• 23 Dicembre 2024
Racconto

Era l’anno del Signore 2555 e la millenaria città di Sant’Agata dei Goti era da oltre un secolo, ormai, disabitata e buia. Le guerre nucleari del XXII secolo non l’avevano colpita ma la Peste Nera che ne era conseguita non l’aveva risparmiata. Un solo uomo, ultracentenario, sopravviveva a sé stesso e al cristianesimo in quel monumentale luogo deserto e storico: il vescovo. Si chiamava Giovanni della Croce, non ricordava più da dove venisse ma sapeva che il Dio ignoto che notte e giorno pregava e invocava lo aveva scelto per essere l’ultimo episcopo di Sant’Agata dei Goti e per tal motivo aveva adottato il nome del primo presule noto di Sanctae Agathae Gothorum: Madelfrido.

“Io sono Madelfrido II – aveva detto al cospetto di nessuno sull’altare maggiore dell’antichissimo Tempio pagano e cristiano dell’Assunta poggiandosi sul capo la mitra vescovile – e in me il primo e l’ultimo coincidono come coincidono gli opposti dell’essere e del nulla, dell’amore e dell’odio, della vita e della morte che tutto creano e tutto distruggono in saecula saeculorum”. Le guerre nucleari, scoppiate all’alba del 2100, avevano riportato il mondo mille anni e più indietro. La barbarie era ritornata ma – cosa strana eppur razionale – era più umana e civile delle bombe e dei missili guidati dall’intelletto tecnologico. La Terra, nota e ignota, era ritornata ad essere più grande e più piccola e gli uomini sopravvissuti avevano ripopolato le regioni euro-asiatiche e le spiagge africane affacciate sul Mediterraneo. Ma Madelfrido II tutto questo semplicemente non lo sapeva e aveva del mondo un’intuizione tutta terrestre e celeste, sentiva e annusava la Terra e guardava e scrutava il Cielo. Viveva giorno e notte nel Palazzo Vescovile ma alle prime luci dell’alba e con le prime tenebre della notte diceva sempre Messa in una delle tante chiese vuote di Sant’Agata dei Goti. Il villaggio, antichissimo, era stato rifondato dai monaci benedettini nel VI secolo dopo Cristo e Madelfrido non era mai venuto meno alla Regola. Come gli antichi monaci avevano fondato Chiesa e comunità unendosi con i barbari Goti, così Madelfrido credeva e sapeva che solo orando e lavorando poteva far rinascere Sant’Agata dei Goti dalle ceneri della sua storia.

Madelfrido non sapeva se a Roma c’era o no ancora il pontefice, come ignorava le condizioni generali del Mondo e del Tempo. Sapeva soltanto di essere l’ultimo vescovo dell’antica diocesi e che il suo mondo s’identificava con il perimetro, certo non piccolo, delle antiche mura che c’erano tra il Riello e il Martorano. Questi erano i confini del Mondo e in questo mondo sentiva di essere in quanto uomo, un piccolo dio; mortale, mortale come tutti gli esseri umani del passato e del futuro ma pur sempre un piccolo dio che sentiva e ricreava in sé il ritmo dell’Universale. Ma se lui era l’ultimo uomo al mondo, il futuro coincideva con l’ora, non lontana, della sua morte. Il vescovo viveva secondo il calendario liturgico della cristianità che non aveva mai dismesso. Era lui che suonava le campane, era lui che leggeva il Vangelo, era lui che innalzava l’ostia consacrata e rivolgendosi al Signore così pregava: Veni, creàtor Spiritus, mentes tuòrum visita, imple supèrnagràtia, quae tu creàsti pèctora…e giunto alla fine dell’invocazione aggiungeva: Noi siamo molto, molto vecchi, donaci un Bambino perché solo un Bambino ci può salvare. Chiunque Tu sia, sia fatta la Tua volontà.

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Il Natale dell’anno 2555 si avvicinava e Madelfrido, come avveniva da almeno mezzo secolo, si preparava a celebrarlo in perfetta solitudine alla presenza silenziosa ma penetrante di Dio, ignoto o no che fosse. La Messa della notte del 24 dicembre era detta da Madelfrido nella vasta cattedrale: fredda e ferma come un solo blocco di marmo. Il vescovo, indossati i paramenti sacri, restava in piedi dietro l’altare mentre il Portale della chiesa e i due ingressi minori laterali restavano aperti sul mondo e un vento gelido, che discendeva dal Taburno, entrava e soffiava nelle tre navate con la forza della sua eternità. Madelfrido resisteva al freddo e al gelo dell’inverno come al caldo e al fuoco dell’estate, ma ora sentiva che le forze del secolo buio gli stavano per venir meno e il suo cuore si straziava perché sapeva che come ultimo uomo sulla Terra e ultimo cristiano la sua singola anima mortale coincideva con l’anima del mondo – anima mundi – e lo faceva essere. “O mio Dio – ripeteva ad ogni passo per le vie del mondo ossia di Sant’Agata dei Goti e nelle sue chiese vuote – o mio Dio soltanto un Bambino ci può salvare. Manda a noi un Fanciullo che dia ancora un’anima al mondo.

Venne la Vigilia e venne la Notte. Madelfrido sapeva che sarebbe stato il suo ultimo Natale senza natalità. Cercava con tutta la forza residua della sua vitalità e della sua fede la buona novella: “Un Bambino è nato fra noi”. Non voleva lasciare il Mondo senza mondo. Per la sua ultima notte di Natale chiamò a raccolta ogni essere vivente: cani, gatti, pecore, capre, oche, uccelli, uccellacci, uccellini, vacche, buoi, tori, cavalli, cervi, cinghiali, conigli, lupi, cinghiali e ogni tipo di bestia della larga campagna. In poco tempo tutta la via maestra di Sant’Agata dei Goti divenne un fiume in piena di animali che il vescovo Madelfrido guidò all’interno della cattedrale. Gli animali ricoprirono le tre navate e Maldelfrido sull’altare con le braccia aperte disse: “Fratelli animali, la mia povera carne è stanca, non potrò più far vivere il mondo nella sua tragica bontà. Ora tocca a voi salire un gradino dell’essere e umanizzarvi. Veni, creàtor Spiritus…”. Mentre così invocava si sentì abbaiare fuori dalla chiesa come mai si era sentito. Un grosso cane stava entrando in chiesa. Gli animali si aprirono come due ali di folla e il cane – bello, forte, espressivo – corse verso l’altare. Giusto ai piedi delle scale si arrestò. Guardò il vescovo e abbaiava mentre si girava per fare qualche passo di danza verso l’uscita. Poi abbaiava ancora e si voltava. Madelfrido capì che il cane lo stava chiamando e gli stava dicendo di seguirlo. Lo seguì.

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Il cane andava avanti, Madelfrido lo seguiva e al loro passaggio le due ali degli animali si richiudevano dietro loro e tutti andavano loro dietro. Uscirono dalla chiesa, scesero i tre scalini del colonnato che dopo quasi duemila anni era ancora in piedi, imboccarono quello che un tempo era vico Condotti, scesero verso via Martorano e in breve si ritrovarono nella Selva che nei nuovi secoli bui aveva riconquistato Sant’Agata dei Goti che le sorgeva sopra. La città, fondata su una rocca di tufo, fu costruita con il tufo estratto: le case avevano sotto il vuoto, profonde cantine e cunicoli e catacombe che un tempo custodivano vino e viveri, vivi e morti, virtù e vizi. Oltre alle volte e al vuoto costruiti dagli uomini, la rocca tufacea, che scendeva nelle viscere della Terra, aveva grotte e caverne naturali che furono i primi rifugi delle genti del luogo. Il cane continuava ad abbaiare e a voltarsi e rivoltarsi per farsi seguire. Il vescovo, pur con la stanchezza di un secolo di vita, si fece forza per andargli dietro, anche quando il cane prese, sotto i resti del Palazzo del Cervo, il sentiero che scendeva nella Selva. Dietro di loro il corteo degli animali. Scesero gradini e sentiero per tutta la lunghezza della parete rupestre e s’inoltrarono sulla via ai piedi della rupe fino a giungere al centro esatto del costone tufaceo occidentale di Sant’Agata dei Goti. Il cane si fermò e il vescovo, poco da lui distante, aprì le braccia per far segno agli animali e, forse, alla stessa Selva di fermarsi anch’essa. Il cane si era arrestato davanti a una grotta dalla quale proveniva un fascio di luce che illuminava l’area circostante e si era seduto come soddisfatto della sua missione. Madelfrido si avvicinò, lo affiancò e postosi dinanzi alla grotta vide – meraviglia delle meraviglie – la scena madre dell’umanità: un uomo e una donna accudivano un Bambino che giaceva tra loro su della paglia ricoperto con qualche veste. Si voltò verso gli animali e con gli occhi chiamò un bue e un asino che avanzarono e si collocarono dietro la famiglia per riscaldare con il voto fiato il Bambino. Poi si inginocchiò e disse: “Tu, o Fanciullo mio, sei la vita, la verità e la via. Tu sei il bene che dà senso alla Terra”.

Si alzò. Tutti gli animali si erano sistemati a semicerchio e disse loro: “Venite, adoriamo, venite adoriamo il Bambino. E’ la vita che rinasce”. Mentre così diceva alzò lo sguardo e vide che la Selva era illuminata, in cielo brillavano le stelle e tutt’intorno, dai colli alle valli, era un susseguirsi di genti, uomini, donne e cose e animali in cammino verso la grotta per vedere il Bambino. Alzò le braccia al Cielo e pianse. L’ultima preghiera di Madelfrido era stata esaudita. La vita rinasceva, la storia ricominciava.

Autore

Saggista e centrocampista, scrive per il Corriere della Sera, il Giornale e La Ragione. Studioso del pensiero di Benedetto Croce e creatore della filosofia del calcio.