Sullo sfondo, mentre non tanto tempo fa erano un orizzonte, si stagliano le figure di Serge Latouche, economista e filosofo e Domenico De Masi, sociologo; entrambi noti per l’etica del dono e la decrescita felice.
Con troppa facilità e tanto dolo entrambi sono stati rimossi dal linguaggio comune della comunicazione perché l’idea di una nuova dimensione della politica si è detta essere fuori dalla Storia. Laddove si preferisce conservare un pensiero che, accomunando Stati, partiti, chiese e istituzioni nei secoli sempre uguali a sé stessi si ottiene il controllo perenne e imperituro sulle popolazioni da governare, sottomettere, sfruttare anche.
Non piace porsi il problema del limite della democrazia, della gestione delle risorse limitate, dello sfruttamento delle masse nel lavoro alienante, etc.
Tutti i rapporti di forza devono restare immutati. E così il cittadino divenuto “consumatore” può trovare un futuro “attenzionato” ed in linea con i grandi interessi economici e finanziari nel mondo iper attrattivo dei “social”.
Un non luogo dove l’individualità non diventa mai comunità; dove l’iper individualismo si nutre di falsi modelli para societari che, al netto dell’uso strumentale dei servizi proposti tecnicamente, è causa di un declino morale e sociale, anzi antropologico.
Vi è una tendenza sociale dannosa e immutabile, quella di affrettarci a compiere sempre nuove realizzazioni e sempre nuovi traguardi che si propongono fittiziamente essere raggiungibili e quindi possibili.
Siamo investiti di una frenesia che ci impedisce di capire cosa ci costringe a fare, sempre di più la “società performante”, e non riusciamo a fermarci.
Maura Gancitano e Andrea Colamedici, autori de “La Società della Performance” spiegano: “La società della performance è una società che divora tutto, rende tutto commercializzabile. Questo significa che tutto può essere trasformato in un prodotto da vendere, e che il meccanismo centrale dello spettacolo, ossia la presenza da una parte degli attori e dall’altra degli spettatori, viene scardinato. La società della performance incanala la forza desiderante in un progetto, che per quanto fluido e variabile, raggiunge comunque il suo scopo ovvero l’espulsione di ogni esternalità che sia immediatamente performativa e quindi creatrice di valore monetizzabile.
I social propongono punti di riferimento irrealistici, costantemente elevati, con un carico sulle condizioni di lavoro e di realizzazione nelle performance altissimo e usurante, come temere un fallimento.
Difficoltà di gestire le proprie ansie, le aspettative e le ambizioni sono i frutti della società performativa.
Nessuno oggi ne è immune, grazie anche alla stampa e a chi gestisce la comunicazione globale.
L’individuo consumatore può morire per il fallimento di un progetto, un non esame superato, un mobbing sociale o per confronti con una realtà che lo schiaccia.
Non c’è spazio per la persona, per il tempo che occorre a crescere, per accettare i propri limiti e gioire della propria fragilità o diversità da una massa di impulsi e contatti visivi che alla fine ti annoiano, ti portano alla depressione ed alla malattia.
Qualche esempio? Quante volte abbiamo sentito di individui laureati a 23 anni in medicina, iperbravi che considerano il proprio tempo libero o il tempo per dormire, un tempo perduto……
Pensiamo alla nostra corsa ai like, il bisogno continuo di consensi e la ricerca ossessiva di esperienze instagrammabili o da trasformare immediatamente in materiale per riaffermare uno status, per essere sempre visibili e non farci dimenticare.
Afferma Valentina Aversano, attenta esperta di comunicazione digitale: “Non esiste più una differenza netta tra chi è famoso e chi non lo è: esistono soltanto infiniti livelli di popolarità. Oggi esistono soltanto performer. Esiste solo ciò che viene esibito.
Possiamo lavorare in qualunque posto, quindi lavoriamo sempre. Possiamo scegliere cosa acquistare, quindi siamo consumatori sempre insoddisfatti, e non riusciamo a resistere alla tentazione di possedere prodotti sempre nuovi. È un mondo di pura positività, in cui sembra tutto alla nostra portata, in cui non ci sono più padroni ma esistono delle idee che non possiamo mettere in dubbio: dobbiamo avere un progetto, dobbiamo ottimizzare il tempo, dobbiamo produrre contenuti, dobbiamo volere qualcosa, dobbiamo essere motivati, dobbiamo essere creativi. E se l’attuale ideologia positiva non fosse davvero migliore delle precedenti?
Riconoscersi in questa ansia perenne da prestazione non è mai però indolore.”
Certo, ci vuole coraggio, come voler uscire dalla dipendenza di una droga.
Sappiamo che anche il sesso, divenuto ormai voyeurismo, è divenuto macchina e strumento delle perversioni e delle immense frustrazioni (chi non ha un pene di almeno 20 cm è degno di vergogna, etc.).
E di coloro che non avendo raggiunto la laurea o comunque l’obiettivo sociale auspicato, si sono suicidati per la vergogna.
Quando si arriverà a capire che stavamo buttando via il tempo che abbiamo, correndo come criceti su una ruota che spesso porta al malessere psichico, non all’appagamento sociale ed esistenziale?
Afferma Giulia Di bella: “Tutti noi siamo intrappolati in un meccanismo autodistruttivo che continua a mietere vittime costantemente, ma a cui il più delle volte non riusciamo a sottrarci poiché noi ci sentiamo ancora in corsa verso la tanto agognata “meta”. E allora continuiamo a correre, ad affaticarci, terrorizzati all’idea di perdere proprio ciò che acuisce costantemente il nostro disagio; continuiamo a star male, quando forse dovremmo solo permetterci di dire basta, fermarci e chiederci se valga davvero la pena di procedere con un ritmo così forsennato, in tutti i campi della nostra vita, senza mai rallentare.”