• 18 Ottobre 2024
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Editoriale

Piove, regione ladra! Già, faremmo bene ad aggiornare l’indirizzario istituzionale dell’italico qualunquismo se vogliamo evitare che l’autonomia differenziata ci restituisca le nostre imprecazioni con la dicitura “destinatario sconosciuto” (in questo caso l’incolpevole governo). Ogni riferimento all’alluvione che ha devastato per la seconda volta in due anni l’Emilia Romagna è puramente voluto. Siamo infatti in presenza di un evento che ci fa toccare con mano la drammatica fragilità del Paese non solo in riferimento al suo conclamato dissesto idrogeologico ma anche rispetto alla sua irrimediabile fatiscenza istituzionale. Non è una novità, intendiamoci, ma è la prima volta che il minuetto in termini di rimpallo tra poteri va in scena ad autonomia differenziata vigente. Con un clamoroso ribaltamento dei ruoli: chi l’ha approvata – la maggioranza di centrodestra – punta l’indice contro l’inerzia della Regione; chi l’ha osteggiata – l’opposizione di sinistra – rivolge analoga accusa al governo. Entrambe le posizioni suonano inquietante conferma della nostra condizione di nazione corrosa da competenze concorrenti, poteri confliggenti, rivalità politiche e propagande incrociate. È la deriva neo-feudale verso cui sta fatalmente approdando l’Italia. E non da ora.

Già tempo fa, infatti, il Censis ci dipinse come il Paese del «piccolo è bello». E talmente ci sedusse questa geniale pennellata sulla nostra vocazione di Paese plurale, intessuto di borghi minuscoli, microimprese e botteghe mignon, da convincerci ad adagiare anche la nostra pubblica governance su una rete fittissima di poteri in formato bonsai, ma tutt’altro che sdentati: “micro” nelle proporzioni, ma assolutamente “macro” nella loro forza di interdizione. Dalla politica al sindacato è infatti tutto un germogliare di sigle, spesso unipersonali, che si atteggiano ora a partiti, ora a comitati, altre volte ancora ad associazioni: sono i piccoli feudi in cui spadroneggiano vassalli, valvassori e valvassini del nostro tempo. Sono loro i protagonisti della tragicomica batracomiomachia a base di ripicche, veti e reciproche gelosie di cui il conflitto governo-regioni è solo il capitolo più avvincente e se possibile, nel contempo, più avvilente. È perciò un peccato che a nessuno sia venuto in mente di dirottare il vespaio polemico seguito all’alluvione dell’Emilia-Romagna verso il regionalismo rafforzato di nuovo conio: è davvero questa la via maestra?

Ne è convinto Maurizio Belpietro. «Meglio lautonomia differenziata», ha sentenziato su La Verità, augurandosi che la legge Calderoli ponga fine al «balletto fra Regioni e Stato che va avanti da più di ventanni». Per poi argomentare: «È dal 2001, cioè da quando la sinistra modificò il titolo V della Costituzione, che gli italiani assistono a un conflitto di competenze, con relativi ricorsi alla Consulta». Diagnosi impeccabile. Che però cozza con l’auspicio espresso da Belpietro di dare ancora più competenze ai governatori. Tanto più che lo stesso giornalista, nel commentare lo scaricabarile in atto sulla pelle degli emiliani, riconosce che nel caso di specie «la responsabilità sta in fondo alla catena e non in cima». Tradotto vuol dire che i soldi per la tragedia-bis dopo l’alluvione dello scorso anno il governo centrale li ha stanziati mentre «è lamministrazione regionale che non ha fatto quel che doveva». E lo stesso, assicura Belpietro allargando lo sguardo all’intera nazione, «vale per la sanità» e per quei settori, «istruzione» compresa, «di cui la politica regionale dovrebbe occuparsi ma di cui, invece, scarica volentieri la responsabilità per evitare di pagare dazio».

Parole sante. Resta, perciò, incomprensibile quale circuito logico-argomentativo abbia condotto Belpietro ad invocare l’avvento immediato dell’autonomia differenziata a tutto danno dei poteri del governo che, a sua detta, hanno funzionato bene e a tutto vantaggio di quelle stesse Regioni che – sempre parole sue – hanno invece giocato allo scaricabarile istituzionale. Se proprio il «balletto» deve finire – e dovrebbe finire! – che finisca dalla parte giusta, cioè con la riassegnazione allo Stato di quelle funzioni delicatissime che a breve passeranno totalmente nelle competenze di questi mostruosi carrozzoni clientelar-elettorali che sono le Regioni, al Nord come al Sud, a destra come a sinistra. Sì, perché è inutile starci ancora a giocare con il tema dell’autonomia differenziata. Quest’obiettivo ha cessato di esistere. È figlio di un’altra epoca. Resiste solo come surrogato ideologico-propagandista per soddisfare la brama di potere dei sedicenti governatori.

Strano che non lo abbia capito (o fatto finta di non capire) il governo di destra-centro, impegnato com’è in Europa a difendere (giustamente) quote di sovranità nazionale. Non tanto in nome di uno sciovinismo improponibile e neanche auspicabile quanto in ragione di un europeismo bene ordinato che trovi negli Stati e nei popoli il suo quotidiano alimento. Se, come diceva Renan, «la nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno», non si capisce perché quella europea, qualora sorgesse, dovrebbe esserne esentata. Ma – ed è questo il punto di snodo – se l’integrazione nel Vecchio Continente rappresenta un processo ineluttabile, è di tutta evidenza che l’Italia non può trovarsi nella condizione di devolvere poteri verso l’alto (la Ue) e verso il basso (le Regioni). Una delle due è di troppo. E non ci vuole molto a capire quale. Può, ad esempio, il tema dell’energia essere appannaggio degli assessori regionali quando lo scenario internazionale consiglia, anzi impone, di assegnarlo in concorrenza allo Stato e alla Ue? Lo stesso vale per le grandi infrastrutture, per i settori strategici, oltre che per sanità, istruzione e ambiente. È la realtà a dircelo. Mentre è ideologia mista a propaganda quella che indica l’autonomia regionale come soluzione per il futuro.

Anzi, se c’è una morale da trarre dalla lezione impartita dall’alluvione dell’Emilia Romagna è che siamo ancora in tempo ad evitare il baratro. Certo, l’autonomia differenziata è già in vigore, ma la legge Calderoli fissa solo le procedure con cui attuarla. Nel frattempo, già un paio di ministri – Tajani, Musumeci – hanno tirato il freno a mano pur di non cedere le proprie competenze alle Regioni mentre alcuni governatori, anche del centrodestra, non hanno fatto mistero di diffidare della soluzione adottata. Senza tralasciare che alle porte del governo bussa minacciosamente lo spettro del referendum abrogativo, cui fanno da pendant i ricorsi presentati alla Consulta da alcuni Consigli regionali. Esistono, insomma, tutte le premesse perché si faccia un tagliando alla riforma appena varata. L’ideale sarebbe liberare l’Italia da questa opprimente bardatura regionalista, ma ci vorrà tempo. Quello cattivo che intanto si è abbattuto sull’Emilia Romagna ci ha fatto già capire che l’autonomia differenziata è come un’auto scoperta: si può usare solo se non piove.      

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).