• 19 Settembre 2024

Si è a lungo discusso, in ambito accademico, su che cosa si debba intendere per “storia” e, di riflesso, per “storiografia”; ci si è anche interrogati, in particolare, se quest’ultima abbia ad indagare gli eventi del passato in un’ottica per così dire “macroscopica”, ponendo cioè l’accento sulle gesta, pubbliche e private, delle personalità più eminenti di questa o quella epoca (eroi, statisti, condottieri…), nonché sugli avvenimenti più plateali e clamorosi (politici, militari, sociali, diplomatici…), i quali, da che mondo è mondo, disegnano – a tinte ora chiare ora scure – le vicende dei popoli, degli imperi e, più di recente, degli stati.

O se, viceversa, sulla falsariga di una felice e alquanto fertile tendenza metodologica inaugurata, come è noto, dalla cosiddetta scuola francese degli Annales (dal nome della celebre rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre), la ricerca storiografica non debba preferibilmente volgersi alla ricostruzione – certo più minuta e quasi “calligrafica” – della vita quotidiana di singoli individui e/o di gruppi umani apparentemente anonimi, le cui dinamiche, calate nel flusso ondivago e magmatico della cultura materiale, risultano, in linea di massima, governate da ritmi e da riti di sicuro meno “appariscenti” degli avvenimenti di cui la “grande storia” (quella “ufficiale”) è manifestamente intessuta, ma che, nondimeno, aprono prospettive inedite, tali da consentire una non meno profonda e acuta comprensione dello “spirito del tempo”.

Questi due approcci, tuttavia, al di là delle scelte operate dallo specialista, che potrà orientarsi verso l’uno o verso l’altro, a seconda della sua formazione e sensibilità, e magari combinarli tra di loro, non esauriscono, né ci aiutano a risolvere, il problema – tutto “filosofico”, va da sé – della teleologia della storia, giacché il determinarsi di un “fatto”, piccolo o enorme che sia, e con essa la concatenazione di cause e di effetti che vi si accompagna, è sempre e per definizione il prodotto delle innumerevoli “variabili” che concorrono a generarlo, alcune delle quali, come ci ha insegnato magistralmente il Vico, oltrepassano le intenzioni degli attori, in virtù del principio della “eterogenesi dei fini”.

La storia, però, la si può scrivere altresì – e questo recente lavoro di Ruggiero Ferrara di Castiglione su José de Ribas lo dimostra a iosa – come un romanzo avvincente e a tratti avventuroso, dove – sullo sfondo di un palcoscenico assai vasto e variegato, che si estende dalla Napoli della seconda metà del Settecento (vera capitale del Mediterraneo) alla Russia zarista, passando per il mar Nero, nodo strategico nei rapporti commerciali e geopolitici di ieri e di oggi tra l’Asia e l’Europa – si stagliano le silhouettes di personaggi noti e meno noti, a ciascuno dei quali è assegnato un compito preciso e prestabilito (non importa se primario, secondario o da semplice comparsa) nello svolgersi di una trama singolare e, per certi versi, sorprendente, che si viene delineando di pagina in pagina, sotto gli occhi del lettore; trama in cui la realtà (esteriore, certificata, incontrovertibile) supera, come si suol dire, la fantasia…

L’Autore, Ruggiero Ferrara di Castiglione – studioso onnivoro e curioso della cultura partenopea, ma anche appassionato investigatore della tradizione esoterica occidentale – non è nuovo, d’altronde, a questo tipo di imprese, come sa bene chi di lui ha letto, ammirato o anche soltanto compulsato (dal momento che si tratta di un’opera di riferimento a livello mondiale per il tema che affronta) i sei volumi della monumentale storia de La massoneria nelle due Sicilie (Roma, Gangemi 2007-2014). Una vera e quasi inesauribile miniera, questa, di notizie e di spunti di riflessione critica sul ruolo giocato dalla Libera Muratoria e dai suoi affiliati nel XVIII secolo, scaturita da uno studio attento e consapevole di fonti e di documenti d’archivio, da cui emerge – fuori da ogni ragionevole dubbio e da qualsivoglia banale “complottismo” di maniera – lo straordinario, ancorché discreto e quasi sempre inavvertito, contributo delle logge massoniche (e dei loro iniziati) allo sviluppo dei processi (e dei progressi) storici, politici e intellettuali che hanno interessato il regno borbonico prima della rivoluzione napoletana del 1799, riverberandosi anche all’estero.

Esempio paradigmatico dell’influenza esercitata – a più strati e dimensioni – dal mondo latomistico settecentesco e dai suoi esponenti, è proprio la figura di José di Ribas, ammiraglio napoletano di origine spagnola, fondatore della città e del porto di Odessa, alla cui stupefacente “carriera”, sviluppatasi all’ombra di Caterina II, e costellata di notevoli prodezze militari, tra macchinazioni di corte e intrighi galanti, questo volumetto – un piccolo “gioiello”, anche letterario, più spaccato di una stagione complessa e intricata dell’evo moderno che mero resoconto biografico – rende finalmente giustizia, situandola nel quadro che le è consono e sottraendola alla coltre di oblio che l’aveva sepolta.

Il testo – ulteriore motivo di pregio – è impreziosito da un ricco apparato iconografico, che ci introduce in un percorso originale e stimolante, all’insegna di un continuo rimando del discorso all’immagine e dell’immagine al discorso.

Autore

Angelo Iacovella (Roma, 1968) è docente di Lingua e Letteratura Araba presso l’Università degli Studi Internazionali-Unint di Roma. Ha pubblicato, per i tipi dell’Istituto Italiano di Cultura di Istanbul, Il Triangolo e la Mezzaluna (1997), uno studio sui rapporti tra la massoneria italiana e l’Impero Ottomano (edito anche in turco). È autore di numerosi saggi e traduzioni di testi arabi medievali, tra cui L’epistola dei settanta veli di Muhyî-d-Dîn Ibn al-‘Arabî (Voland), nonché Il pettine e la brocca. Detti arabi di Gesù (Il leone verde). Tra i suoi contributi più recenti alla storia del sufismo, la traduzione integrale, con introduzione e note, dei detti del mistico persiano Abû Yazîd al-Bistâmî (Le parole dell’estasi, Napoli, Istituto di Studi Filosofici, 2011).