• 22 Dicembre 2024
Editoriale

Se è vero che la politica è lo specchio della società, c’è poco da restare rassicurati dall’identikit di quella italiana tracciato dal recentissimo rapporto Censis. Che ci definisce «impauriti», «poco attratti dal rischio», scettici sulla funzione di «ascensore sociale» incarnata per decenni dalla scuola, oggi ridotta a «fabbrica di ignoranti». È l’immagine di un Paese in declino, dove persino la democrazia non sembra più esercitare alcun fascino, come plasticamente dimostra la crescente quota di italiani pronti a disertare le urne. Alle “europee” del giugno scorso, tanto per citare un dato che riguarda tutti gli aventi diritto, ha votato meno di un elettore su due. Dicono che è così che avviene nelle democrazie mature. Sarà, ma forse il basso livello di partecipazione (e quindi di legittimazione) popolare dovrebbe piuttosto consigliare di parlare di democrazia irrancidita. Comunque sia, è il caso di dire che siamo alla frutta, mentre è solo un bel ricordo l’epoca e l’epica dei grandi partiti di massa con le loro sedi, i loro apparati, le loro liturgie barocche, quasi a simboleggiare la stretta parentela tra l’imponenza organizzativa e la gravitas ideologica. Partiti-guida, cioè forze politiche che si prefiggevano di traghettare la società verso nuovi approdi. Buone o sbagliate che fossero le riforme di quegli anni, l’obiettivo era quello.

Ben diversi sono i partiti-specchio dell’attualità, non per nulla schiavi dei sondaggi dispensati da questa e da quella tv con frequenza quasi giornaliera (a quale scopo poi?), i quali, appunto, inseguono gli umori dei cittadini senza filtrarli ma anzi riproponendoli tal quali nel dibattito pubblico e spesso riversandoli, ancora tal quali, in atti normativi. Ed è proprio così che la politica ha finito con il perdere presso la maggioranza dei cittadini il proprio appeal di arte sottile, difficile e complessa per trasformarsi in un festival di banalità e sguaiataggini. Fateci caso: nessuno parla e ragiona più per convincere gli altri ma solo per fidelizzare ulteriormente chi già è adepto. Oscilliamo, non a caso, tra narrazioni biliose di chi dice che va tutto male e narrazioni bavose di chi invece sostiene che va tutto bene. La verità, ovviamente, sta nel mezzo. Ma lì nessuno vuole più andarci, perché rende grigi, sfumati, non fa impennare l’audience e, quindi, non fa cassetta. Meglio polarizzati e alla moda, con licenza di appollaiarsi quotidianamente sui trespoli dei talk-showpiuttosto che esibire un senso critico che però emargina perché sta sulle scatole a tutti. È così che la pensa la stragrande parte del mainstream culturale italiano, la cosiddetta élite culturale.

Dov’è oggi un nuovo Pasolini, un nuovo Sciascia o anche un nuovo Montanelli, cioè intellettuali e opinionisti a loro modo schierati e tuttavia capaci di introdurre una visione critica, alternativa, a volte persino corsara o comunque tale da infrangere la cappa di conformismo che le consolidate egemonie di pensiero tendono fatalmente a stendere sulla società? Scomparsi, desaparecidos. E, a dire il vero, nessuno neanche li cerca più perché obbligano a pensare, attività vivamente sconsigliata dai messaggi a tinte forti. Un esempio? Qualche tempo fa, dalle colonne de La Stampa, Massimo Cacciari lanciò un appello per una lettura meno banale e schematica del Novecento, ricordandone la “porosità” culturale testimoniata, tra l’altro, dalla contaminazione tra la filosofia di Croce, l’attualismo di Gentile, il pensiero di Gramsci e quindi, scendendo per li rami verso i rispettivi filoni politico-culturali, tra liberalismo, fascismo e comunismo. Giusto o sbagliato che fosse quella tesi, non importa. È però un dato sconcertante che essa non sia riuscita ad aprire neanche la più piccola breccia nel muro di cemento eretto dal sistema dell’informazione a protezione del wrestling politico di scena tutti i giorni e a tutte le ore in tutte le reti televisive e oltre. Quasi un arrocco a difesa dell’intangibilità dello schema fascismo-antifascismo (oggi persino comico alla luce del tempo trascorso e, soprattutto, della caratura scientifica di chi lo agita) intorno al quale si costruiscono carriere fulminanti. Cacciari voleva elevare il dibattito, parlare di politica, quella alta. Non lo ha seguito nessuno. Vuoi mettere un imbecille che fa il saluto romano? In quel caso se ne discetta per mesi a reti unificate. Strano? Mica tanto: l’acuta provocazione culturale del filosofo veneziano avrebbe imposto un dibattito serio e rigoroso; per il saluto dell’imbecille, basta un Christian Raimo qualsiasi. «E ho detto tutto», chioserebbe Totò.

E allora: tutta colpa dei politici la disaffezione dei cittadini verso le urne? Gran parte, certamente, ma come dimenticare il concorso attivo e consapevole delle sedicenti élite? Basta seguire le performance dei vari conduttori dei cosiddetti approfondimenti (ma de che?) per rendersi conto che obiettivo delle loro trasmissioni è solo quello di tenere a tutti i costi vivo ed operante lo schema fascismo-antifascismo di cui prima. È un riflesso condizionato: non disponendo di adeguate chiavi di interpretazione per decifrare i temi nuovi posti dai tempi nuovi (immigrazione, crisi dell’Ue, ritorno delle vocazioni imperiali, neo-isolazionismo Usa, crisi del modello occidentale), gli intellettuali si rifugiano nel bunker delle divisioni ideologico-militari di 80 anni fa. E così “tradiscono” la loro funzione di guida. Non è una novità: ne scrisse Julien Benda sul finire degli anni ’20 dell’altro secolo. Ma oggi è diverso: l’accesso alla Rete è pressoché gratuito e basta un clic per connettersi con il mondo, i suoi saperi e le sue insidie. E questo spiega perché mai come ora la scissione tra élite e popolo si sta rivelando irreversibile. Vale in tutti i campi: politico, scientifico, medico e chi più ne ha più ne metta. Non solo in Italia, ovunque. È come se i popoli avessero smesso di fidarsi delle sue stesse avanguardie. Più queste si sperticano in lodi all’establishment (politico, finanziario, mediatico), più acquistano forza e consenso le forze anti-sistema. Lo abbiamo visto alle presidenziali americane con il trionfo di Donald Trump, ma è così in tutta Europa. Il fenomeno è trasversale – la BsW di Sahra Wagenknecht in Germania è chiaramente di sinistra – ma l’ufficio bollinatura del mainstream ha già incollato la vecchia etichetta nera, tanto per creare la giusta atmosfera: fascisti.

Non avviene forse questo in Italia? Obiettivo del nostro culturame non è forse quello di bollare come fascismo ogni gesto, idea o atto del governo in carica? Una missione ridicola, ma non per questo disdegnata da frotte di pseudo-rettori, pseudo-storici, pseudo-docenti, tutti che parlano come un volantino degli anni ’70 scritto male e tutti cresciuti a pane, cineforum e centri sociali. Brutto a credersi, ma è questa l’odierna prima fila della Kultura italiana, così almeno appare a giudicare dalla frequenza con cui appare sugli schermi televisivi, quelli di La7 in particolare. Vero anche che i loro avversari di wrestling non fanno meglio, impegnati come sono ad opporre il loro storytellingbavoso a quello bilioso dei loro detrattori. Entrambi – e ci ripetiamo – preoccupati di rafforzare il convincimento in chi un convincimento già ce l’ha. E gli altri, gli “apoti”, cioè coloro che prezzolinianamente “non la bevono”? Già, a questi non pensa nessuno, nonostante siano maggioranza. Fin che resteranno nel limbo del “non voto”, saranno un problema esclusivo di sociologi e sondaggisti. Ma è illusorio pensare che possa ancora continuare così. Al contrario, è proprio con loro che la politica deve fare i conti se non vuole ridurre se stessa a mera curva da stadio, con spalti affollati da opposte tifoserie che si minacciano e si insultano mentre in campo non gioca più nessuno.

Autore

Giornalista professionista. Deputato nelle legislature XII, XIII, XIV, XV e XVI, ha ricoperto due volte la carica di presidente della Commissione per l’indirizzo e la vigilanza dei servizi televisivi. È stato portavoce nazionale di An e ministro delle Comunicazioni nel Berlusconi III. È redattore del Secolo d’Italia. Autore del volume La Repubblica di Arlecchino. Così il regionalismo ha infettato l’Italia (Rubbettino editore).