In Occidente a lungo abbiamo creduto di essere soli. È stata la nostra debolezza culturale a indurci in questo errore. Eppure avremmo potuto evitarlo se soltanto fossimo stati consapevoli della nostra storia; di quando l’Occidente, cioè, non esisteva e la comunità civile si contrapponeva a quella barbarica, intesa come straniera, sconosciuta, ma non per questo da combattere, semmai da “civilizzare”, da associare, da includere. Poi i confini si sono ristretti. L’Occidente ha disegnato se stesso come un fortilizio sempre in pericolo di essere assediato. Si è negato all’altro da sé. E lo ha riconosciuto soltanto come soggetto da sottomettere. La lunga storia del colonialismo non è stata l’esplicitazione dell’affermazione di una volontà di potenza, ma dell’avidità: la differenza con la romanità e perfino con il germanesimo medievale post-vandalico è evidente. La ragione, insomma, degli egoismi democratici e liberali si è trasformata in una macchina produttrice di asservimenti e negazioni. Un paradosso della modernità del quale non si tiene mai abbastanza conto quando ci si confronta con i diversi (che diversi non sono), con i lontani (che sono più vicini di quanto si possa immaginare), con i differenti (che si vorrebbero giudicare con l’indifferenza di chi ha molto e teme di cedere qualcosa, senza neppure immaginare che prima o poi è destinato a perderlo, come sempre è accaduto).
Nella sua pretesa (e preservata) solitudine, l’Occidente si è creato un nuovo nemico. Nel senso schmittiano del termine: l’hostis, cioè il nemico pubblico, non l’inimicus, vale a dire il nemico privato. È il migrante, il fuggitivo, il «dannato della Terra», il disperato per antonomasia, cioè colui che non ha più una identità ma che vorrebbe veder riconosciuta la propria dignità, della quale, nonostante tutto, è consapevole e perfino fiero. E, per quanti sofisticati distinguo si possano mettere in campo, rimane sempre l’estraneo, l’indesiderato, l’inquinatore. In altre parole, colui che va respinto.
Non c’entra niente il razzismo o la pulsione xenofoba: è soltanto l’ignoranza che genera mostruosità prossime alla criminalizzazione di chi non si conosce. Accadeva agli inizi del Novecento ai migranti italiani che approdavano sulle coste americane; accade oggi a coloro che dagli angoli più disparati dell’Africa e dell’Asia giungono ai confini dell’Europa. Creano problemi: come tutti, come sempre quando le società sono intrinsecamente disordinate. E le società occidentali sono disordinatissime. Altro è il discorso per ciò che concerne l’islamizzazione dell’Europa ingaggiata dagli estremisti musulmani che vorrebbero fare un califfato del nostro Continente cominciando con l’appropriarsi del Mediterraneo orientale. Di fronte a questo pericolo come reagisce l’Occidente? Con l’impotenza, il menefreghismo, la sottovalutazione al punto di accettare in alcuni contesti territoriali la richiesta islamica dei simboli cristiani, delle cerimonie della nostra fede, delle preghiere nelle scuole.
Vi sono siffatti gruppi di jihadisti che predicano ai margini di ritrovi giovanili il loro credo e vi sono poveri disperati che fuggono la fame, la povertà le guerre: l’Occidente dovrebbe stare con questi, piuttosto che sottovalutare i primi.
La verità è che non sono i bisognosi, inermi e malandati a portare lo scompiglio: è chi deve accoglierli a doversi fare carico di politiche migratorie compatibili con le esigenze dell’Occidente che, con tutta evidenza, è impreparato a farlo. Prendiamo l’Italia: come può una nazione di sessanta milioni di abitanti “spaventarsi” di fronte a cinque milioni di immigrati comunitari ed extra comunitari, pari all’8,7%? È la loro cultura, la loro fede, il loro stile di vita, le tradizioni a cui restano fedeli a far vacillare la sesta o settima potenza mondiale? Se è così siamo di fronte ad una tragica ammissione di impotenza che sconcerta e allarma. Sarebbe il caso di capovolgere l’ordine delle cose.
L’immigrazione non è una questione di ordine pubblico (eccetto i casi di delinquenza che valgono per tutti, a cominciare dagli autoctoni). È una problematica, vasta e complessa, che afferisce alla cultura dei popoli e alla maturità delle società. In un mondo che conta poco più di sette miliardi di persone non è possibile individuare “nemici” in base alla provenienza e considerarli come “intrusi”.
I migranti sono cittadini di un Pianeta la cui geografia muta rapidamente e, di conseguenza, i costumi e i modi di pensare si integrano e si allontanano creando difformità talvolta difficilmente decifrabili. Quel che rimane per certo è la percezione delle realtà da parte delle soggettività, più o meno omogenee, che si lasciano permeare o che respingono la permeabilità in base al loro modo di essere, ma che non negano per questo l’inclusione dell’altro. C’è molta confusione a questo riguardo che si cerca di esorcizzare in due modi: o ritenendo gli immigrati una risorsa (e dunque considerandoli alla stregua di “merce”); oppure un fastidio perché portatori di modi d’essere incompatibili con il nostro. L’una e l’altra prospettiva non aiutano a inquadrare e a comprendere il
fenomeno. Entrambe prescindono da un dato fondamentale: la centralità della persona alla quale non si chiede nulla, ma si giudica soltanto dal comportamento. È questa centralità che viene negata dalle politiche di immigrazione in aderenza ai pregiudizi sommariamente citati.
Dunque, il vero “nemico” è dentro di noi, sotto le forme del pregiudizio appunto. E si spiega. Infatti, è più facile tacitare le coscienze con l’individuare nell’altro il “pericolo” per la convivenza che organizzare la società per quello che sta diventando, nonostante leggi e divieti, cioè a dire multiculturale e multietnica. Trasformazioni queste che non vale negare ideologicamente o per vellicare gli istinti più bassi insiti nella società del benessere, dal momento che le tendenze demografiche impongono prese d’atto che non si può far finta di non vedere. Semmai dovremmo rafforzare, nell’ambito delle società occidentali, un’identità culturale, esistenziale e religiosa non come barriera difensiva, ma quale patrimonio a cui tenerci aggrappati per attivare un confronto proficuo e non impaurito.
Ma c’è un altro nemico ed è tra di noi. È la mafia che recluta i “dannati”,
li assolda, utilizza la loro disperazione, alimenta le paure che li portano a delinquere talvolta, li schiavizza, compra la parte peggiore di loro, come di ogni essere umano, li getta tra le incandescenti lave del crimine. Questa mafia non sembra destare le preoccupazioni di chi invece teme l’imbarbarimento a opera di portatori di stili di vita e costumi esotici. Eppure si è consapevoli che il rifugiato è sempre l’elemento più debole di una società liquida dove il grande criminale non usa vestire i panni che dovrebbero essergli propri: si nasconde, si confonde, si cela al cospetto dei potenti e si insinua il più delle volte tra di essi. Mercanti di carne agitano il sospetto che tutti coloro i quali approdano sulle nostre rive sono malfattori e si assumono il compito di irreggimentarli per meglio controllarli, dicono, tenerli a bada. I nuovi schiavisti non sono diversi dagli antichi: a differenza di quelli hanno meno remore e non si limitano a incatenarli o a farne dei servi, ma gli mettono tra le mani armi micidiali per i loro orrendi scopi. Il nemico è dentro di noi, a parte i delinquenti comuni che sono tutti uguali. Non cerchiamolo tra chi viene soltanto per sopravvivere. Nelle pieghe dell’Occidente s’annida la paura: è comprensibile. L’Occidente, infatti, è solo. Per sua scelta non si è aperto al mondo e non ha preservato la sua identità, la sua cultura, le sue radici. Sciaguratamente.