1. Sulle tracce del pensiero di Heidegger: contributo a una topologia involontaria della sua ricezione extra moenia
Malgrado la mole imponente delle opere complete di Martin Heidegger (Martin Heidegger Gesamtausgabe) – il cui piano originale, impostato secondo le indicazioni dell’Autore in persona, ammonta, come è noto, a ben 102 volumi, ivi compresi i famosi (e per molti versi famigerati) Schwarze Hefte, la cui pubblicazione ha polemicamente riaperto, anche in Italia, la vexata quaestio della sua più o meno convinta adesione all’ideologia del nazionalsocialismo e, di conseguenza, anche quella delle implicazioni politiche e meta-politiche del suo (ormai innegabile) antisemitismo – e ferma restando l’altrettanto impressionante multiformità dei nodi affrontati dal pensatore di Friburgo nel corso di una lunga e densa esistenza interamente consacrata alla quête filosofica, è a dir poco curioso riscontrare come, scorrendo l’elenco degli argomenti che fanno l’oggetto di una pur così ingente produzione, sembri essere completamente assente, dall’orizzonte heideggeriano, qualsivoglia riflessione e/o meditazione sulla filosofia del mondo musulmano.
Una filosofia, quella islamica – sviluppatasi in epoca medievale all’ombra e sulla scorta di un sistema religioso strettamente monoteistico di matrice giudaico-cristiana, inevitabilmente condizionato dai contenuti scritturistici e dogmatici della rivelazione coranica – che agli occhi di un pensatore strutturalmente “tedesco” come Heidegger, profondamente “radicato”, per il suo vissuto biografico e per la sua formazione accademica, nel “terreno” (Grund) della tradizione occidentale, intesa nel plurimillenario dipanarsi dei suoi movimenti e contro-movimenti storici e teoretici, dalla Grecia presocratica alla Germania di Nietzsche, si può presupporre, con qualche grado di approssimazione, sia apparsa come alquanto “estranea” e, probabilmente, financo troppo imbevuta di remore metafisiche e “ontoteologiche” per non risultargli in-differente (ci si passi il vezzo ortografico…) rispetto alla pluralità dei “sentieri interrotti” (Holzwege) da lui prediletti.
Particolare sorpresa, dunque, specie se visto con il senno di poi e alla luce del summenzionato, costante e sistematico “disinteresse” di Heidegger verso il pensiero e i pensatori dell’Islam classico, desta il fatto che a favorire, prima la penetrazione e poi la ricezione della speculazione heideggeriana in Francia, già a partire dai primi anni Trenta del secolo scorso, sia stato – per una molteplicità di circostanze che, come vedremo, non si spiegano facendo appello al “caso” o a una non meglio precisata “ironia della sorte”, ma chiamano direttamente in causa una trama sottile e troppo spesso inavvertita, fatta di rapporti personali e di impensate contaminazioni intellettuali – il grande studioso parigino Henri Corbin (1903-1978), ovvero colui che, a buon diritto, può essere annoverato tra i più attenti e raffinati cultori della storia della filosofia islamica e, in ispecie, di quella iranica, alla ricostruzione della quale egli si dedicò per molti decenni partorendo, all’indomani della seconda guerra mondiale, una corposa messe di saggi e di traduzioni, annotate e commentate, di testi inediti dall’arabo e dal persiano di grandi filosofi e “gnostici” musulmani, lumeggiati secondo un metodo particolarmente originale, specie se paragonato ai consueti paradigmi dell’orientalistica eurocentrica; metodo che egli non esitò, significativamente, a definire “fenomenologico”.
2. Henri Corbin: cenni per una biografia “filosofica”
Conseguita, nel 1922, la licenza in “Filosofia Scolastica” presso l’Institut Catholique di Parigi, il giovane e promettente Corbin si iscrive all’École Pratique des Hautes Études, dove incontra, divenendone allievo, Étienne Gilson, grazie al quale si accosta allo studio dell’avicennismo latino e matura il proposito di apprendere l’arabo per approfondirne meglio i contenuti. Dopo una breve parentesi nel corso della quale, mentre si appassiona alle opere dell’esoterista e metafisico francese René Guénon e dello storico dell’arte orientale Ananda Coomaraswamy, il Corbin si accosta al sanscrito e alle dottrine religiose dell’India antica, e nell’anno 1929, si diploma in arabo, turco e persiano presso l’École Française d’Éxtrême-Orient (dove si imbatte nel celebre islamologo Louis Massignon), a dimostrazione dell’ormai insorta e prevalente predilezione per la civiltà musulmana e per il suo patrimonio materiale ma, ma anzitutto, immateriale.
Decisivi per la maturazione del suo articolato percorso personale e intellettuale, a partire dal terzo decennio del secolo, saranno però i numerosi soggiorni in Germania, dove – anche a seguito di una sua precedente adesione al protestantesimo, prima tappa di un complicato e sofferto itinerario religioso, che lo avrebbe portato molto più tardi a convertirsi all’Islam sciita (ramo eterodosso e “iniziatico” della religione musulmana) non senza abbinarvi una contestuale militanza in ambienti massonici “di frangia” (martinismo) – si immerge con entusiasmo nella temperie del dibattito filosofico e culturale che animava all’epoca l’università tedesca. Conosce personalmente E. Cassirer, dalla cui teoria delle “forme simboliche” sarà notevolmente influenzato e, pur continuando ad occuparsi di islamologia, traduce e commenta senza sosta alcuni dei più rilevanti esponenti della teologia e della filosofia continentali, vivi o defunti, quali – tra gli altri – Barth, Kierkegaard, Jaspers e Dilthey.
Non meno fatale, anche per i successivi risvolti legati alla incipiente irradiazione del magistero heideggeriano fuori dai confini della Germania, l’incontro con l’ormai celebre estensore di Essere e Tempo; incontro che ha luogo a Friburgo, della cui Università Heidegger era già stato in precedenza nominato Rettore, mettendosi in mostra pubblicamente in tale veste per una alquanto controversa allocuzione, tra le cui righe non fu difficile ai più intravvedere l’insinuarsi di un certo compiacimento per il recente avvento al potere di Adolf Hitler.
Rievocando, a pochi giorni dalla morte di Heidegger, i termini dei suoi rapporti con quest’ultimo, in una lunga e interessante intervista radiofonica registrata per radio-France Culture il 2 giugno del 1976, Henri Corbin – che aveva anch’egli nel frattempo raggiunto, si può dire, una fama mondiale per i suoi eccezionali contributi alla conoscenza dell’Islam – precisava quanto segue: «Ho avuto il privilegio ed il piacere di passare alcuni momenti indimenticabili con Heidegger a Friburgo nell’aprile del 1934 e nel luglio del 1936, cioè nel periodo in cui stavo elaborando la traduzione della raccolta di testi pubblicato con il titolo di Qu’est-ce que la Métaphysique?».
A quanti si sorprendevano, ravvisando in ciò una contraddizione assai difficile a sanarsi, che il più grande islamologo francese, a cui si doveva la diffusione di una più ampia e finalmente retta intelligenza delle principali correnti della filosofia irano-islamica in Occidente, e che con le sue parafrasi dall’arabo e dal persiano aveva reso giustizia ad alcuni tra i sommi maestri del sufismo (tra cui Ibn ‘Arabī a Sohrawardī), potesse vantare il merito di avere introdotto per primo, presso il grosso pubblico francofono, il pensiero di un Martin Heidegger, Corbin rispondeva:
Questa domanda mi è stata posta molto spesso ed ho constatato, qualche volta, con divertimento, lo stupore degli interlocutori che scoprivano che chi aveva tradotto Heidegger e chi aveva introdotto la filosofia irano-islamica erano la stessa persona. E poi si domandavano: come è avvenuto il passaggio da uno all’altro? Ho cercato di dirle, qualche tempo fa, in un’intervista successiva alla morte di Heidegger, che questo stupore non è altro che indice di una separazione, di una classificazione a priori delle nostre discipline. Si sente dire: ci sono i germanisti e ci sono gli orientalisti. Tra gli islamisti ci sono gli islamizzanti, gli iranologi, ecc. Ma come si potrà passare dal germanesimo all’iranologia? Se coloro che si pongono questa domanda avessero una minima idea di quello che è la filosofia, la Ricerca della filosofia, se si rendessero conto che gli incidenti linguistici non sono, per il filosofo, che degli incidenti di percorso, i quali non segnalano altro che delle varianti topografiche d’importanza secondaria, forse sarebbero meno stupiti.
3. Qu’est-ce la métaphysique?
Come ci ricorda Franco Volpi, «Corbin aveva pubblicato una prima versione della sua traduzione, con Prefazione di Alexandre Koyré nella rivista parigina Bifur (VIII, giugno 1931, pp. 1-27)». Anche sull’onda dei due successivi rendez-vous con l’Autore (che caddero nel 1934 e nel 1936, come abbiamo visto), il giovane orientalista francese, pur non potendo dirsi stricto sensu un “discepolo” di Heidegger, e coltivando parallelamente l’ambito islamologico, ampiò il suo campo di azione di traduttore occupandosi di volgere in francese una conferenza dello Heidegger sulla poesia di Friedrich Hölderlin, nonché alcuni estratti dal testo capitale di Essere e Tempo, più esattamente i paragrafi relativi al concetto di “essere-per-la-morte”, che apparvero – congiuntamente alla prolusione tenuta nel 1929 sul tema: Che cos’è metafisica? – in un volume edito da Gallimard nel 1938, con prefazione dello stesso Corbin, il quale – negli anni immediatamente precedenti – si era anche giovato, per una migliore comprensione del lessico e del pensiero heideggeriani, di una amichevole corrispondenza con il maestro tedesco. Nel libro, che si fregiava di una prefazione inedita vergata da Heidegger, nella quale si lodava il curatore e traduttore francese «per le difficoltà che […] ha dovuto superare in questo caso, e apprezzare il lavoro pieno di abnegazione che egli ha messo al servizio della causa della filosofia».
Degne di nota – per venire all’ambito propriamente traduttologico, che si intreccia strettamente con quello, alquanto problematico, della ricezione della filosofia heideggeriana in Francia – alcune scelte lessicali felicemente operate da Corbin, il quale, dando prova di una certa acribia filologica, si periterà di rendere, ad esempio, il termine-chiave Dasein con realité-humaine e quello, non meno essenziale, di Seiendes con existant. Sue anche le maiuscole di “Essere” e “Niente”, e l’esplicita avvertenza al lettore di lingua francese (a scanso di equivoci e su espressa indicazione di Heidegger), a non commettere il grossolano errore di guardare a questo “Niente”, «unicamente trattato in vista dell’Essere», come a un contrassegno di «nichilismo».
4. Dall’ermeneutica esistenziale all’ermeneutica spirituale
Corbin, primo traduttore francese di Heidegger, confessò – sempre nella straordinaria intervista da noi più volte citata – di essere stato messo a dura prova dal lessico di Essere e Tempo, salvo scoprire – cammin facendo, dopo aver abbandonato i lidi della filosofia tedesca per approdare all’oceano, spiritualmente meno inquieto e più rassicurante, della gnosi iranica – come non pochi termini evocati da Heidegger nel suo poderoso sforzo speculativo (come, ad esempio, quello di Verborgen, “nascosto”), trovassero precisi equivalenti – nella giustapposizione delle rispettive e apparentemente opposte Weltanschauungen – nell’arabo classico dei massimi teosofi visionari dell’Islam e nel loro vocabolario tecnico, frutto di un altrettanto poderoso sforzo di conoscenza filosofica, vòlto non tanto e non più a realizzare una “analitica dell’esistenza”, fenomenologicamente rigorosa, quanto piuttosto, in omaggio a una prospettiva più squisitamente religiosa, tipica di una “rivelazione” scritturale quale è l’Islam, ad attivare un processo incentrato sulla “ermeneutica spirituale” (in arabo ta’wīl) del Corano, la quale si configura, per l’islamologo francese, come una chiave che apre «il senso nascosto (etimologicamente l’esoterico) sotto gli enunciati essoterici».
Così, per Corbin, memore dei suoi trascorsi filosofici “occidentali” e germanici, e forte della lezione appresa sulle pagine di Essere e Tempo,
l’immenso merito di Heidegger resterà quello di aver centrato sull’ermeneutica l’atto stesso del filosofare. Questa parola, “ermeneutica”, quando veniva impiegata tra i filosofi, quarant’anni fa, sembrava strana, quasi straniera. […] Quanto cercavo in Heidegger, quanto ho capito grazie ad Heidegger, è lo stesso che cercavo e che ho trovato nella metafisica irano-islamica.