoscibile anche all’ orecchio inesperto. Seppe farsi strada in un mondo connotato al suo tempo da linguaggi artistici molteplici e mutevoli, tra l’eredità dell’opera italiana e la spinta innovatrice, l’irrequietezza artistica che dominerà le avanguardie dei primi del ‘900. Del resto, Puccini fu uomo decisamente proiettato verso la modernità: primo compositore a possedere un’automobile, il primo a guidare una motocicletta, il primo ad occuparsi di diritti d’autore. A differenza dello schivo Verdi amava farsi fotografare, circondato dall’affetto di una folla adorante e fu tra i primi a introdurre nell’ Opera quel legame inscindibile tra le esperienze di vita del compositore e le sue opere, tanto da trascorrere le giornate a setacciare libri e commedie in cerca dei suoi personaggi, partecipando alla stesura dei libretti personalmente e inserendovi tutto il suo bagaglio esistenziale. In effetti la vita stessa di Puccini fu certamente “drammatica”: a vent’anni diede scandalo fuggendo con una donna sposata, Elvira Gemignani, da cui ebbe un figlio. Nel 1908 una giovane cameriera di casa si tolse la vita poiché Elvira, folle di Gelosia, l’aveva accusata di essere incinta del marito.

Questo meccanismo per cui vita quotidiana e vicissitudini dell’autore finivano per influenzare le trame e la musica delle opere, si inscrive perfettamente nella corrente del Verismo operistico. Mascagni con la “Cavalleria Rusticana” inaugurò quella stagione, tra fine Ottocento e inizio Novecento, durante la quale alcuni compositori italiani adattarono al melodramma elementi del Verismo letterario che, da Zola a Verga, si espresse soprattutto nella scelta dei soggetti, gli umili, nella dimensione angusta di una vita difficile, protagonisti di efferati fatti di cronaca. Le situazioni proprie dell’opera verista – i delitti passionali e i suicidi – non erano diverse da quelle tipiche della grande opera che aveva dominato le scene teatrali dagli anni venti a fine ‘800 e di cui non più i dignitari, bensì gli ultimi sono ora protagonisti; i momenti tragici della trama non vengono più soltanto evocati ma rappresentati sulla scena e sottolineati da inquietanti accompagnamenti d’orchestra che ne marcano i diversi momenti come una colonna sonora. Questo nuovo ed emozionante genere di melodramma (che si riallaccia ad alcune opere di Wagner e Bizet) esercitò un’enorme attrattiva sul pubblico di fine Ottocento. Le prime opere di Puccini, venute alla luce nel periodo del melodramma verista, sono però prive del brutale realismo tipico di quel genere e restano fedeli alla vena lirica e romantica dell’opera italiana. La funzione drammatica dei personaggi è generalmente subordinata al disegno sonoro, poiché l’elemento dominante delle opere pucciniane fu sempre la bellezza della musica strumentale. Il Verismo di Puccini crea un “naturalismo musicale” che dà risalto alla realtà psicologica dei personaggi grazie ad arie cariche di sentimento e una musica d’atmosfera fortemente caratterizzata, a sottolineare, nella descrizione ambientale, i conflitti interiori dei personaggi e del compositore stesso, cui si aggiunge un uso accorto di suoni familiari, come le campane, con l’intento di rendere musica e dramma più personali, immediati ed efficaci. Certo anche Puccini ebbe i suoi detrattori. I tradizionalisti gli rimproveravano una tendenza smaccata alle melodie orecchiabili; gli avanguardisti consideravano le sue opere lontane dallo spirito del tempo, stucchevoli nel loro “sentimentalismo”. Tuttavia sarebbe scorretto il tentativo di assimilare lo stile del lucchese a quello di qualche suo predecessore o contemporaneo; Puccini infatti seppe fondere le esperienze musicali di Wagner, Debussy, Strauss e Stravinskij al bagaglio operistico italiano, sublimando 3oo anni di grande opera che con lui raggiunse forse il punto più alto possibile. Dopo Puccini pochi saranno gli autori d’opera memorabili e non solo perché ormai l’era delle grandi opere si avviava alla conclusione, ma perchè il lucchese aveva fissato uno standard che nessuno è stato più in grado di eguagliare.

Dal telegramma del 1884 al 1924, anno della morte di cui celebriamo il centenario, trascorrono 40 anni, in cui Puccini consegnerà alla storia della musica i suoi capolavori. Il tempo che passa lo ferisce, lo feriscono la scomparsa di persone care e poi la prima guerra mondiale. Il 3 marzo del ’23 scriverà: “non ho un amico, mi sento solo. Quando la morte verrà a trovarmi, sarò felice di riposare. Passa veloce la giovinezza, e l’occhio scruta l’eternità.”

Fu allora che Puccini iniziò a comporre la Turandot, il suo manifesto spirituale, la storia di una crudele principessa cinese che proponeva a ogni suo pretendente tre indovinelli, con la minaccia che se non li avesse risolti sarebbe stato decapitato. Puccini rimase affascinato dall’ambientazione esotica (come lo era stato già per la Butterfly) e si propose di dare al libretto un taglio moderno e nuovo rispetto ai canoni veristi delle sue opere precedenti. Il compositore lavorò alla Turandot per quattro anni, “lentamente ma con sicurezza”, pur sentendosi di quando in quando invadere dalla sensazione che non l’avrebbe mai terminata. Infatti si spense, a causa di un tumore, il 29 novembre 1924, all’età di quasi sessantasei anni. Alla Turandot mancavano il duetto conclusivo e il finale, in cui l’amore avrebbe trionfato sul cinismo di Turandot. Puccini tuttavia aveva lasciato una gran quantità di schizzi per le scene, completate poi dal suo allievo Franco Alfano. La prima si tenne il 25 aprile 1925 alla Scala di Milano. Sul podio, Toscanini. Quella sera la rappresentazione non terminò col finale di Alfano, bensì con la scena della morte della schiava Liù. Il direttore posò la bacchetta e spiegò al pubblico: “Giacomo Puccini interruppe qui il suo lavoro, perché la morte fu più forte dell’arte”. Proprio nella caratterizzazione del personaggio di Liù Puccini si fece drammaturgo scrivendo il testo dell’aria “Tu che di gel sei cinta”-“Liù bontà, Liù dolcezza..” ultimo suo appello all’amore, quel sentimento che per una vita aveva descritto in tutte le sue forme. La grande guerra si era conclusa da poco, lasciando un’eco profonda. Turandot divenne guerra e Liù fiamma dell’amore che risana. Nella concezione corale-sinfonica della Turandot, come a conclusione di un cerchio, si sente l’esperienza giovanile della poco nota “Messa a 4 voci” con cui tutto iniziò e il libretto di Turandot è concepito quasi come un testo liturgico, divisibile per sezioni corali e solistiche. Ecco il ponte spirituale fra il giovane Puccini e quello degli ultimi tempi, artista intriso di spiritualità profonda. Egli scrive che “tutta l’arte serve per porsi in dialogo con Dio”, in un percorso lungo una vita, che ha preparato Puccini all’eternità, e che all’ eternità ha regalato meravigliose perle.

Autore

Alessandro Ebreo è nato ad Avellino il 30 agosto del 2007. Frequenta il Liceo Classico "Rinaldo d'Aquino" di Montella e il corso di pianoforte al conservatorio "Domenico Cimarosa" di Avellino, esibendosi, in varie occasioni, in ambito accademico. Nel 2023, esordisce come cantante nell'opera lirica "Il barbiere di Siviglia" con l' Orchestra Filarmonica di Benevento. In ambito letterario, un suo componimento poetico, dal titolo "Sacrificio", è stato pubblicato, nel 2023, dalla casa editrice "Delta 3 edizioni", nella raccolta "Parole di legalità". Nel 2024, è risultato secondo classificato al "Premio Ginestra" con un elaborato sul tema della violenza di genere, dal titolo "Il posto che mi spetta".