• 23 Novembre 2024

«Una misteriosa corrispondenza» — sono parole del grande mistico musulmano Abû Hâmid al-Ghazâlî (m. 1111 d.C.) — «intercorre tra le note musicali e l’elemento spirituale dell’uomo». Corrispondenza che, se osservata in una prospettiva strettamente razionale, rappresenta un vero «enigma», anzi, a voler esser più precisi, il «segreto dei segreti» (sirr al-asrâr).

Sulla musica in quanto «arcano sottile», fenomeno che rasenta per molti versi l’inspiegabile, sono stati versati, come si sa, fiumi di inchiostro, e non sta a noi ripercorrere le varie e complesse teorie elaborate sull’argomento, a cominciare da quelle ascrivibili ai massimi filosofi greci. In questa sede, basti ricordare quanto Pitagora ebbe ad affermare in ordine alla natura «occulta» della musica: come quest’ultima, cioè, fosse per lui — e per i successivi «neopitagorici» — quanto di più affine a quel principio di «armonia» che tutto domina, informa e riconduce a sé. Secondo il celebre maestro di Samo, le leggi che presiedono al movimento dei cieli, come a quello degli astri, si rivelano all’uomo sotto la specie di una melodia dalle proporzioni cosmiche. L’anima, dal canto suo, partecipa di questo «ordito» universale, in quanto riconosce nell’insieme dei suoni musicali delle relazioni di carattere propriamente matematico.

Platone, in linea generale, non si discosta granché dalla dottrina pitagorica della musica. Anche per lui, questa si configura come una disciplina in stretta parentela, da un lato, e con l’astronomia, dall’altro, con l’aritmetica. Essa gli appare, per giunta, uno dei fattori più importanti ai fini dell’educazione dell’anthropos ideale, nel quale il corpo e l’anima sono chiamati a progredire congiuntamente, in modo «euritmico». Ragion per cui colui, scrive nella Repubblica (III, 412), colui che unisca «la ginnastica alla musica e adatti entrambe all’anima nella forma più giusta, affermeremo essere questi un perfetto intenditore di armonia, assai più di chi si limiti ad accordare le corde uno strumento».

Nelle idee di Platone e di Pitagora in ordine al binomio musica-anima, trasmesse e ampliate dalle corrispondenti «scuole» di pensiero, non c’è chi non scorga quelli che, sulla scorta del noto filosofo della scienza musulmana Seyyed Hossein Nasr, ci piace definire «i capisaldi delle scienze tradizionali», vale a dire il riconoscimento della struttura gerarchica dell’universo che ci circonda, e la corrispondenza analogica tra microcosmo e macrocosmo. Facendo leva su queste due «pietre angolari», la speculazione islamica classica ha — come vedremo — edificato una dottrina musicologica dai tratti omnicomprensivi, che per la sua originalità di approccio e profondità di scandaglio, nulla ha da invidiare a quella greca, da cui pure, almeno in parte, procede, per inevitabile trafila.  

Lo studio della musicologia islamica comporta, per noi occidentali, vittime di una progressiva «materializzazione» della conoscenza, un problema di orientamento preliminare, che riguarda non tanto l’oggetto in sé quanto piuttosto il modo di accostarvisi. Onde presentire la vera essenza della musica, al di là delle apparenze, occorre risalire, secondo il pensiero musulmano, alla radice metafisica che si manifesta attraverso l’«ascolto», o «audizione spirituale» (samâ‘), delle note musicali. Questa premessa ci aiuterà a comprendere meglio l’importanza attribuita dalla mistica islamica – o «sufismo» (tasawwuf) – alla pratica dell’ascolto profondo della musica, intesa come «via spirituale» capace di propiziare l’accesso del ricercatore spirituale a degli stadi superiori di coscienza.

Il più significativo contributo della speculazione islamica medievale in tema di musicologia è, senza dubbio, quello apportato dai cosiddetti «I Fratelli della Purità» (Ikwân as-Safâ’), un nome collettivo dietro cui si celano gli estensori — volutamente anonimi — di una famosa enciclopedia filosofica, articolata in varie «epistole» o «trattatelli» (rasâ’il). Nell’enciclopedia in questione (che risale grosso modo al X secolo d.C.), si realizza la più mirabile fusione tra la sophia greca e la gnosi islamica, da cui scaturisce una visione del problema musicale in chiave rigorosamente neoplatonico-pitagorica; al tema dei rapporti tra la musica e l’anima è interamente dedicata un’apposita «epistola», nella quale i misteriosi «Fratelli della Purità», più che diffondersi sugli aspetti teorici di questa disciplina, si prefiggono espressamente un secondo fine, che consiste nell’iniziazione del lettore alle valenze esoteriche della musica: «Noi ci proponiamo di studiare un’arte che si compone di un elemento corporeo e di uno spirituale. Il nostro obiettivo non è dunque tanto l’insegnamento della pratica musicale […] o della fabbricazione degli strumenti, benché lo studio di tali questioni sia indispensabile, quanto, piuttosto, quello di divulgare la scienza delle proporzioni e dellarmonia […] la quale, a sua volta, è propedeutica a tutte le scienze».

Il trattato prosegue sottolineando la superiorità della musica rispetto alle altre discipline, le quali, a differenza della prima, non possono fare a meno di operare tramite  un veicolo concreto: «la materia che è oggetto di tutte le arti che si praticano con le mani è costituita da corpi naturali e i manufatti che ne derivano sono anch’essi delle figure materiale, eccezion fatta per la musica, al cui materia si compone interamente di sostanze spirituali (jawâhir rûhâniyyah), che altro non sono che le anime degli uditori: ecco perché i suoi effetti si dispiegano su un livello spirituale».

La controversia relativa all’assimilazione della musica nel corpus delle pratiche sufiche, volte a favorire l’«estasi» (wajd) nel cuore del «cercatore» (murîd), troneggia, inoltre, al centro della riflessione del più importante mistico e pensatore che la tradizione sunnita possa vantare, ovvero il già citato Abû Hâmid al-Ghazâlî, la cui fama, in epoca medievale, fu tale da raggiungere l’Europa, dove era conosciuto e apprezzato dai dotti cristiani con il nome latinizzato di Algazel. A lui si devono opere fondamentali, tra le quali una voluminosa summa theologica intitolata Ihyâ’ ‘ulûm al-Dîn («La Vivificazione delle Scienze Religiose»), dove egli si sforza generosamente di riconciliare la dimensione exoterica dell’Islâm con quella esoterica, il dogma  esteriore, pur necessario, con lo spirito che sempre soffia dove vuole,

Nel lungo capitolo VIII del libro IV del testo sopra menzionato, al-Ghazâlî si interroga sul «giusto modo di porsi nei confronti dell’audizione spirituale e dell’estasi». Qui, con una disamina attenta e meticolosa, che non ha eguali nella letteratura islamica, al-Ghazâlî prende di petto il dilemma cornuto circa la liceità della musica e delle sue applicazioni operative. Le sue argomentazioni si muovono da sé, su di un piano di logica pura, per cui a ogni tesi se ne contrappone un’altra, che, partendo dalle stesse premesse, arriva a conclusioni esattamente opposte, secondo un classico procedimento «scolastico».

L’uomo, statuisce al-Ghazâlî, è dotato di cinque sensi, a ciascuno dei quali appartiene una corrispondente percezione. Il piacere non alberga nel senso, bensì nel ricettacolo esterno verso cui si dirige questa o quella percezione. Così, il piacere della vista promana non dall’occhio, ma dalla bellezza e soavità della «forma esteriore» (sûrah) che con esso si contempla. Non diversamente, il piacere dell’orecchio deriva dall’armonia dei suoni che esso percepisce.

La musica perviene così all’«anima umana» (nafs), passando attraverso una sorta di processo di trasmutazione alchemica, in virtù del quale il suono dall’esterno si addentra nel canale auricolare per poi trasmettersi al sangue, sotto forma di impulsi «sottili». Da qui, attraverso la trama del sistema circolatorio, esso converge nel «cuore» (qalb). Dove per «cuore» si intende — e il nostro Autore lo sottolinea esplicitamente — non «l’organo fisico fatto di carne e di sangue», bensì il punto di intersezione delle influenze eteriche che penetrano nell’anima tramite «l’anticamera delle orecchie».

A questo punto, se l’anima è pronta ad accogliere la bellezza che si sprigiona dall’ascolto della musica, essa potrà godere, grazie al supporto uditivo che il corpo gli offre, uno stato di estasi e di beatitudine che neanche le lingue più eloquenti sarebbero capaci di descrivere, giacché colui che ne beneficia assomiglia, in tutto e per tutto, al «tuffatore» che si getta «stupefatto» nell’oceano senza rive dell’Assoluto.

Autore

Angelo Iacovella (Roma, 1968) è docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi Internazionali-Unint di Roma. Ha pubblicato, per i tipi dell’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Il Triangolo e la Mezzaluna (1997), uno studio sui rapporti tra la massoneria italiana e l’Impero Ottomano (edito anche in turco). È autore di numerosi saggi e traduzioni di testi arabi medievali, tra cui L’epistola dei settanta veli di Muhyî-d-Dîn Ibn al-‘Arabî (Voland), nonché Il pettine e la brocca. Detti arabi di Gesù (Il leone verde). Tra i suoi contributi più recenti alla storia del sufismo, la traduzione integrale, con introduzione e note, dei detti del mistico persiano Abû Yazîd al-Bistâmî (Le parole dell’estasi, Napoli, Istituto di Studi Filosofici, 2011).