Anche se non devo passarci, quando mi trovo a Benevento, faccio volentieri un salto sul viale che porta alla basilica della Madonna delle Grazie dove è situato il monumento del Bue Apis. Ci sono affezionato, e non perché seguace di antiche religioni mediterranee, ma per un motivo molto più intimo e personale. Da bambino, accompagnato da mio padre, solevo sostare incuriosito davanti a quello strana statua che nulla aveva a che fare con i molti altri manufatti sparsi per la città. Coglievo in essa qualcosa di misterioso – avrei detto più tardi, “esoterico”, dopo aver maneggiato i libri di Guénon, di Evola e del nostro conterraneo dimenticato Guido De Giorgio – che m’incantava proiettandomi in un dimensione estranea alla mia sensibilità. Più tardi, dopo aver frequentato il Museo egizio di Torino e quello più affascinante ancorché malmesso del Cairo, avrei scoperto la “centralità” del Bue Apis nella cosmologia e nel ricchissimo armamentario teologico di una delle più grandi civiltà sepolte del Mare Nostrum. Cominciai a chiedermi e mi chiedo ancora, scettico sulle ipotesi che sono state nel tempo avanzate, come dall’antico Egitto fosse finito quel manufatto raffinato e misterioso sulle rive del Calore, tra popoli che altri dèi veneravano, per quanto quelli egiziani non gli fossero sconosciuti, e ben diverse costumanze religiose nutrivano la loro spiritualità. Il segreto è rimasto – e presumibilmente rimarrà per sempre – custodito nello scrigno della storia sannita a conferire un fascino maggiore alla statua.
Dopo gli anni dell’incanto fanciullesco ed adolescenziale, sono venuti quelli della delusione e della rabbia. Non che il Bue Apis non mi piaccia più o il suo fascino solare si sia mutato in un richiamo ad ancestrali pratiche religiose sinistre e poco commendevoli. Esso emana tutto il suo splendore ancora oggi che dopo tanti anni mi soffermo a dedicargli qualche minuto passandogli davanti: perfino i miei nipotini sanno approssimativamente di che cosa si tratti dopo che al primo impatto ingenuamente mi chiesero cosa rappresentasse quel “mostro”.
La delusione e la rabbia, dicevo, derivano dallo stato di abbandono che circonda il monumento. Già la posizione infelice non lo valorizza come sarebbe doveroso, ma le erbacce che gli crescono intorno, le lesioni nel basamento più volte denunciate, l’incuria generale che lo circonda (neppure una flebile lucina ad illuminarlo dopo il tramonto) sono i segni di una imperdonabile “distrazione” per un bene culturale che è diventato parte integrante della città e del Sannio, dimostrazione eloquente – quale che sia stato il tragitto che lo ha portato nelle nostre contrade – di un’apertura significativa di popolazioni rudi, ma anche culturalmente curiose verso altre civiltà. Il tutto è parte, si direbbe, della identità sannita tutt’altro che marginale nel mosaico dei popoli italici.
La scultura – alla quale un grande studioso di simboli e tradizioni prematuramente scomparso, l’amico carissimo Alfredo Cattabiani, era particolarmente interessato tanto da chiedermi di accompagnarlo a vederla ogni qualvolta capitava a Benevento (e la toccava, la carezzava, la osservava per lunghi minuti con ammirazione…) – che è in granito rosso egiziano, venne trovata casualmente nel 1629 nella campagna immediatamente fuori la città, poco distante dalle rive del fiume Sabato, presso la località conosciuta all’epoca come Casale dei Maccabei. Fu collocata su un piedistallo davanti a porta San Lorenzo, una delle otto porte di accesso all’antica città. L’egittologo francese Émile Étienne Guimet considerò la statua una rappresentazione della divinità egizia Api, un specie di toro, da mettere in relazione con il tempio di Iside eretto dall’imperatore Domiziano nel I secolo (c’è chi dice, invece, che sia del II secolo, ma ha poca importanza) a dimostrazione di quanto il culto della dèa egiziana a Benevento fosse particolarmente diffuso, secondo gli studi dello storico ed archeologo tedesco Hans Wolfgang Müller.
Comunque quale che sia stata l’origine della statua, il Bue Apis è un simbolo di Benevento e come tale andrebbe considerato, soprattutto dagli amministratori, oltre che dai cittadini naturalmente. Il degrado denunciato è frutto dell’indifferenza, senza dubbio. E a chi sostiene, cinicamente, che la città non s’è mai accorta di un tale prezioso reperto, si può rispondere soltanto con l’antico detto che la “madre degli ignoranti è sempre incinta”.
Lungi dall’indicare la via di un recupero possibile della statua, non dovrebbe essere difficile individuare una sistemazione più consona in un luogo maggiormente visibile dove possa essere curata in maniera diversa rispetto a come è stato fatto fino ad oggi. Il vandalismo, è noto, si batte soltanto con la sensibilizzazione: le misure di polizia servono a poco. Ed il Bue Apis, dopo secoli di silenzio nelle ombre e altri quattro di vita alla luce del sole, merita un destino migliore, alla pari almeno di tutto l’imponente patrimonio culturale sannita.