Da tempo l’Occidente ha smesso di credere in se stesso. E’ diventato, nell’immaginario dei più, una pura espressione geografica. La sua storia, la sua cultura, i suoi valori sembrano evaporati. Lo si cita soltanto in contrapposizione all’altro emisfero del quale si assume peraltro soltanto una parte, quella che correntemente viene identificata con il “mondo musulmano”. Si può dire che sia afflitto da un patologico complesso di colpa che lo porta a scusarsi per il solo fatto di esistere. Il suo “tramonto” storico-culturale, ampiamente descritto da Oswald Spengler a ridosso della prima guerra mondiale, si è trasformato nel corso di quasi un secolo in una sorta di abdicazione al suo ruolo. Gli occidentali sono, nella migliore delle ipotesi, sulla difensiva. Tutto ciò che li riguarda è da essi stessi messo in discussione a favore di popoli, culture e civiltà che gli imputano le peggiori nefandezze. Nessuno più rivendica orgogliosamente la sua appartenenza ad un mondo che, comunque lo si voglia considerare, ha “inventato” un sistema di diritti che, per quanto disordinato e suscettibile di critiche, è pur sempre un “recinto” nel quale la modernità, intesa come conquiste di libertà nel quadro di regole fondate sul diritto naturale (benché messo in discussione dal materialismo deterministico e dal razionalismo totalitario che sono poi i fondamenti stessi dell’anti-occidentalismo) ha esplicato la sua ragionevole convivenza civile che quando è stata minata da endogene crisi di rigetto, ha saputo riaffermarsi e ricondursi sulla via di una accettabile armonizzazione delle diversità. Certo, l’Occidente non è l’Eden che qualcuno è portato ad immaginare, ma le sue corruzioni interne fanno parte della fisiologia della decadenza che in ogni tempo l’ha attraversata, ma è anche stata superata come dimostra la “vittoria” che giustamente viene evidenziata anche nell’èra del tramonto.
Poco più di quarant’anni fa, negli Stati Uniti la materia più importante che veniva insegnata era “Western Civilization”, adesso è sparita dai programmi di studio. Chi ha provato a reintrodurla è stato bollato come “politicamente scorretto”. L’Occidente non soltanto deve vergognarsi di se stesso secondo molti intellettuali occidentali, ma non deve neanche esistere perché responsabile di tutte le nefandezze con cui oggi siamo alle prese.
L’ideologia della negazione dell’Occidente ha fatto breccia nelle più autorevoli istituzioni laddove, al contrario, dovrebbe prevalere la considerazione che, comunque si guardi alla storia dell’umanità, l’Occidente ha registrato vittorie che non possono essere messe in discussione. Ce lo ricorda lo storico americano Rodney Stark (1934-1922) nel denso e suggestivo saggio, (non esente da superficiali valutazioni, comunque, come quella inerente la funzione civile, politica e culturale dell’impero romano la cui decadenza per l’autore sarebbe stata addirittura “benefica”) pubblicato qualche tempo fa da Lindau, La vittoria dell’Occidente. Un saggio ponderoso, frutto di una vastissima cultura il cui specifico intento, è la rivendicazione del primato occidentale fin dagli albori della sua manifestazione o, per meglio dire, della sua naturale ed inconsapevole nascita, che situa, ragionevolmente, in Grecia dove le comunità erano organizzate in centinaia di piccole città-stato indipendenti. E’ lì, sostiene Stark, che “ebbe inizio la civiltà occidentale” che ha conservato nel corso dei millenni il suo retaggio spirituale al quale si deve soprattutto il trionfo della razionalità coniugata con la fede grazie all’irruzione del cristianesimo che ha forgiato l’Occidente così come lo abbiamo conosciuto.
Secondo Stark quanto più la tesi della subordinazione dell’Occidente ad altre culture prevarrà, sia negli Stati Uniti che in Europa, tanto più la sua rovinosa caduta si accentuerà. Una caduta connessa all’ignoranza degli occidentali circa la formazione del mondo moderno. Noi, in sostanza, rischieremo di essere fuorviati dalle falsificazioni, che non potranno non avere risvolti politici, che inquineranno la nostre esistenze come hanno già inquinato buona parte delle istituzioni scientifiche e culturali occidentali.
Tra le tante: che i greci hanno copiato la loro cultura dagli egiziani, che la scienza europea è di derivazione islamica (pur riconoscendo l’apporto del mondo arabo – che non vuol dire necessariamente musulmano – al progresso scientifico) , che la ricchezza dell’Occidente è dovuta alla spoliazione di aree del Pianeta grazie all’aggressione colonialista, che la modernità occidentale è iniziata in Cina e via seguitando. Osserva Stark: “la verità è che, sebbene l’Occidente abbia saggiamente adottato pezzi e bocconi di tecnologia arrivati dall’Asia, la modernità è interamente il frutto della civiltà occidentale”.
Sarà bene intendersi sul termine “modernità”. Stark precisa, a scanso di equivoci: “Uso il termine modernità per indicare quella miniera di conoscenze e procedure scientifiche, di efficaci tecnologie, di successi artistici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di libertà politiche, di meccanismi economici, di sensibilità morali e di miglioramento delle condizioni di vita che caratterizzano le nazioni occidentali e ora stanno rivoluzionando la la vita nel resto del mondo. Perché c’è un’altra verità: quanto più le altre culture non sono state in grado di adottare almeno gli elementi principali della cultura occidentale, tanto più sono rimaste arretrate e povere”.
Fedele a questa impostazione, Stark dimostra come i “secoli bui” non siano mai stati tali; come le crociate abbiano esplicato una missione civilizzatrice; come la “rivoluzione scientifica” non sia avvenuta nel XVII secolo, ma al culmine di una lenta e costante evoluzione; come la Riforma non abbia apportato alcun progresso, ma abbia accentuato vecchie pratiche repressive; come il colonialismo non sia stato la causa del depauperamento di aree ricche, ma di incivilimento delle stesse. Insomma, una rivendicazione piena delle vittorie dell’Occidente in tutti campi.
Questo non vuol dire che l’Occidente sia immune dal dover essere “processato”. Ma sul banco degli imputati ci finisce proprio per aver tradito, quando li ha traditi, quei valori che comunque, dai greci al razionalisti del XVIII secolo, quando questi presero, il sopravvento, lo hanno connotato e che ancora oggi, se li sanno riconoscere, costituiscono l’anima di un’umanità che per quanto accerchiata e psicologicamente incline alla depressione ha ancora in sé le potenzialità per risollevar si. Del resto, non si può non essere consapevoli, come scrive Stark che “anche se la modernità si è diffusa da un capo all’altro del pianeta, in molti posti non si è trattato di modernità occidentale. Semmai, aspetti tecnologici della modernità sono stati trapiantati in sistemi culturali non occidentali, ancora privi dei fondamentali aspetti morali e politici della civiltà occidentale. come osservava con grande accortezza Samuel P. Huntington, molti osservatori hanno erroneamente visto la popolarità a livello mondiale di beni di consumo occidentali, dalla Coca-Cola ai jeans Levi’s, come il riflesso dello sviluppo di una “civiltà universale”. Questo però “banalizza la cultura occidentale”.
È vero che nel mondo arabo in molti possiedono telefoni cellulari e guidano l’automobile, anche se in Arabia Saudita per le donne è ancora un reato, e gli eserciti posseggono armi sofisticate in abbondanza. . Ma, sostiene Stark, “nella misura in cui tutto questo rispecchia la modernità, si tratta di modernità di acquisto e importazione” . E neppure, dice, “realizzare una società industrializzata equivale a diventare moderni nel senso occidentale, come dimostra il caso della Cina. Per usare la famosa frase coniata da Karl Wittfogel oltre mezzo secolo fa, la Cina moderna resta un ‘dispotismo orientale’.Un sostanziale grado di libertà è inseparabile dalla modernità occidentale, e questo ancora manca in gran parte del mondo non occidentale”.
Lo studioso americano non si nasconde i “difetti” e le incongruenze che segnano l’Occidente: “Non c’è dubbio – osserva – che la modernità occidentale abbia i suoi limiti e i suoi malcontenti. Eppure, è di gran lunga migliore delle alternative di cui siamo a conoscenza, non solo, o persino soprattutto, a causa della sua tecnologia d’avanguardia, ma anche del suo fondamentale impegno per promuovere la libertà, la ragione e la dignità umana”
Confutando le tesi che hanno preso a circolare dall’Illuminismo in poi, lo storico americano offre lunghe e dettagliate descrizioni di ciò che è stato l’Occidente nel corso dei secoli, senza celarne le cadute dovute a guerre intestine, non soltanto militari, che spesso lo hanno prostrato. Ma ha sempre saputo rialzarsi, come quando respinse, non solo con le armi ma soprattutto con la fede i tentativi di conquista dell’impero Ottomano portatore di un’altra civiltà, giustificata dalla religione. Allora come ora. Nel 1520, quattro anni dopo che Carlo V era diventato re di Spagna e tre anni dopo che Martin Lutero aveva affisso le sue Novantacinque tesi, Solimano, poi detto il Magnifico, divenne il decimo sultano dell’Impero Ottomano. Il suo sogno coltivato fin dalla più tenera età, prese corpo e a ventisei anni cominciò ad organizzare più grande attacco alla Cristianità ed all’Occidente. Riportò, come sappiamo qualche vittoria, ma la vecchia Europa infranse il sogno di un Mediterraneo islamico e di un Continente inglobato nell’universo musulmano. Con la tecnica, certo, ma soprattutto con la fede.
È un disegno antico quello di appropriarsi dell’Occidente dei Crociati. Lo si evince non soltanto dal libro di Stark, ma anche dai “temerari” studi di Spengler e di Toynbee. Certo, se l’identità occidentale si frantuma al proprio interno, come sta accadendo, se le paratie vengono abbattute dalla fiacchezza morale, spirituale e religiosa che domina gli occidentali, se non vi è più consapevolezza del proprio essere, allora un qualsiasi improvvisato Califfo può lanciare la sua sfida ed immaginare che lo stendardo nero jihadista sventoli sulla capitale della Cristianità.
La “vittoria” dell’Occidente, in tal caso, potrebbe diventare una nostalgia tragica nei secoli che verranno.