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Nel calcio di oggi è normale vedere le squadre europee di club e le rispettive nazionali far giocare un gran numero di giocatori con origine africana (è capitato che la nazionale francese ne schierasse in campo addirittura 10 su 11). E’ la seconda o terza generazione di quei nuclei familiari che si sono stabiliti principalmente nei paesi europei che in Africa avevano avuto per secoli le loro colonie; molti grandi giocatori e qualche autentico fuoriclasse hanno quella provenienza. Ma fino agli anni ottanta del secolo scorso il calcio che contava era solo quello europeo e sud americano. Le squadre di club e quelle nazionali utilizzavano solo calciatori continentali, con un frequente approdo di sudamericani in squadre europee, a prescindere dal fenomeno “oriundi” che preesisteva già a cavallo delle due guerre mondiali. L’Africa calcistica era poco o nulla considerata, così come i suoi calciatori. D’altronde anche le partecipazioni alla fase finale dei Mondiali erano state molto limitate; se escludiamo l’episodio dell’Egitto nel 1934 legato a condizioni storiche troppo lontane nel tempo, iniziò il Marocco nel ’70, poi lo Zaire nel ‘74 per proseguire con Algeria e Camerun nelle due edizioni successive, ma senza risultati apprezzabili. Poi, grazie al forte e continuo flusso migratorio verso l’Europa, si iniziò a comprendere che l’Africa poteva essere una fonte illimitata di calciatori. Ed è proprio con l’inserimento massiccio di calciatori nei club europei e il conseguente innalzamento del livello di gioco che raggiunsero i quarti di finale del Mondiale il Camerun nel ’90, il Senegal nel 2002, il Ghana nel 2010 e il Marocco nel 2022.
Ma già nel dicembre 1960 un ragazzo era approdato in Portogallo provenendo da una sua coloniaafricana, il Mozambico; lo aveva tesserato il Benfica con un ingaggio equivalente agli attuali mille euro l’anno. Aveva diciott’anni, era timido, riservato e fervente religioso. Come la stragrande maggioranza dei grandi calciatori che hanno giocato nel secolo scorso, era nato povero in un paese che restò molto povero anche dopo l’indipendenza raggiunta nel 1975.
Eusébio da Silva Ferreira (Lourenco Marques, 25 gennaio 1942 – Lisbona, 5 gennaio 2014), per il calcio semplicemente Eusebio, la pantera nera come venne soprannominato. Tra club e nazionale in carriera segnò 625 gol in 636 partite ufficiali. Col Benfica vinse 11 titoli portoghesi, 5 coppe nazionali, la Coppa dei Campioni 1961-1962 e raggiunse in altre tre occasioni la finale. Fu il capocannoniere della Coppa Campioni nel 1965, nel 1966 e nel 1968. Vinse il titolo di miglior marcatore del campionato portoghese in sette occasioni (1964, 1965, 1966, 1967, 1968, 1970, 1973), record tutt’oggi imbattuto, ed è stato il primo calciatore a vincere la Scarpa d’oro, avendo vinto la prima edizione del trofeo nel 1968 con 43 gol in campionato per poi rivincerla nel ’73 con 40 gol. Con la nazionale del Portogallo segnò 41 gol in 64 partite e fu il capocannoniere alMondiale del 1966 con 9 reti. Vinse il Pallone d’oro nel 1965, arrivando al secondo posto in due occasioni (1962 e 1966). Occupa il 9° posto nella classifica dei migliori calciatori del XX secolo stilata dall’ IFFHS.
Era nato a Mafalala, un sobborgo tra i più poveri di Lourenço Marques (oggi Mapute) la capitale del Mozambico. Come la maggior parte dei suoi coetanei preferiva giocare a calcio piuttosto che frequentare la scuola. Ogni spiazzo di terra sterrata era buono per interminabili partite che i ragazzi giocavano scalzi e con improvvisati palloni fatti di stracci e carta di giornale; il grande sogno di quei ragazzi era quello di poter giocare con un pallone vero. La povertà della famiglia si accrebbe quando a otto anni restò orfano di padre, ma la passione per il calcio non venne meno, nonostante tutto. Iniziò a giocare in una squadra amatoriale chiamata Os Brasileiros (I Brasiliani), formata con i suoi amici in onore della nazionale brasiliana degli anni cinquanta; ma i palloni che usavano continuavano a essere fatti con stracci e giornali. Fu tesserato dallo Sporting Lourenço Marques e allenato dall’ex portiere Ugo Amoretti che aveva tra le altri giocato con Juventus, Genoa e Brescia e vantava anche sei convocazioni con la Nazionale allenata da Vittorio Pozzo. Amoretti comprese le qualità del ragazzo: eccellente tecnica individuale, tiro potente e preciso anche da lontano, gran fiuto del gol e un’incredibile velocità che, si narra, gli permetteva di correre i cento metri in undici secondi; lo propose, ma senza successo, al Juventus, Torino, Genoa e Sampdoria. Eusebio restò così allo Sporting e con la prima squadra vinse un campionato provinciale del Mozambico e un campionato distrettuale di Lourenço Marques segnando 77 reti in 42 partite. Erano comunque campionati con un’organizzazione raffazzonata, giocati su campi improvvisati, con le divise da gioco che erano di solito già usate e fatte recapitare dall’Europa e le scarpette bullonate che spesso erano sostituite da scalcagnate scarpe da passeggio comprate usate in qualche mercatino. Ma nel 1960 Eusebio venne visto dall’ex centrocampista della nazionale brasiliana Carlos Bauer che comprese di essere al cospetto di un fuoriclasse; ne parlò al suo ex allenatore del San Paolo, Béla Guttmann, allora alla guida del Benfica. Ed è così che Eusebio, allora diciottenne, si trasferì in Portogallo per giocare col Benfica dopo una lunga e complessa diatriba con l’altra squadra della capitale, lo Sporting Lisbona, che ne rivendicava il cartellino giacché in Mozambico lo Sporting Lourenço Marques era una sua affiliata. Nel primo anno Eusebio venne destinato dal Benfica alla squadra giovanile per potersi adattare al calcio professionistico europeo; per lui era un mondo completamente diverso non solo per il calcio, ma principalmente per un modello di vita così distante dalla povera esistenza nel suo paese natio. L’anno successivo fece l’esordio in prima squadra e da quel momento iniziò quel percorso leggendario che ne fece un idolo non solo per i tifosi portoghesi e per tutti coloro che amavano il calcio, ma soprattutto per la gente del suo continente d’origine che in lui vide il simbolo e la possibilità del riscatto. Restò al Benfica fino a giugno del 1975 dopo quindici anni di ininterrotta militanza e incetta di vittorie di squadra e personali.
Nel 1975 si trasferì negli Stati Uniti seguendo le orme di tanti campioni a fine carriera, primo dei quali Pelè che si era assunto in prima persona il compito di far diventare popolare negli States uno praticato ma poco seguito. Eusebio giocò per il Boston Minutemen e per il Toronto Metros-Croatia, squadra canadese che partecipa alla NASL con cui giocò 21 partite siglando 16 reti, rendendosi protagonista della finale contro il Minnesota Kicks durante la quale segna una delle reti nel 3-0 che consente ai Toronto di vincere il torneo. Due anni dopo ritornò in Portogallo per giocare, seppure molto limitatamente, col Beira-Mar. Ritornò ancora negli USA vestendo i colori dei Las Vegas Ouicksilvers e successivamente con i Buffalo Stallions. Dopo il definitivo ritiro, nel 1979, entrò a far parte del comitato tecnico della nazionale portoghese.
Devoto cattolico, nel 1965 si sposò con Flora Claudina Burheim con la quale restò fino per tutta la vita allietata da due figlie e numerosi nipoti. Già colpito da ictus nel giugno 2012, Eusébio morì il 5 gennaio 2014 a seguito di complicazioni cardiache. Il governo portoghese dichiarò tre giorni di lutto nazionale e Il 3 luglio le sue spoglie vennero traslate al Pantheon Nazionale, nel corso di una cerimonia durata cinque con discorso finale del presidente della Repubblica.
Nel 1992, in occasione del suo cinquantesimo compleanno, davanti allo Estadio da Luz, lo stadio del Benfica, venne posta una sua statua in bronzo ancora oggi omaggiata dai tifosi con sciarpe, maglie, foto e ricordi di ogni genere, a testimonianza di affetto e gratitudine verso quel ragazzo semplice venuto da una terra lontana. Sotto la statua c’è una targa con la scritta: “ A imperituro ricordo che fu un africano del Mozambico il miglior giocatore di tutta la storia del Portogallo: Eusebio, gambe lunghe, braccia cadenti, sguardo triste”.