• 21 Novembre 2024
Cultura

Pour savoir ce quil est, il faut être lui-même.

Non esiste probabilmente un personaggio, nella storia dell’occultismo europeo del ‘700, che abbia sollevato – di là dalle sue benevole (o malevole) intenzioni e non sempre limpidissime condotte agite in patria e all’estero – maggiori e più incandescenti diatribe di Giuseppe Balsamo, alias Alessandro Conte di Cagliostro (1743-1795). Ne è prova lampante il fatto che – a distanza di oltre due secoli dall’ignobile processo-farsa che ne causò l’iniqua detenzione prima e poi la tragica fine, da cui fu colto all’improvviso mentre si disperava in preda al delirio, inghiottito nel «caos tenebrosissimo, cupo, immenso» del carcere di San Leo – l’interesse fiorito intorno alla sua individualità figura di mago, alchimista, taumaturgo e fondatore della massoneria egiziana non accenni, neanche lontanamente, a diminuire.

Non è il caso, in questa sede, di indugiare più di tanto sulle rocambolesche gesta di cui lo stesso Cagliostro ebbe personalmente a menar vanto in talune situazioni o per via delle quali egli venne – fors’anche malgré soi – fatto bersaglio di cicliche imputazioni, per mano di una pletora alquanto variopinta di autorità costituite, sia civili che religiose, gazzettieri prezzolati, pazienti raggirati, nobildonne deluse, adepti scornati e amareggiati, settari impensieriti dalla temibile “concorrenza”…

Basti pensare al suo, sia pur indiretto, coinvolgimento nel celeberrimo “affare della collana”, protagonista l’imbelle e debosciato cardinale Louis-René-Édouard de Rohan (1734-1803), annoverantesi, anch’egli, tra i più fervidi ammiratori dell’opera cagliostrana. Desideroso di far colpo sul cuore di Maria Antonietta, il de Rohan si lasciò – sull’onda della passione – convincere ad anticipare una somma quasi stratosferica per l’acquisto di un sontuoso collier tempestato di diamanti e di altre preziosissime pietre; gioiello di cui, complici le mene della spregiudicata contessa de La Motte e dei suoi sciagurati conniventi, si perse ben presto ogni traccia, travolgendo nel clamore dello scandalo che immediatamente ne seguì la reputazione, già largamente incrinata, della corte di Francia e con essa, va da sé, l’immagine stessa della Sovrana. La quale, vieppiù indispettita dalle voci che circolavano a proposito del ruolo giocato dal Cagliostro nella pur ingarbugliata trafila di cause e di effetti, sfociati nella macroscopica truffa, lo volle – per usare una colorita espressione dell’epoca – platealmente “imbastigliare”, di certo sottovalutando, in quel frangente, il moto di calorosa simpatia che si sarebbe prodotto in seno al parlamento e al popolo di Parigi nei confronti del carismatico conte; simpatia che doveva manifestarsi plasticamente la sera del 30 maggio (o 1 giugno) 1786, quando si sparse nella capitale francese la notizia dell’avvenuto proscioglimento di Cagliostro dalle accuse rivoltegli e i bastioni della famigerata fortezza, che non sarebbe uscita indenne dall’imminente rivoluzione, vennero presi letteralmente d’assalto da una gran folla, colà convenuta allo scopo di salutare la liberazione del suo beniamino…

E non è assolutamente un caso che a questa sintomatica vicenda, dai suggestivi risvolti politici e mondani, per i quali si potrebbe rinviare a una copiosa bibliografia, si sia espressamente ispirato uno scrittore di vaglia non privo di una certa venatura “ermetica” come Alexandre Dumas, cui si deve, come è noto, la stesura del fortunato romanzo storico La collana della regina (1850).

Di molti altri ancora e non meno problematici episodi fu costellata la  straordinaria (sotto ogni punto di vista) “carriera” esoterica e insieme cortigianesca di Cagliostro, il cui nome, prima del sopra menzionato imprigionamento alla Bastiglia, era già balzato di suo agli onori delle cronache, vuoi per dei banali “incidenti di percorso” (tra i quali un piccola e penosa controversia legata alla sua apparentemente indiscussa capacità di prevedere per mezzo di astrusi calcoli cabbalistici e astrologici i numeri del lotto, il che lo aveva portato, dieci anni prima, a incappare nelle maglie della giustizia britannica), vuoi, soprattutto, per la frenetica attività di auto-promozione da lui dispiegata nei milieux spiritualisti e illuminati del vecchio Continente, a partire dal 1777, anno della sua iniziazione alla rispettabile loggia massonica Esperance, all’Oriente di Londra.

Pur tra le tante “ambiguità” da cui risultano affetti i documenti coevi che lo riguardano, amplificate non di rado a bella posta dallo stesso Balsamo/Cagliostro (di cui si rammenti soltanto, a mo’ di esempio, il sorprendente tentativo di accreditarsi, non sappiamo quanto  metaforicamente, come il figlio adottivo di un fantomatico muftì d’Arabia, tale Salahaym!), una cosa è certa. Ovunque e sotto qualunque veste il Nostro facesse la sua comparsa, costantemente accompagnato dalla graziosa silhouette dell’incauta e sbarazzina consorte Lorenza Serafina Feliciani, era tutto un generarsi, un pullulare di grandiose aspettative di palingenesi spirituale, alle quali – all’indomani del suo dileguamento – faceva regolarmente seguito una scia di cocenti polemiche e di mal sopite frustrazioni esistenziali. Queste e quelle, come in ogni “psicodramma” a tinte fosche che si rispetti, contribuivano, in ogni caso, ad alimentare (a Mittau come a Pietroburgo, a Varsavia come a Strasburgo e via discorrendo…) il mito di un uomo sfuggente e indecifrabile, ma pur sempre “d’eccezione”, capace di prodursi ora in inspiegabili prodigi ora in vertiginose cadute di stile, aduso a commerciare con gli spiriti elementari e le gerarchie angeliche e inevitabilmente destinato – a lungo andare – a trasformarsi, da navigato facitore di strabilianti elisìr di una (quasi) eterna giovinezza, nel “Gran Cofto”, ovverosia nel supremo mistagogo di un rutilante rito latomistico all’insegna della prisca sapienza egiziana.

Perché stupirsi, dunque, se al cospetto del mistero di Alessandro Cagliostro e della sua ostentata pretesa di incarnare una via di realizzazione iniziatica a suo modo unica, fondata sull’esercizio di facoltà terapeutiche riconducibili alle virtù radicali insite in herbis, in verbis et in lapidibus, si sia venuto via via configurando, tra i suoi contemporanei (profani e non), un arco di opinioni le più contraddittorie, che andavano dalla venerazione acritica del misticheggiante pastore e teologo svizzero Johann Kaspar Lavater all’impietoso e tutt’altro che sordo rancore di un Johann Wolfgang Goethe, passando per la sospettosa perplessità di un consumato teurgo come Louis-Claude de Saint-Martin? In questo articolato coro, di cui il Sant’Uffizio avrebbe – a tempo debito – raccolto le note più stridenti a carico del reo orchestrandole in una diligente e ingegnosa partitura disseminata di mezze verità e di spudorate denigrazioni, il futuro “sommo vate” di Weimar si distinse in negativo, se non altro per la solenne assenza di scrupoli sfoderata in occasione del suo soggiorno a Palermo, dove, non pago di aver ricevuto dalle mani dell’avvocato Bivona, anch’egli massone, una copia autentica dell’albero genealogico di Balsamo/Cagliostro, e pur avendo fugato in tal modo ogni residuo dubbio circa la vera identità del funambolico Conte, si presentò sotto mentite spoglie all’anziana madre (e alla sorella) del povero Peppino, carpendone  la buona fede.

Il clamore sollevato dalle sue mirabolanti imprese, sospinse Cagliostro nelle braccia dell’Inquisizione romana, la quale, impensierita dal favore che il suo proselitismo massonico aveva incontrato nella Città Eterna, financo tra gli ecclesiastici, malgrado le smaccate dichiarazioni di cattolicità rese dal convenuto, nel mese di aprile del 1791, lo consegnò al braccio secolare, «vita natural durante» e – ciò che più conta – «senza speranza di grazia». E non è arduo immaginare, oltre al danno irreparabile insito nella definitiva perdita della libertà personale, il cupo sconforto in cui Cagliostro, ridivenuto Balsamo, dovette precipitare quando si avvide che a dar manforte allo zelo dei carnefici si era prodigata, con le sue delazioni apparentemente spontanee, l’amata Lorenza Serafina, prediletta compagna di avventure e di disavventure.

All’opinione pubblica dell’epoca, affamata di notizie succulente sull’ultimo, benché involontario, “colpo di teatro” dell’avventuriero siciliano, non si mancò di dare in pasto una sequela di articoli, libelli e reportages, che, per la gioia dei lettori, si diffondevano con minuzia di particolari sulle “malefatte” dell’ineffabile Conte, su cui, specie da parte della stampa pontificia, ci si accanì con scientifica meticolosità. È in questo clima, non propriamente clemente nei confronti del condannato, che si situa la curiosa operetta anonima intitolata Corrispondenza segreta sulla vita pubblica, e privata del Conte di Cagliostro (Venezia, 1791). Questa presenta, a nostro avviso, svariati motivi di richiamo, non soltanto perché fu concepita e data alle stampe nell’immediatezza del momento, ma soprattutto per il fatto che essa incorpora testimonianze originali di estremo valore, aneddoti altrove introvabili, cenni preziosi su luoghi, date, circostanze, momenti salienti della biografia di Cagliostro; il tutto espresso in uno stile astuto e brioso, che, a esaminarlo oggi, sembra non aver perso la sua originaria freschezza.

Il testo, uscito dalla penna dell’abate Giuseppe Compagnoni, poliedrica figura di giornalista e di letterato, si articola sotto la forma di un gustoso epistolario tra l’Autore, prudentemente nascosto dietro il velo dell’impersonalità e due ignoti corrispondenti, il primo dei quali, da Roma, informa in tempo reale il Compagnoni sull’andamento del processo, mentre il secondo (da Napoli) si diffonde con precisione sui trascorsi giovanili di Balsamo/Cagliostro.

Il ricorso allo stile epistolare agevola il Compagnoni, coadiuvato dai  sui (veri o presunti) amico di penna, nel dare vita, qui, a un abile e spregiudicato “gioco di specchi”, dove – “sotto ‘l velame de li versi strani” –  facilmente si intravvede lo sguardo di bonaria indulgenza riservato all’improbabile epopea e al suo ormai declinante protagonista.

Ragion per cui ci è parso doveroso – anche nella prospettiva di una sempre più attenta rilettura delle fonti relative al “caso Cagliostro” – procedere, con la complicità della benemerita casa editrice Atanòr di Roma, alla ristampa della Corrispondenza segreta del Compagnoni: scritto di cui – ne siamo certi – non sfuggirà tutta la rilevanza agli appassionati e agli studiosi di Cagliostro e che meritava – in quanto tassello tutt’altro che secondario della sterminata letteratura sull’argomento  – di venire dissepolto dalla spessa coltre di oblio in cui era ingiustamente incorso.

Autore

Angelo Iacovella (Roma, 1968) è docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi Internazionali-Unint di Roma. Ha pubblicato, per i tipi dell’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Il Triangolo e la Mezzaluna (1997), uno studio sui rapporti tra la massoneria italiana e l’Impero Ottomano (edito anche in turco). È autore di numerosi saggi e traduzioni di testi arabi medievali, tra cui L’epistola dei settanta veli di Muhyî-d-Dîn Ibn al-‘Arabî (Voland), nonché Il pettine e la brocca. Detti arabi di Gesù (Il leone verde). Tra i suoi contributi più recenti alla storia del sufismo, la traduzione integrale, con introduzione e note, dei detti del mistico persiano Abû Yazîd al-Bistâmî (Le parole dell’estasi, Napoli, Istituto di Studi Filosofici, 2011).