“Questo è un processo all’organizzazione mafiosa denominata Cosa Nostra, una pericolosissima associazione mafiosa che, con la violenza e l’intimidazione, ha seminato e semina morte e terrore”. Con questa frase si aprono i quaranta volumi, le 8.607 pagine della storica sentenza-ordinanza che oltre trent’anni fa, per la prima volta, svelò in modo organico le vicende della mafia di ieri e di oggi. “Un romanzo nero che rattrappisce le ossa e gela il sangue”, scrisse nel 1986 Corrado Stajano che curò la pubblicazione delle parti più rilevanti dell’atto di accusa dei giudici di Palermo. Un cumulo stratificato di realtà mostruose, uno spaventoso viluppo di terrore, di nequizia, di ferocia, di morte. Un impasto di rozzezza e di sottigliezza, di arcaicità feudale e di modernità tecnologico-delinquenziale dove l’assassinio è la regola.
Per capire chi fosse Giovanni Falcone bisogna partire da quel processo che, dopo due anni di dibattimento, portò, in primo grado, all’ergastolo per 17 capi di Cosa Nostra, a cominciare da Totò Riina e Bernardo Provenzano, e per altri 375 tra boss e gregari. Di come si arrivò a quel processo e di come cambiò il metodo di indagine dei giudici inquirenti torna a parlare, con dovizia di particolari e una dettagliata ricostruzione dei fatti , Claudio Martelli, l’ex ministro della Giustizia che chiamò a collaborare nel suo ufficio il giudice Giovanni Falcone, ossia proprio il giudice che di quel processo, insieme ai colleghi Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello e al consigliere istruttore Antonino Caponnetto, fu artefice e protagonista. In verità, il libro è incentrato soprattutto sulla figura di Giovanni Falcone. “Ho pensato a questo libro ogni anno di questi trenta trascorsi come si pensa a un debito che devi restituire, un debito con Giovanni e con me stesso – scrive Martelli – Ci ho pensato tutte le volte in cui ho visto sfilare in TV e nelle commemorazioni ufficiali di Falcone accanto ai parenti e ai pochi che gli hanno voluto bene anche coloro che lo hanno detestato, lottato, infamato quand’era in vita e che, quando è morto, si ripropongono come amici di Falcone e addirittura come suoi eredi….Usurpatori morali e professionali che non sono esclusiva dei superstiti nemici di allora. Ne sono autori anche i nuovi astri o meteore del firmamento giudiziario che rivendicano il loro personale metodo di indagine come fosse lo stesso di Falcone o un suo prolungamento nelle mutate circostanze mentre, con ogni evidenza, il metodo di prima identificare il colpevole e poi cercare le prove, di sollevare polveroni nelle piazze mediatiche come preludi o accompagnamenti delle indagini e dei dibattimenti, di cavarne conferme dai pentiti come si estraevano canzoni dai juke-box e di rateizzare le loro rivelazioni alla bisogna non solo è un metodo loro e soltanto loro, ma è un modo di screditare l’amministrazione della giustizia al quale Falcone quand’era in vita non fece sconti, mai”.
Martelli non risparmia critiche e stilettate al veleno nei confronti di chi lottò contro Falcone e i suoi metodi, fino a metterne in discussione persino la professionalità e ad ostacolarne cammino e carriera, silurandolo quando cercò di entrare nel Csm e, ancor prima, quando lo stesso Csm bocciò la sua candidatura a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo.
C’è una frase di Paolo Borsellino, suo grande amico e collega, ucciso anche lui dalla mafia, fatto saltare in area insieme alla scorta sotto il portone di casa della madre, con una bomba messa in un auto in sosta in via D’Amelio e lasciata lì da giorni, che suona come un pesante j’accuse. Sono “parole terribili” che Borsellino pronunciò sull’attentato a Falcone, prima di essere a sua volta massacrato. Martelli le riporta integralmente: “…Ripercorrendo queste vicende della vita professionale di Falcone ci accorgiamo di come in effetti il paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio 1988. Falcone si era candidato a capo dell’Ufficio Istruzione solo per continuare il suo lavoro. Qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno, il Csm ci fece questo regalo di preferirgli con motivazioni risibili Antonino Meli. Nonostante lo schiaffo egli avrebbe voluto continuare il lavoro nel quale ci aveva tutti trascinato…Io che stando a Marsala ero a una certa distanza mi resi subito conto che nel volgere di pochi mesi Giovanni Falcone sarebbe stato distrutto…morto professionalmente nel silenzio senza che nessuno se ne accorgesse…Doveva essere eliminato al più presto, Giovanni Falcone”.
Parole sulle quali Claudio Martelli si sofferma più volte nel suo libro-denuncia. E’ soprattutto quella frase, “la magistratura, che ha forse più colpe di ogni altro”, a scuoterlo nell’intimo e a spingerlo a ricostruire la Via Crucis del giudice che, per la prima volta nella storia dell’Italia unitaria, aveva costretto i capi mafiosi e i loro accoliti alla sbarra, facendoli condannare, non sulla base di un teorema, ma in base a prove provate, a riscontri oggettivi, ad un uso attento e meticoloso delle dichiarazioni dei pentiti, ad una lettura articolata di un potere criminale che , come spiegava, era diventata la più potente organizzazione criminale del mondo non perché figlia del sottosviluppo, ma perché capace di approfittare di uno sviluppo distorto come quello che si era realizzato in Sicilia, grazie ad una spesa pubblica e a un sistema di appalti fuori controllo, conseguenze di uno Stato assente, incapace o restio a fare il suo dovere.
“Diceva anche – ricorda Martelli – che la mafia era organizzata, modernizzata e internazionalizzata, mentre lo Stato e la giustizia restavano disorganizzati e impotenti, affidati alle sporadiche iniziative di pochi eroici magistrati e poliziotti destinati a soccombere in una lotta impari in terra infida, dove mafia e non mafia avevano confini invalicabili”.
Cultore della specializzazione dei Pm e del coordinamento tra governo, magistratura e forze di polizia, Falcone ebbe tanti nemici. “Ma due furono quelli che cominciarono a farlo morire e che poi effettivamente lo uccisero”. Non ha dubbi Claudio Martelli. “Il nemico assoluto è stata la mafia di Totò Riina che lo massacrò col tritolo; il secondo, i non pochi magistrati che cominciarono a farlo morire. E’ evidente che si tratta di due nemici diversi e che diverse furono le loro responsabilità, ma, sebbene incompatibili con quelle della mafia, le colpe di non pochi magistrati non sono meno gravi. Proprio perché erano magistrati, funzionari della Giustizia”.
“Dopo lo strano attentato dell’Addaura Falcone parlò di menti raffinatissime, e tutti coloro che gli chiesero chiarimenti hanno inteso che non si riferiva a quelle dei mafiosi o non solo a quelle”, racconta l’ex ministro della Giustizia. “Nelle settimane e nei mesi successivi poliziotti che erano sul luogo e potevano fornire testimonianze decisive a chiarire l’identità degli esecutori sono stati assassinati e gli assassini mai trovati”. Per non parlare dei depistaggi successivi alla strage di via D’Amelio, “con l’invenzione di rei confessi, poi creduti dai magistrati come oro colato quando si autoaccusarono, ma ignorati per tutti gli anni successivi in cui ritrattarono e rivendicarono la loro innocenza, accusando poliziotti e magistrati di averli forzati con metodi brutali e manipolati con false promesse”. Di qui le domande, gli interrogativi, che in un crescendo accusatorio Claudio Martelli pone al centro della sua analisi, delle sue riflessioni sull’opera di Falcone, del suo racconto forte e determinato di una verità che, a distanza di anni, tarda ad essere svelata, compresa ed accettata in tutte le sue sfaccettature, nelle articolazioni di un parallelismo tra la mafia da un lato e la magistratura e lo Stato dall’altra. Un parallelismo che fu il terreno di coltura di una avversione profonda nei confronti di un eroe della giustizia. Eccoli alcuni degli interrogativi che attendono ancora una risposta. “Sarebbe importante sapere se anche i magistrati che congiurarono contro il giudice Falcone si sono pentiti, se riconoscono le loro colpe, se hanno chiesto perdono al dio della loro coscienza- sottolinea Martelli, non nascondendo irritazione verso costoro – Parlo dei magistrati che erano suoi colleghi, che l’avversarono apertamente, ma parlo soprattutto dei finti amici che l’ingannarono e lo tradirono. Parlo anche dei giornalisti e dei politici complici dello scempio che fu fatto di Falcone, della sua professionalità e della sua stessa umanità. Per esempio, si sono pentiti i tanti che accusarono Falcone di essere preda di un’ambizione e di un protagonismo smodati e persino di una incontrollabile smania di potere? E quelli che lo accusarono di essersi organizzato un falso attentato per carpire la buona fede di tutti e acquisire l’aura della vittima? Si sono pentiti il sindaco Orlando Cascio e i suoi complici che scagliarono su Falcone la calunnia più atroce e miserabile, quella di tenere nascosti nei cassetti della Procura i nomi dei mandanti politici degli assassinii di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa? Si sono pentiti i colleghi che l’accusarono di aver abbandonato Palermo per accomodarsi a Roma venduto al ministro socialista ? Hanno finalmente capito, o pensano ancora di aver avuto ragione? E quelli che sostennero che Falcone non doveva – anzi non poteva, diventare Procuratore nazionale antimafia perché non dava più garanzie di indipendenza.., si sono pentiti o almeno ravveduti? Chissà se hanno finalmente compreso che Falcone era così risoluto a fare guerra alla mafia che accettò, ben felice, di farlo dal governo semplicemente perché a Palermo la magistratura glielo aveva reso impossibile? Era un motivo serio, un motivo grave quello che spinse Falcone a quella scelta, sì o no? E Falcone dal Governo rese un grande servizio al paese e allo Stato, sì o no?”
Si tratta di interrogativi brucianti che non nascono semplicemente dall’ira pur giustificata di un ex ministro che si è visto ammazzare un amico e il più stretto e proficuo collaboratore, ma che poggiano su dati inconfutabili, su vicende descritte, documenti alla mano, su una narrazione che ci consegna il ritratto di un giudice che fece della lotta alla mafia la sua stessa ragione di vita e che non si lasciò mai sopraffare dalla cultura giuridica e dall’andazzo giudiziario del tempo che “quando non negavano l’esistenza stessa della mafia al contrasto preferivano la non belligeranza e la convivenza pacifica”. A corredo del libro di denuncia e di testimonianza, assai coinvolgente e al tempo stesso capace di tratteggiare senza retorica e con forte impeto sentimentale i tratti umani e caratteriali di Falcone, oltre alla sua straordinaria professionalità, Claudio Martelli allega alcuni interventi e proposte avanzate del giudice negli anni tra il 1982 e il 1992. Scritti da cui emergono, come annota Martelli, “un approccio riformatore pragmatico, l’urgenza di promuovere l’efficienza e l’unitarietà dell’amministrazione della giustizia, un’ansia illuminista di liberare l’azione penale da totem e tabù, da arcaismi, ignoranza, illusioni e pregiudizi”. Scritti pervasi da uno spirito e da una cultura riformatrice fuori dal comune. Idee che, oltre a ciò che ha fatto, fanno vivere ancora Falcone in mezzo a noi.