La crisi della modernità sta facendo emergere riflessioni tutt’altro che marginali sulla Tradizione e sulla Conservazione. Nel mondo anglosassone la tendenza è più spiccata, ma anche in Europa si moltiplicano i saggi al riguardo che stridono con altre forme contestative della modernità caratterizzate da una visione laicista in vista della trasformazione della democrazia in atto in ogni angolo del mondo. Per esempio, il movimento degli “indignati”, apparso qualche sanno fa, pur avendo connotazioni fortemente “reazionarie” mancava dello “sbocco” propositivo ed infatti si è appassito lasciando rimpianti ed indifferenza. Mancava e manca, in alcune espressioni di dissenso all’interno della modernità, l’indicazione di un approdo che non può essere altro se non quello della rivalutazione dell’etica e dell’ethos tradizionali, connotati di elementi religiosi o comunque di apertura al sacro.
Se n’è ben reso conto Giovanni Sessa che ha affidato la sua riflessione al volume Itinerari del pensiero di Tradizione (Solfanelli editore), nel quale propone la rilettura di cinque intellettuali, alcuni lontanissimi tra di loro, le cui posizioni sono tuttavia critiche rispetto alle aporie della modernità. Walter Heinrich, Martin Heidegger, Giorgio Colli, Julius Evola, Berto Ricci hanno poco in comune, ma non si può ignorare che le loro critiche alle dinamiche che hanno distrutto lo spirito comunitario ed imbarbarito i comportamenti con l’esaltazione del relativismo, siano assolutamente attuali. E chi ritiene in una qualche misura bizzarro l’accostamento di Ricci ai primi quattro sarà il caso che ne rilegga le proposizioni “attivistiche” ed “eretiche” per scorgervi una sintonia innegabile con coloro che possiamo, a diverso titolo, ritenere maestri della Tradizione.
La consapevolezza che le culture finora dominanti si sono rivelate incapaci dim offrire risposte significative, Sessa ritiene che il “pensiero tradizionale” può davvero “farsi mondo” in un’altra modernità.
Una dimensione questa, che introduce, inevitabilmente, all’essenzialità delle religioni, come sostiene il filosofo francese Alain de Benoist, autore di un agile libretto, Il valore delle religioni (Idrovolante edizioni) nel quale osserva: “Il divino si è ritirato dal mondo in cui viviamo, che sembra destinato al nomadismo ed alla tribolazione, un mondo in cui sfruttiamo la Terra senza più essere in grado di salvarla. Il divino è migrato verso un altrove di cui ignoriamo i contorni”. Allora, comune diceva Heidegger, “Solo un dio ci può salvare”? Il discorso è aperto. E se lo si fa muovendo dal più grande studioso della Tradizione del Novecento, forse tutto rientra in un quadro dai contorni più nitidi. Mi riferisco a Renè Guènon.
Quando, giovanissimo, m’imbattei nel suo libro più famoso, La crisi del mondo moderno, ripubblicato più volte in Italia, non potevo immaginare che dalla lettura ne sarei uscito trasformato. Il saggio è di quelli che lasciano il segno e ti fanno percepire la realtà nel profondo. La negazione della dimensione spirituale presiede la modernità, la caratterizza, le dà il tono, come si dice. Lo studioso francese, nella seconda metà degli anni Venti, quando diede alle stampe il suo volume, era già consapevole del disfacimento prodotto dal mito del progresso e dai numerosi corollari da esso discendenti. E provò a mettere nelle buone coscienze degli europei del tempo un sentimento: la decadenza. Nella speranza, naturalmente delusa, che essi l’accettassero e provvedessero a scrollarsi di dosso il mantello del nichilismo che li avvolgeva. Il crepuscolo della civiltà era nell’aria. Si sarebbe manifestato pienamente decenni dopo. Noi viviamo l’ultima fase, come preconizzò Guènon. E da essa siamo incapaci di uscirne. Inaccessibile ad ogni compromesso, come notò Evola nella prima edizione italiana del 1937, lo scrittore francese lanciò con la sua Crisi l’allarme più compiuto che completa, insieme con quelli lanciati da Spengler, Keyserling, Massis, Benda, una sorta di morfologia della dissoluzione. Anche per questo le anime deboli del nostro tempo si tengono lontane dalle diagnosi attualissime peraltro di Guènon.
Diagnosi che attengono alle grandi questioni irrisolte del nostro tempo, come il rapporto tra Oriente ed Occidente; la conoscenza e l’azione; la scienza sacra e quella profana; l’invadenza dell’individualismo; le degenerazioni del democratismo in populismo e totalitarismo; il materialismo connesso al determinismo ed al relativismo. Insomma un breviario delle contraddizioni che animano la nostra epoca non meno di quanto animassero l’epoca in cui le riflessioni guenoniane presero a circolare. E’ naturale iscrivere questo libro nella storia delle idee legate alla crisi dell’Occidente. Ma sarebbe ingiusto non ricordare che in esso l’autore si produce anche in formulazioni propositive circa
la riapparizione dell’autorità, della religiosità, della spiritualità quali fondamenti della vita civile. Sarebbe ingiusto, perciò, relegare La crisi del mondo moderno tra le anticaglie intellettuali che non dovrebbero neppure più essere citate. Al contrario, la fioritura di studi attorno a Guènon è impressionante ed il suo pensiero conosce una vasta diffusione come provano le molte edizioni dei suoi libri pubblicati da Adelphi in Italia. Forse una piccolo risarcimento postumo, dopo anni di oblio. O, più verosimilmente, la forza di un’idea che s’impone malgrado il progressimo dominante. Comunque sia, Guènon era consapevole che una possibilità di rinascita tra le rovine del mondo moderno esisteva: “Coloro che fossero tentati di cedere allo scoraggiamento – scriveva – debbono pensare che nulla di quanto viene compiuto in quest’ordine può mai andar perduto; che il disordine, l’errore e l’oscurità possono trionfare solo in apparenza e in modo affatto momentaneo; che tutti gli squilibri parziali e transitori debbono necessariamente concorrere alla costituzione del grande equilibrio totale e che nulla potrà mai prevalere in modo definitivo contro la potenza della verità”.
Allora e per sempre.