L’Europa è un’Idea in divenire. E’ un progetto in costruzione. E’ una volontà in attesa. Per quanti guardano all’ Europa con fiducia e realismo, essa è un problema aperto, una sfida, un’assunzione di responsabilità. E’ il Tema intorno a cui occorre interrogarsi per riuscire a dare forma alle aspettative che l’Europa ci pone innanzi. Particolarmente oggi, a poche settimane dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo.
Il voto è importante ma non sufficiente. C’è anche un’Europa sociale e del Lavoro con cui è necessario fare i conti. E’ un’Europa che viene anch’essa da lontano, da esperienze significative ed insieme da grandi elaborazioni culturali e sociali, che vanno ben oltre i secoli trascorsi. E’ Storia di relazioni e di valori condivisi, all’interno di una ben salda visione della vita del mondo e delle istituzioni che intorno ad essa si sono affermate. I corpi intermedi sono stati l’espressione più matura di questa “visione”, allorquando l’esercizio di ogni mestiere era oggetto di una minuziosa “regola”, che garantiva l’equilibrio e la tenuta dell’organo, tutelando il rapporto tra apprendisti e maestri, sorvegliando la buona esecuzione del lavoro e punendo le frodi, aiutando i suoi membri anche in viaggio e nei periodi di disoccupazione.
Intorno a questi principi si è innervata un’epoca e vi hanno trovato ragioni d’essere le genti europee, senza che questo precludesse spazi all’innovazione tecnico-scientifica. Del resto, alla Chiesa, e in particolare ai monaci, si devono eccezionali innovazioni tecnologiche nell’architettura, nella tessitura, nella metallurgia, nell’incisione, nelle tecniche agricole (dall’ aratro pesante al sistema dei tre campi al posto dei due campi dell’antichità classica), nella meccanica e nella misurazione del tempo. E’ lungo l’inventario dei trattati, elaborati a partire dall’Anno Mille, di medicina, matematica, astronomia, alchimia, architettura, geometria.
Scompaginato dalla Rivoluzione borghese dell’89, questo ordine sociale ha maturato una nuova legittimazione grazie alla Dottrina Sociale della Chiesa, fissata nell’enciclica Rerum novarum (1891) di Leone XIII, nella quale strumento essenziale per ricostruire la coesione sociale e la collaborazione tra le classi sono le associazioni o corporazioni operaie, nuovamente tutelate dallo Stato, ordinate e governate “… in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale”.
Poi arriverà, nella Fiume dannunziana (1920), la Carta del Carnaro, il progetto volto a realizzare la compiuta liberazione dello spirito “sopra l’ànsito penoso e il sudore di sangue” per ricondurlo a un senso di “virtuosa gioia”, in cui esso diventi bellezza e ornamento del mondo, perché “la vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l’uomo rifatto intiero dalla libertà”.
Cuore sociale della Carta del Carnaro la funzione pubblica delle corporazioni, che – come afferma l’art. XIII – concorrono, insieme ai Cittadini ed ai Comuni, a formare le basi costituzionali della Repubblica e che, unitamente alla Camera dei rappresentanti (“Consiglio degli Ottimi”, eletto a suffragio universale) , esercitano il potere legislativo, attraverso il Consiglio economico (“Consiglio dei Provvisori”, a base corporativa, cioè attraverso le diverse categorie lavorative).
La Costituzione italiana è debitrice dell’Idea Partecipativa. L’articolo 46 – ancora inapplicato – recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
Al di là dell’esperienza italiana, tutta la Storia europea è permeata dalle aspettative di un Umanesimo del Lavoro, in grado di affermare – come scriveva il belga Henri De Man, teorico del planismo – un fronte comune di tutti gli strati sociali produttivi. E’ la visione sintetica del sindacalismo soreliano, impegnato a costruire una nuova aristocrazia del Lavoro, “con la missione di modificare il mondo, cambiandone la valutazione morale”. Sono anche le aspirazioni del distributismo, di scuola inglese, teso a favorire la diffusione della proprietà dei mezzi di produzione e della casa. E’ l’idea “pancapitalista” di Marcel Loichot, condivisa, negli Anni Sessanta, da Charles de Gaulle. E’ il progetto di Adriano Olivetti finalizzato a coniugare attività produttiva, comunità e territorio, laddove la fabbrica-mezzo non è solo dispensatrice di profitti, ma anche di cultura e di servizi ed è la base di un’idea nuova di Stato.
Con queste radici culturali e sociali l’Europa può farsi carico di nuove e più mature responsabilità geopolitiche.
Tornano alla mente le provocatorie, ma lucide analisi di Guillaume Faye, giovane esponente della Nouvelle Droite, il quale, nella prima metà degli Anni Ottanta del ‘900, in Contre l’économisme, già prefigurava un’economia non più in un quadro planetario e/o nazionale, ma sub-continentale, organizzata per aree omogenee dal punto di vista storico e culturale; con un’Europa tecnologicamente all’avanguardia, in un sistema di mercato intra-europeo sottoposto ai principi del surplus, della “creazione monetaria diretta”, dell’autarchia dei grandi spazi; con “uno Stato che non fosse né totalitario, né mercantile, né paternalistico, né socializzatore, che lasciasse ‘girare’ le forze creative del mercato pienamente, ma assegnando loro dei limiti ben fissati, in breve uno Stato che non facesse l’economia, ma la dirigesse e che la dirigesse politicamente e giuridicamente, ma non più economicamente e socialmente”. Al centro l’idea di un sistema in cui gli individui si sentano mobilitati da obiettivi politici, nazionali, collettivi, “lirici”, ecc. Del marxismo – diceva Faye – io conservo l’idea della pianificazione, del liberalismo conservo l’idea del mercato (che non gli appartiene tuttavia in esclusiva).
Visioni culturali e nuove sfide, sociali e geopolitiche, vanno oggi coniugate con adeguati strumenti partecipativi d’intervento e con una reale volontà d’integrazione. Qui si gioca una parte determinante dei destini europei. Come scriveva Georges Bernanos – “l’avvenire è qualcosa che si domina. Non si subisce l’avvenire, lo si fa”.
Per “fare l’avvenire” dell’Europa è necessario portare a sintesi le tante, sparse aspirazioni e stratificazioni storico-culturali presenti sul nostro continente , guardando, nel contempo, avanti, per rimettere in carreggiata il Vecchio Continente , oggi percorso da crisi d’identità e di ruolo.
A chi crede – come noi crediamo – nell’Europa della memoria e del futuro di individuare i nuovi percorsi dell’integrazione continentale ed i contorni di un progetto originale di cultura, di politica, di civiltà in grado di essere compreso e condiviso da tutti gli europei.