• 22 Gennaio 2025

Dal 1956 ad oggi una sola volta il “Pallone d’Oro” è stato vinto da un portiere, nel 1963. Ci andarono vicini Dino Zoff, secondo nel ’73; Ivo Viktor, terzo nel ’76; Oliver Kahn terzo nel 2001 e nel 2002; Gigi Buffon e Manuel Neuer, rispettivamente secondo e terzo nel 2006. Considerando che di solito sono i giocatori di movimento a concorrere annualmente a questo premio con la chance di vincerlo, si può trarne la misura del suo valore. Ma se vogliamo completare l’elenco dei riconoscimenti che il Calcio gli ha attribuito dobbiamo necessariamente elencarli: nel 1988 la FIFA gli assegnò l’Ordine al Merito, il suo più alto riconoscimento; Nel 1994 la FIFA istituì a suo nome il Premio da destinarsi al miglior portiere della fase finale dei mondiali di calcio. Nel 1994, 1998 e 2002, fu inserito nel FIFA World Cup All-Time Team, FIFA World Team of the 20th Century e FIFA World Cup Dream Team. Nel 2000 venne eletto dalla FIFA e dall’IFFHS miglior portiere del XX secolo, precedendo Gordon Banks e Dino Zoff. Nel 2005, per celebrare il proprio 50º anniversario, l’UEFA invitò ogni federazione nazionale ad essa affiliata ad indicare il proprio miglior giocatore dell’ultimo mezzo secolo e lui venne eletto Golden Player. Infine, nel 2019 France Football ha istituito il Trofeo col suo nome  da assegnarsi ogni anno al miglior portiere del mondo. Per mera completezza, l’Unione Sovietica gli conferì l’Ordine di Lenine la Medaglia dell’Eroe del Lavoro che corrisponde a quella militare di Eroe dell’Unione Sovietica; c’è la sua effige su una moneta celebrativa da due Rubli e gli è stato dedicato anche un Asteroide che porta il suo nome. Se però di lui chiedi ad un giovane appassionato di calcio difficilmente ti saprà rispondere.

Lev Ivanovič Jašin(Mosca, 22/10/1929-20/3/1990), l’uomo ragno come venne soprannominato per la sua tenuta da gioco nera e per l’agilità con cui muoveva braccia e gambe che sembravano fossero otto come quelle del ragno; le usava per catturare la sua preda, il pallone, da qualunque direzione arrivasse. Le grandi doti fisiche -era alto circa un metro e novanta- e i notevoli riflessi gli consentivano di coprire rapidamente lo specchio della porta e di compiere con semplicità anche interventi estremamente difficili. Aveva uno stile essenziale, poco incline alle c.d. parate per i fotografi; molto abile nelle uscite, per quei tempi fu un antesignano del portiere che si muove fino al limite dell’area per guidare e partecipare al gioco dei propri difensori. Seppure per l’epoca non ci siano statistiche concordanti provenienti dall’Unione Sovietica, poco disposta a fornire dati persino per lo Sport, in genere gli si assegnano circa duecentoventi partite senza subire gol e oltre un centinaio di rigori parati.

E dire che, pur iniziando nella squadra di calcio, aveva preferito giocare come portiere nella squadra di Hockey su ghiaccio della Polisportiva Dinamo Mosca, vincendo la Coppa dell’Unione Sovietica nel 1953. Impedire ad un disco di gomma scagliato ad alta velocità di entrare in porta fu un’esperienza che sicuramente lo aiutò; l’anno successivo il portiere della squadra di calcio,Aleksej Chomič, si infortunò gravemente e i dirigenti della Polisportiva lo richiamarono per sostituirlo. Jašin e la Dinamo Mosca, un binomio che restò indissolubile. In Unione Sovietica, così come negli Stati satellite che furono poi aggregati nel Patto di Varsavia, le società sportive potevano appartenere unicamente alle Forze Armate o a un Ministero. La Dinamo Mosca era la società sportiva del Ministero dell’Interno che pagava mensilmente gli atleti come se fossero propri dipendenti; lo stipendio massimo che Jašin raggiunse fu equiparato a quello di un sergente del KGBo di un insegnante di educazione fisica. Veniva da una famiglia di operai e lui stesso, durante la guerra, seppure ancora un ragazzo aveva lavorato in fabbrica per sostituire quelli che combattevano al fronte, una condizione comune a centinaia di migliaia di suoi coetanei. La modestia nel comportamento e nel modo di vivere erano non solo un retaggio familiare, ma un comportamento anche indotto. L’Unione Sovietica degli anni ’50 aveva già innalzato la “cortina di ferro” con il mondo occidentale, una situazione che raggiunse i massimi livelli all’inizio degli anni ’60 e che si concluse molto lentamente solo con la sua dissoluzione del 1991. In un Paese enorme, che da est a ovest è ancora oggi attraversato da ben otto fusi orari (tra Roma e New York ce ne sono sei) nelle città si viveva quantomeno in una livellata povertà che nemmeno fu raggiunta nelle vastissime zone rurali. L’occidente era invaso dai dollari del Piano Marshall, dai film di Hollywood, dalla Coca Cola e dal Rock and Roll, un nuovo mondo da prendere a modello, nel bene e nel male, per dimenticare le rovine della guerra e raggiungere il benessere o quantomeno per poterlo solo sognare. L’Unione Sovietica fu tetragona verso tutto ciò, azzerando l’informazione che non fosse di regime e richiudendosi nei propri confini in cui cercare un miglioramento delle condizioni di vita generali che non avvenne mai, ma che abituò la popolazione a vivere convinta che quella fosse l’unica strada per il bene comune. In quelle condizioni anche per uno come Jašin il “lusso” era rappresentato dalle molte sigarette e da qualche bicchierino in più di Vodka. Si racconta che per ogni annata sportiva utilizzasse al massimo tre maglie da portiere, cambiandole solo quando erano talmente consumate da non essere più idonee all’uso.

Con la Dinamo Mosca vinse cinque Campionati nazionali e tre Coppe  dell’Unione sovietica; con  la Nazionale vinse l’Oro alle Olimpiadi di Melbourne nel ’56 e il Campionato Europeo del ’60 in Francia. Partecipò con l’Unione Sovietica a quattro Campionati del Mondo dove il miglior risultato fu il quarto posto nel ’66 in Inghilterra. La sua fama è maggiormente significativa se si considera che Jašin non poté  giocare in Coppa dei Campioni perché le squadre sovietiche dell’epoca iniziarono a parteciparvi solo nel 1966-67 con la Torpedo Mosca (la Dinamo Kiev nel ’65 era stata la prima squadra sovietica a partecipare ad una manifestazione UEFA, la Coppa delle Coppe). Perse così la più importante ribalta continentale, limitando le sue apparizioni in campo internazionale alle partite con la Nazionale e a quella giocata nel 1963 con la “Rappresentativa Resto del Mondo” contro l’Inghilterra a Wembley per il festeggiamento del centenario della Federazione Inglese.

Nel 2008, prendendo come titolo il primo modulo calcistico della storia, il 2-3-5 di Cambridge, Jonathan Wilson scrisse “La piramide rovesciata”, un libro sull’evoluzione del Calcio nel tempo attraverso i vari sistemi di gioco e le interpretazioni date dai grandi allenatori. Wilson diede anche la sua spiegazione di natura extra-sportiva sul perché Lev Jašin fosse diventato in patria una figura così emblematica, un mito, tant’è che i ragazzini volevano giocare in porta a dispetto del fatto che il portiere fosse considerato uno tecnicamente scarso per poter essere un giocatore di movimento. In Unione Sovietica il portiere godeva di una superiore considerazione perché essere l’estremo difensore rappresentava nell’immaginario collettivo l’ultimo baluardo della patria. Jašin rendeva ancora più iconica quest’ immagine che era un evidente frutto dalla retorica propagandistica di quel difficile momento storico.

Concluse la sua carriera nel 1971, a 41 anni,  con una partita d’addio giocata a Mosca tra la Nazionale Sovietica e una Rappresentativa della FIFA, davanti ai 103.000 fortunati spettatori in possesso del biglietto tra i circa settecentomila che l’avevano richiesto. Alla gloria che gli diedero i campi da gioco fece però da contraltare una sorte maligna che lo colpì duramente negli ultimi anni di vita. Per gli esiti di una tromboflebite, nel 1985 gli venne amputata una gamba e la notizia sconvolse l’intera nazione e non solo. La menomazione nel corpo non gli lese però lo spirito e nel 1988 accettò il ruolo di Accompagnatore della Nazionale di Calcio alle Olimpiadi di Seul dove i Sovietici vinsero la medaglia d’oro. Due anni dopo gli venne diagnosticato un cancro allo stomaco; furono inutili un intervento chirurgico e le cure successive. Ne aveva fatte tante di parate in carriera, ma quell’ultima non gli riuscì e il 20 marzo 1990 la malattia uccise l’Uomo Ragno; aveva da pochi mesi compiuto 60 anni.  

Anche il XXI secolo ha già visto giocare grandi portieri; tra quelli che non sono più in attività ricordiamo Gigi Buffon, Peter Cech, Edwin Van der Sar, Iker Casillas, Oliver Kahn, Julio Cesar, Josè René Higuita e José Luis Chilavert. Resta però ancora una distanza da colmare, quella che separa la grandezza dalla leggenda.

Autore

Nato a Napoli nella seconda metà degli anni cinquanta. Sportivo appassionato, calciatore in gioventù, dirigente sportivo di società del settore giovanile. Avvocato con molteplici hobby e scrittore a tempo perso, ha pubblicato due romanzi e una raccolta di racconti di Calcio.