• 22 Dicembre 2024
Editoriale

Solo cento anni fa, la crisi economica, la mancanza di fiducia negli uomini al governo, e il nazional socialismo offrì ai tedeschi un sostegno forte, per cambiare le sorti della repubblica democratica di Weimar, che non era stata in grado di partecipare all’esperienza reale della comunità popolare, e sebbene molti non volevano Hitler, nonostante ciò, il suo successo fu inevitabile.

Il vero motivo dell’avanzare del nazional socialismo fu suscitato nell’immaginario della comunità, in particolare di moltissimi tedeschi, militari, industriali compresi, coloro che non apprezzarono le derive morali della crisi.

Inconsapevoli delle loro volontà politiche, ignavi nell’azione, incapaci di realizzare un’alternativa politica costruttiva, finirono per accettare l’antipolitica, l’anti repubblica forte, una situazione che coinvolse non solo il mondo industriale, ma anche quello sociale dell’istruzione, dei giovani, dei burocrati, di tutti coloro che si rifiutarono di collaborare alla democrazia di Weimar.

Si cercò qualcosa di nazionale, tutti puntarono verso una direzione solida che li portasse fuori dal disagio della grande crisi economica.

Lo scetticismo, e il cinismo delle masse, puntò all’immediato benessere, per sovvertire la durezza della vita, accolsero l’offerta antidemocratica e anti repubblicana, determinando una strada certa per il nazismo e il fascismo, come elemento di rinascita contemporanea in Europa, per il superamento di una crisi morale ed economica, e il superamento etico della cultura liberale tedesca ed italiana.

L’esaltazione della vita e il disprezzo della ragione e del cartesiano “cogito ergo sum” si trasformò repentinamente nella formula “ agitamus ergo sumus”, facendo naufragare un’epoca moderna di filosofi e di etica, per introdurre il concetto di “totalitarismo” condiviso nella stessa visione di Hans Kohn, filosofo e storico tedesco, naturalizzato statunitense, chiarificatore del fascismo tedesco in (Ideologie politiche del ventesimo secolo, trad. Firenze 1964).

Secondo Renzo De Felice, storico italiano, considerato il maggiore studioso del fascismo, in (Le interpretazioni del fascismo, Editori Laterza 1971) “il fascismo” si pone come un problema interpretativo, quindi: “Per il più il fascismo andava visto in relazione alla specifica realtà italiana, al carattere particolare del nostro dopoguerra, alle debolezze della nostra tradizione liberal- democratica, e alle deficienze della nostra classe politica e burocratica” e comunque la simpatia per il fascismo si estese anche altrove, verso i paesi anglosassoni e agli inizi degli anni trenta cessò di essere un fenomeno solo sostanzialmente italiano e di scarsa rilevanza.  

Oggi, dimentichi dei corsi e i ricorsi della storia, e la stessa storia economica e politica della nazione tedesca, sembra tradurre nuovamente in realtà quanto avvenuto, e né cogliamo il ripetersi di alcuni fenomeni.

Certamente nell’immaginario collettivo del popolo tedesco sono ancora impresse le conseguenze disastrose di una scelta forte e dove essa può portare, con la dissolutezza nella gestione delle finanze pubbliche, nella gestione del sistema economico industriale: infatti a distanza di solo 100 anni, ricordiamo che l’iper inflazione fu una delle cause pragmatiche del crollo economico della repubblica di Weimar e dell’inevitabile ascesa del nazismo, conseguenza, un sistema totalitario.

Oggi, per assioma paradossale sembrano ripetersi le stesse condizioni economiche e le stesse dinamiche sociali, che potrebbero portare a un ritorno di estremismi politici, forse in Germania mai sopiti.

Basta pensare alla crescita del dell’AFD, partito di estrema destra che non è un caso e nemmeno un eufemismo storico, e ciò non dà adito a interpretazioni opinabili.

L’attuale crisi di governo tedesca inaugurata dal cancelliere Scholtz, sembra trainare con sé un mantra di precariato e instabilità fiscale, dove il Paese rischia di vivere una dimensione interna all’Eurozona di crollo economico con ripercussioni ideologiche, e sociali, causate da scelte inappropriate sia a livello di programma di governo sia a livello industriale.

Infatti la rinuncia di un extra debito nell’ambito delle finanze pubbliche ha posto una restrizione a stimoli e incentivi che avrebbero rincarato la dose certamente del deficit ma acquisito un’implementazione di sviluppo avanzato cercando di colmare il gap differenziale che esiste rispetto agli altri membri dell’UE.

La Germania non riesce né a crescere e né ad esportare la sua crisi, come invece fa la Cina.

L’espansione cinese sottrae nel mercato europeo quote di mercato notevoli frenando la produzione di nazioni compresa la Germania. Nel mentre la Cina riesce a scalare le catene del valore energetico la Germania con l’avvento della crisi Ucraina, scende sotto i minimi storici, e depone le armi verso una produzione-offerta ad alto costo.

Se Pechino sta assolutamente divenendo la fabbrica del mondo, invadendo i mercati del globo con un basso valore aggiunto delle catene di approvvigionamento, il mercato automobilistico sta infatti subendo una conversione energetica a vantaggio della Cina e a svantaggio della auto tedesche, che da prime in classifica subiscono un’inflessione di tendenza.

Dunque la crisi diviene manageriale, occupazionale, industriale e sociale oltre che economica, e lo scopo di mantenere un determinato asset politico–sociale, crea una disfunzione socio-psicologica nelle masse, orientate a non capire e a non essere non capaci di guardare altrove dove la forza può imporsi, ovvero verso facili estremismi.

Il loro stato di benessere disinnescato dalla crisi, crea passività costruttiva e genera un nuovo ordine sociale volto ad una domanda politica-partitica forte. Siamo nuovamente difronte ad una immaturità sociale, che sviluppa una crisi di governo, dopo diciotto anni di stabilità di A. Merkel, una crisi morale e materiale, intrisa di un senso di impotenza sociale, delusione, e cinismo nell’orientamento politico.

Infatti anche ai tempi della democrazia di Weimar, la spinta alla certezza totalitaria, e alla sua vittoria, furono fondati, come oggi, su una fiducia politica escatologica, scevra da connessioni morali. Infatti ci fu lo spodestamento della ragione che disattivò il progresso illuminante, per avviarsi verso un mito assolutamente totalitario della politica.

Certamente, non sarà rieletto democraticamente un secondo Hitler, che ebbe la capacità di democratizzare le masse intellettualizzandole verso tradizioni moralmente e politicamente assurde, a suo piacimento, ma il rischio, oggi è di offuscare il progresso tedesco, appannaggio di una élite industriale asservita e fortemente in crisi.

La massificazione nazionale delle menti, inoltre avviene attraverso i social e il rischio riecheggia confuso in una economia fortemente industrializzata, con un futuro in pericolo che svolta verso una nuova economia di guerra, a causa della crisi Ucraina non ancora del tutto processata e conclusa.

Tuttavia la paura di un terzo conflitto mondiale non è fuori da ogni logica, il totalitarismo planetario non è avulso dalle sue performance che furono di Stalin e di Hitler, oggi la nomenclatura politica deve ragionevolmente conquistare le masse con maggiore rappresentatività e stimolarle con incentivi differenti rivolti verso un’economia circolare della gratuità.

Ma le pressioni economiche interne ed esterne, sono i fattori dominanti di una crisi ad ogni livello, basti pensare che non solo l’industria tedesca è senza energia, a basso costo, a causa dell’invasione Russa, ma anche l’intero comparto industriale europeo, riducendo i livelli di competitività, dimenticando spesso gli aspetti ideologici che intercorrono tra Bruxelles e Mosca.

Quindi se al primo punto opponiamo la crisi dell’industria europea e di conseguenza quella tedesca che non ha saputo evolvere il suo stato di digitalizzazione produttivo, è evidente che essa sta colpendo la Germania in maniera più forte rispetto agli altri paesi europei, dove nonostante tutto si registra una crescita flebile, con una produzione evidente.

La tesi della “inevitabilità”, contemporanee, ci inducono a considerare, secondo una analisi sociologica ed economica che l’apparato industriale, ovvero la governance capitalistica può incorrere nella volontà politica, di scegliere una ulteriore posizione forte, non solo secondo le teorie dell’epoca promosse da Paul A. Baran e Paul Sweezy, (1966 Monopoly Capital, economisti americani, marxisti). L’ottemperanza ad oligarchie capitalistiche forti, con governi autoritari è stato sempre appannaggio dei tempi e dei governi con un susseguirsi sistematico e poco opinabile.

Certamente le oligarchie finanziarie moderne e le loro governance bancarie, preferiscono governi democratici a quelli assolutistici e autoritari, senza eludere presenze di conservatorismo, le stesse presidenziali americane ne sono un esempio, essendo gli Stati Uniti un paese capitalistico sviluppato e fortemente industrializzato, che non si sottrae ad una lunga storia di regime democratico, la democrazia è sempre in grado di servire gli interessi oligarchici e nazionali.

Senza estremizzare, anche in una analisi predittiva, impregnandola di una visione sociologica, l’economia prescinde da una visione morale nella quale si concede margini di razionalità sociale, ovvero come predisse Karl Mannhein (detto il sociologo della conoscenza, tedesco di origine ebraica), in una crisi “Con il ritorno dell’equilibrio che segue la crisi, le forze storico-sociali organizzate tornano ad essere efficaci” e anche le élite estreme sono capaci di adattarsi a nuove situazioni.

Tuttavia, la struttura dinamica del cambiamento permane e rischia di confondere l’opinione e potrebbe evolversi in buona sostanza in estremismi non facilmente recuperabili.

Scadere in una sorta di populismo della classe media, che tende ad un ideale non facilmente raggiungibile o utopico e distopico con l’avvento dei social, che vuole per forza perseguire una realtà fatta di piccoli proprietari, commercianti, artigiani, e agricoltori. Tuttavia rincorrendo un eterno dualismo tra capitalismo e classe media, e perpetuando un contrasto antico.

Pertanto molti autori autorevoli, hanno su uno studio non recente della sociologia, colto l’interconnessione, tra capitalismo, socialismo, comunismo, e fascismo, evidenziando in quest’ultimo un ulteriore movimento di masse, “rivoluzionario nazionalistico” derivante dal disagio economico del ceto medio, che si contrappone al collettivismo, e all’internazionalismo marxista.

L’incertezza politica tedesca, non nasconde uno scenario improbabile, inoltre, il perseguire la devastazione dell’industria, con la Volkswagen che vuole chiudere le fabbriche, con un governo che andrà in esercizio provvisorio, indurrà l’economia al ribasso con un calo strutturale della domanda, e conduce a dei quesiti sociali da cui emergono preoccupazioni di dimensione interna ed esterna notevoli.  

Per ora la partita è del tutto economica con evidenti influenze negative sugli altri paesi dell’Eurozona, per quanto riguarda l’export, ma non dimentichiamo gli ostacoli infrastrutturali e demografici e il disavanzo tecnologico e competitivo, coniugate a eventuali dinamiche sociali estreme.

Autore

Economista, Bio-economista, web master di eu-bioeconomia, ricercatrice Unicas, autrice e ideatrice di numerosi lavori scientifici in ambito internazionale. Esperta di marketing. Saggista, studiosa di geopolitica e di sociopolitica. È autrice dei saggi “Il paradosso della Monarchia” e di “Europa Nazione”. Ha in preparazione altri due saggi sull’identità e sulla politica europee.