L’acqua è sempre stato elemento di vita non solo per gli animali, ma soprattutto per gli umani, i quali hanno sempre interagito con essa, fossero grandi fiumi, piccoli torrenti, sorgive, laghi, la vita ruotava in sua relazione. Nel tempo l’intraprendenza degli umani, le capacità tecniche hanno creato, ammodernato e migliorato sistemi di approvvigionamento idrico, tali da permettergli di lasciare la vicinanza alle grandi masse di acqua e spostarsi su territori diversificati. Un esempio classico è stato l’arco appenninico del Matese, delle Mainarde, del Taburno e dell’Irpinia ove la grande ricchezza di acqua espressa in fiumi, laghi, sorgive, torrenti e fonti è giunta ad essere un elemento a cui dedicare una diversificata architettura per l’adduzione, il trasporto e la conservazione dell’acqua sia per gli usi dedicati agli umani che per animali e coltivazioni, unica nel suo genere.
Diversificate e particolari se non uniche per il territorio Sannita tali strutture erano conosciute come “ a funtana” (la fontana) “ru lontru” (il lontro) “ a pischera” (la peschiera) “ru lavaturu” (il lavatoio) e tali strutture di approvvigionamento idrico rivestivano anche una funzione sociale, poiché era durante l’abbeverata degli animali o durante la lavata dei “panni” ai lavatoi o il rifornimento dell’acqua, che gli individui si incontravano, parlavano e dove il tempo di attesa era momento di scambio di opinioni, ma anche di pettegolezzi, o di silenziosi momenti di incontro tra innamorati. Ma potevano anche essere momenti di litigio, quando alla abbeverata degli animali le acque potevano essere state sporcate dalla lavata dei “panni”, o ancora le donne si erano attardate o avevano occupato i “lontri” (di solito uno) riservati all’abbeverata. Su tutto però vigeva una regola sociale la quale nella cultura popolare era sempre rispettata, e dimostrava oltremodo l’importanza ed il rispetto che le persone nutrivano verso tale importante elemento di vita, la pulizia delle fontane. Questa era espletata periodicamente ed a turno in modo volontario, quasi sempre da coloro che portavano gli animali all’abbeverata, in altri casi da qualche anziano il quale impegnava di tanto in tanto il proprio tempo in un extra di lavoro ad uso della comunità.
Ma non mancava la partecipazione dei “cannavinari” ovvero dei proprietari o fittavoli di piccole porzioni di terreni posti a valle delle fontane, adibite ad orti ed irrigati con le acque di deflusso. Quelle delle “cannavine” (orti) era una peculiarità importante dei territori appenninici citati e non vi era fontana o sorgente che non avesse a ridosso di essa una più o meno grande “cannavina”. Questo particolare tipo di produzione ortofrutticola garantiva non solo una produzione di ortaggi ad uso delle singole famiglie, ma un surplus di prodotti che venivano venduti nei mercati settimanali dei luoghi vicini; nel qual caso del Medio Volturno a Gioia Sannitica, a Faicchio, a Cerreto, a Piedimonte di Alife, ad Alife.
Alcune famiglie più abbienti avevano poi la possibilità di costruire nei propri terreni delle vasche di riserva idrica dette “pischere” (in italiano peschiere o piscine intese come piccole vasche) alimentate o direttamente da sorgenti, o da una parte delle acque di deflusso delle fontane, e che durante i periodi estivi con la riduzione della portata delle sorgenti garantiva una riserva costante per l’irrigazione degli orti. Per quanto riguarda l’irrigazione degli orti e dei terreni ciò avveniva ovviamente con un accordo di massima e non mancavano liti su chi per primo dovesse farne uso; però tale uso comune faceva si che tutti si preoccupassero di tenere puliti gli argini dei canali, liberandoli delle erbe infestanti e dragandoli dagli accumuli fangosi. Ma le fontane non sono in queste terre una peculiarità solo degli agglomerati urbani e dei luoghi a ridosso di questi adibiti alle coltivazioni, ma sono presenti anche in quota spesso anche molto elevate. Senza voler considerare la zona montana a ridosso del monte Miletto e del lago Matese, quindi tra i 1000 ed i 1500 metri di quota (il Miletto è alto 2050 metri) la presenza di fontane sulle montagne del territorio di Gioia Sannitica, di Cusano Mutri, di Pietraroja, di Guardia Sanframondi si esplica su una diversificazione di strutture, qualcuna naturale, altre artificiali che comprendono piscine coperte e classiche fontane da abbeverata, queste ultime sicuramente più antiche rispetto alle prime, tutte strutture che servivano per abbeverare greggi, mandrie e umani. Le prime erano a tutti gli effetti cisterne di raccolta delle acque piovane, le seconde convogliavano le acque sorgive. Comunque sia, come accennato l’uso delle acque erano anche fonte di dissapori e litigi, per cui ad un certo punto fu necessaria una legislazione in materia che si esplicò per tutto il territorio Regnicolo, con una peculiarità unica non solo per l’Italia del tempo ma per buona parte d’Europa.
Nel Regno di Napoli prima e delle Due Sicilie dopo, l’uso, la gestione e la distribuzione si rifacevano ad una legislazione del 1817 ove venivano inquadrate giuridicamente le acque ed il loro uso, oltre ad una precisa distinzione tra acque private e pubbliche, ma non solo regolavano in particolare l’uso lungo i tratturi della transumanza, dove alle porte dei paesi e lungo il percorso stesso erano presenti “fonti e lontri” per l’abbeverata. Per i tratturi della transumanza poi, l’attenzione alla regolamentazione ed uso delle acque aveva origine antichissime e nell’arco dei secoli le strutture adibite furono sempre curate indipendentemente da chi governava il Regno. Ritornando alla legislazione del periodo Borbonico, questa andava a riorganizzare uso e diritti delle acque che erano state molto diverse prima dell’eversione della feudalità, e che verranno per un periodo contestate da molti nobili, i quali vedevano nella nuova legislazione che di fatto liberalizzava l’uso delle acque un abuso nei confronti delle loro proprietà, considerando le fonti in queste presenti quale proprietà privata ed esclusiva. Siccome restavano fuori dal vincolo legislativo ante 1806 tutti i corsi di piccole dimensioni sembrò potersi appellare rispetto a questo datosi che si parlava dei fiumi in una legge che recitava: “I fiumi, abolito qualunque dritto feudale, restano di proprietà pubblica, e l’uso di essi dovrà essere regolato secondo gli stabilimenti del dritto romano”. Nell’inteso il diritto romano era ben preciso e dunque prevedeva un uso pubblico dei corsi di acqua di qualsiasi natura. Nel 1809 la Gran Corte dei Conti deliberava una circolare per ovviare ad ogni dubbio giuridico in merito allo sfruttamento delle acque.
Con tale circolare si andò a chiarirne il corretto uso e consumo che sarà poi soggetto alla sorveglianza della polizia locale. Lo sfruttamento oltremodo per la parte irrigua fu assoggettata al pagamento di una concessione di uso che si basava sulla dimensione del campo, sulla tipologia di coltura, sulla distanza stessa del fondo rispetto all’alveo e quindi sui tempi stessi sia di percorrenza che di uso irriguo. Ma non solo, ciò prevedeva anche un calcolo ed una ripartizione rispetto al corso, la quale includeva le perdite per evaporazione, per distanza di percorrenza e all’assorbimento da parte del terreno da percorrere. Infine nel Settembre 1823 si chiarì definitivamente ogni aspetto e dubbio per il corretto uso e consumo secondo un regolamento che divenne legge.
Quella che appare come una legge di tutela delle acque di una epoca lontana in buona parte resterà in uso anche dopo l’Unità d’Italia, ed è ancora oggi in parte nella regolamentazione regionale della gestione di queste. Ciò ovviamente dimostra la validità di tali regolamenti, ma non solo, ancora oggi come al tempo si usa una particolare unità di misura per l’approvvigionamento definita “modulo”. Esiste una testimonianza in merito, relativo a tale unità di misura. Nello specifico è un documento relativo al Comune di Gioia Sannitica che recita: “Gennaio 1939. Si autorizza la Ditta Riccitelli Alfonso fu Pietro a deviare dal torrente Ardento nel comune di Gioia Sannitica, moduli 0,20 per uso forza motrice, per il funzionamento di un molino”. Il “modulo” ancora oggi in uso per l’uso irriguo (con la sola eccezione della trasformazione dell’unità di misura in litri) equivale alla portata di 100 litri al secondo, e nonostante oggi la gestione e la distribuzione sia competenza dei Consorzi di Bonifica, sorprende (con soddisfazione) che oltre ad essere usato il “modulo” come unità di misura è ancora contemplata la possibilità dell’uso delle acque per forza motrice, con una sorta di fitto pluriennale che parte da un minimo di 5 anni ad un massimo di 30 anni facente parte della regolamentazione del 1823. Come dire, la legislazione in materia del Regno di Napoli e delle Due Sicilie si è dimostrata così antesignana, moderna e valida da essere ancora oggi applicata dai Consorzi di Bonifica ovunque in Italia.