Alain de Benoist è intellettuale europeo di primo piano. Lo si ricorda, in genere, quale padre della Nouvelle Droite, definizione che ha sempre sentito come riduttiva. Ha animato, fin dalla giovinezza, cenacoli intellettuali, riviste di grande spessore. Bibliofilo e lettore compulsivo fin dall’infanzia: la sua biblioteca, la maggior biblioteca privata di Francia se non d’Europa, custodisce 200.000 volumi. Ha firmato oltre cento volumi e migliaia di articoli e saggi, è tradotto in tutto il mondo e ha influenzato pensatori di diversi paesi. Il suo iter teorico, lungo, articolato e, è il caso di farlo rilevare, intensamente sofferto, è connotato da un’innegabile vis filosofica. Al centro delle sue opere non stanno affermazioni apodittiche ma tesi che, al lettore attento, appaiono sostenute dal dubbio, quint’essenza della cerca filosofica autentica. Ha patito e patisce tuttora, come molti pensatori controcorrente, l’ostracismo del potere culturale vigente, che ha mirato, attraverso la reductio ad hitlerum, a tacitarne la voce libera e aperta al contraddittorio.
Tale situazione ha prodotto in lui il sentimento psicologico ed esistenziale dell’esilio interiore, testimoniato in modo mirabile da un recente volume nelle librerie per Bietti, L’esilio interiore. Quaderni (per ordini: 02/29528929,pp. 333, euro 24,00). Il volume raccoglie riflessioni brevi, aforistiche, scritte in momenti diversi: un diario intimo di grande qualità letteraria. In queste pagine, la sua memoria viva, non è rivolta, sic et simpliciter, al suo percorso ideale, ma è innescata da un confronto a tutto campo tra la sua condizione di uomo in cerca e lo stato attuale delle cose. Quelli di de Benoist sono soliloqui che rinviano a una tradizione letteraria e speculativa di cui, non esageriamo, egli è, a buon diritto, erede: quella che muove da Marco Aurelio e giunge a Montaigne e ai moralisti francesi. Il lettore troverà ne, L’esilio interiore,la “dipintura dell’io” del pensatore che, certamente è segnata dal trascorre del tempo, ma non cede mai alla mera dimensione nostalgica, in quanto il cuore vitale del suo atteggiamento e del suo pensiero è da rintracciarsi nella convinta adesione alla visione tragica della vita. Scrive, infatti, realisticamente: «non c’è mai stata un’epoca felice», definitivamente armonica e pacificata nella storia dell’uomo. Il libro è ben tradotto da Andrea Scarabelli ed è impreziosito dall’ introduzione contestualizzante di Giuseppe Del Ninno, tra i primi traduttori ed esegeti, assieme a Marco Tarchi, dei libri di de Benoist in Italia, e dalla postfazione di François Bousquet, “compagno di viaggio” del filosofo francese.
Dalla lettura si evincono i nomi degli “autori”, molto diversi per provenienza ideale e formazione, che hanno segnato la via di Alain: Sorel e Proudhon, Varlin e i comunardi, Lasch e Orwell, Pasolini e Benjamin, per citarne alcuni tra i tanti. De Benoist è uomo con: «Idee di sinistra, valori di destra», per questo è uno dei critici più radicali della Forma-Capitale e della modernità. Gli devo molto, la lettura dl suo, Come si può essere pagani, mi ha insegnato, durante l’ adolescenza, che la via all’antico ha tratto filosofico, che la filosofia, intesa nel suo significato greco e originario, può essere strumento epistrofico. Pertanto, ben al di là del parodismo di certo neopaganesimo contemporaneo e delle letture in senso stretto tradizionaliste, il pensatore francese sostiene: «Tutti vogliono trasmettere o prolungare (laTradizione)», ma subito dopo precisa: «Io invece voglio un Nuovo Inizio». Tale affermazione chiarisce il suo debito nei confronti di Heidegger, esplicitato fin dalle pagine de, L’Eclisse del sacro. Si badi, spesso si è sostenuto che il pensatore francese ha corretto il suo iniziale nietzschianesimo attraverso la lettura del pensatore di Essere e tempo. Se questo è vero, va anche precisato che la sua esegesi di Heidegger è pensata in termini nietzschiani, in quanto la sua critica del conservatorismo e dei limiti teorici delle destre nasce, come nota Del Ninno, quale: «contestazione del reale nel nome del possibile», nel nome del recupero dell’utopia classica, giammai dell’utopismo moderno, in ciò memore della lezione evoliana di Cavalcare la tigre. La filosofia di de Benoist ha tratto, per questo, antideterminista, la storia è aperta, non ha sviluppo lineare progressivo né ciclico, come per Locchi.
Un pensatore siffatto non può che sentirsi esiliato in patria, in Francia come nell’Europa contemporanea, in cui l’origine e le radici sono obliate. All’inizio del volume campeggia, infatti, una frase di Edgar Quinet: «Il vero esilio non è essere strappati al proprio Paese, ma viverci e non trovarvi più nulla di quanto ce lo faceva amare». Solo: «il cosmopolita si sente ovunque a casa propria, l’esiliato non si sente a casa da nessuna parte». Tutto sembra uguale a se stesso nelle nostre città, perfino i quartieri dell’amata Parigi, ma tutto è devitalizzato: «Prima la desacralizzazione, poi la secolarizzazione, infine il disincanto. Tutto comincia quando San Paolo rimprovera ai Greci di essere “troppo religiosi”». La nostalgia in de Benoist non induce alla rinuncia, anzi lo sprona alla battaglia metapoliltica: «Non basta avere ricordi, bisogna anche renderli attivi». Il suo non è pessimismo, ma realismo storico. È convinto, con Drieu, che: «Dopo la Grande Sera, ci sarà l’Alba […] noi ci interessiamo a questa Alba».
L’esilio interiore del Nostro è dato, inoltre, da una convinzione intellettuale antitetica a quella del senso comune contemporaneo: «La mente capace di pensare secondo diversi punti di vista – il contrario della mente partigiana – è sempre votata all’infelicità». Tale esperire ha contezza che in termini “pagani”: «Né l’essenza precede l’esistenza, né l’esistenza precede l’essenza – è che sono una sola e medesima cosa». Il principio è infranaturale. L’esilio interiore è mitigato dal profondo senso dell’ amicizia di de Benoist, che lo induce a scrivere: «Non provo il bisogno di vedere spesso le persone a cui mi sento più vicino. Mi basta sapere che esistono». Le “anime belle” si pensano e si sentano, nonostante la distanza spaziale che le divide. Ai sodali, il filosofo, in una poesia del 1982, dedica questi versi: «Gli dèi in fuga cedono il posto ai titani./ Per quanto tempo ancora ci sarà da montar la guardia/ Sotto l’occhio freddo d’un Sole che, da lontano, ci guarda?». È quesito questo che si pongono quanti, con de Benoist, si siano realmente spinti nella terra di nessuno. Nell’attesa pensiamo, viviamo e agiamo…