• 10 Marzo 2025
Sport

A quelli che sono nati nel terzo millennio è difficile rendere appieno le condizioni di vita nel secolo scorso che, soprattutto fino agli anni ‘60, uniformavano la quasi totalità della popolazione. Una   dignitosa miseria livellava tutto e non faceva distinzione di nazione o di continente come abbiamo già raccontato nelle storie di grandi calciatori, ma non impediva di raggiungere comunque quei traguardi per i quali oggi sembra indispensabile anche il superfluo. E’ in tale contesto epocale che si sviluppa la storia di un grande del calcio, nato agli inizi del secolo scorso nel popolare quartiere di Porta Vittoria a Milano. Peppin, come veniva chiamato in dialetto, che da bambino giocava con i coetanei sugli spiazzi di Greco Milanese e di Porta Romana prendendo a calci una palla fatta di stracci, ma le cui doti già si intuivano. Aveva dodici anni quando venne preso tra i ragazzi della piccola società F.C. Gloria, e lì avvenne un fatto singolare, forse un presagio. Vedendolo giocare, un suo conoscente benestante intravide in lui qualcosa di speciale e gli regalò un paio di scarpette da calcio. Il ragazzo, orfano di padre, un ferroviere morto combattendo nella Grande Guerra, viveva con la madre in modestissime condizioni e quelle scarpette non avrebbe mai potuto permettersele e nemmeno sognarle. Le vendeva ad un prezzo esagerato, quello che bastava a una famiglia per campare un paio di mesi, un celebre negozio di articoli sportivi in Corso Venezia; ma un regalo così costoso e inaspettato non andò di certo sprecato.

Giuseppe Meazza,  detto il Balilla (Milano, 23-8-1910 – Lissone, 21-8-1979) è considerato da molti esperti il più grande calciatore italiano di tutti i tempi; occupa la 21ª posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo nell’omonima lista stilata dall’IFFHS. Ha legato la sua carriera all’Inter dove ha giocato per 14 stagioni, divenendone il miglior marcatore di sempre con 284 reti e conquistando in nerazzurro 3 titoli di campione d’Italia e una Coppa Italia , oltre a vincere per 3 volte il titolo capocannoniere sia del campionato italiano che della Coppa dell’Europa Centrale. Con la Nazionale italiana fu campione del mondo nel 1934 e nel 1938 e resta tuttora, con 33 reti, il secondo miglior marcatore della rappresentativa azzurra dietro al solo Gigi Riva con 35 reti. E’ stato il primo “idolo delle folle” del nostro calcio, un divo dentro e fuori dal campo, celebrato dalla stampa e osannato dai tifosi. L’undici maggio 1930 l’Italia sconfisse l’Ungheria a Budapest per 5 a 0 conquistando la prima Coppa Internazionale. Meazza segnò tre reti (Marinozzi e Costantino gli altri due marcatori) e quando la Nazionale rientrò in treno alla stazione di Milano c’erano oltre ventimila persone ad attendere soprattutto lui, Peppin il Balilla.

Fu Fulvio Bernardini a scoprirlo e portarlo a quattordici anni nelle giovanili dell’Inter (dal 1929 al 1940 denominata Ambrosiana-Inter) e fu ancora lui a insistere con l’allenatore della prima squadra, quell’Arpad Weisz che morì tragicamente nel campo di concentramento di Auschwitz, affinché lo inserisse nella rosa della prima squadra. Weisz andò a vederlo di persona e si rese conto che Bernardini non aveva esagerato; fu così che nel 1926, a sedici anni, Meazza fu aggregato in prima squadra e un anno dopo esordì nella Coppa Volta contro la US Milanese. In quell’occasione gli venne dato il soprannome di “Balilla” che gli resterà per sempre. Quando  nello spogliatoio Weisz lesse la formazione con Meazza in campo fin dal primo minuto uno dei giocatori anziani, Leopoldi Conti, esclamò sarcastico: «Adesso facciamo giocare anche i balilla!», riferendosi  all’Opera Nazionale Balilla che inquadrava tutti i bambini dagli 8 ai 14 anni. In quella partita Meazza segnò tre gol: era l’inizio di una grande carriera.

«Averlo in squadra significava partire dall’1-0.». Lo diceva Vittorio Pozzo, il Commissario Tecnico della Nazionale con cui vinse il Mondiale nel 1934 e nel 1938.

Gianni Brera scrisse di lui: «Grandi giocatori esistevano già al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario».

Pietro Rava, suo compagno in Nazionale, lo raccontava così: “Giocava in una maniera tutta sua, aveva tutto, compreso uno scatto sui 3-4 metri che bruciava qualsiasi difensore. Ma non era merito suo, perché era nato così; bello, simpatico e allegro, correva dietro a tutte le ragazze, e la notte, certe volte, fuggiva, così Pozzo lo controllava a vista. Aveva qualcosa di magnetico addosso, nei piedi come in quello sguardo che faceva fare la coda alle donne negli alberghi ad aspettarlo, e forse gli invidiavo più come sapeva colpire loro che il pallone”. Ma Peppino Meazza aveva anche un gran senso etico per il lavoro e l’assoluto rispetto per gli altri.

“Mi ha insegnato a comportarmi da calciatore. Una volta rimproverai un mio compagno. Mi disse, in dialetto lombardo: Uè pastina, io ho vinto due mondiali e non ho mai ripreso nessuno, che sia l’ultima volta!”. Lo raccontò in un intervista Sandro Mazzola, un altro campione e bandiera dell’Inter.

Aveva un tiro preciso e potente, una innata rapidità nei movimenti e la propensione al gioco in acrobazia. Una delle sue giocate preferite gli consentiva di andare in gol saltando anche il portiere per depositare la palla in rete; fu denominata “la rete alla Meazza”. Il 27 aprile 1930 segnò così tre dei suoi quattro gol contro la Roma che aveva in porta Ballanti; finì 6 a 0 per l’Inter che a fine campionato vinse il suo terzo scudetto.

In Nazionale lasciò un segno indelebile. Con la maglia azzurra esordì diciannovenne il 9 febbraio 1930 a Roma nell’amichevole Italia-Svizzera terminata 4-2 con due sue reti. L’11 maggio dello stesso anno fu il protagonista indiscusso di in una delle giornate più gloriose del calcio italiano, la prima di una lunga serie. Segnò tre gol nella partita che l’Italia giocò a Budapest contro l’Ungheria vincendo 5-0, in quella che di fatto fu la finale della prima Coppa Internazionale; il fuoriclasse di Porta Vittoria entrò di diritto nel novero delle grandi stelle del calcio continentale. Quella partita in Italia fu seguita alla radio da un numero record di ascoltatori e una folla oceanica alla stazione di Milano accolse i vincitori; rappresentò soprattutto il punto di svolta per la Nazionale guidata da Vittorio Pozzo che in quel decennio vincerà due mondiali, un olimpiade e un’altra coppa internazionale. Peppino Meazza diventerà l’eroe di tutti gli sportivi italiani al pari di Alfredo Binda e Primo Carnera.

Nel Campionato del Mondo giocato in Italia e vinto nel 1934 segnò 4 reti. Il 14 novembre di quell’anno i neo campioni del mondo giocarono in amichevole contro l’Inghilterra in quella che venne definita la battaglia di Highbury dal nome dello stadio di Londra in cui fu giocata. Gli inglesi, che si autodefinivano i “maestri”, non disputavano la coppa del mondo perché se nearrogavano il titolo ad honorem in qualità di “inventori del calcio” (parteciparono la prima volta ai mondiali nel 1950 perdendo per 1 a 0 dai dilettanti degli Stati Uniti!). L’Italia subì nei primi 3 reti nei primi 12 minuti e restò in dieci (all’epoca non c’erano le sostituzioni) per l’infortunio di Luisito Monti; ma nella ripresa Meazza segnò due reti e lasciò il suo segno nel tempio del calcio in quella più che onorevole sconfitta per 3-2. Il 9 dicembre 1934, contro l’Ungheria, Meazza segnò il gol numero 25 con la maglia azzurra affiancando Adolfo Baloncieri in vetta alla classifica marcatori della nazionale. Nella partita seguente contro la Francia, del 17 febbraio 1935, fece altri 2 gol che gli consentirono di salire al comando della classifica. Al Mondiale del 1938 in Francia fu il capitano degli azzurri e giocò da centrocampista, lasciando a Silvio Piola il ruolo di centravanti. Il 16 giugno, a Marsiglia, nella semifinale contro il Brasile segnò il suo gol numero 33, l’ultimo in nazionale: il calcio di rigore del 2 a 1 passato alla storia perché a causa della rottura dell’elastico dei pantaloncini tirò tenendoli su con una mano!

Il campionato 1938-39 segnò l’inizio del suo declino a causa di un serio infortunio, un’occlusione dei vasi sanguigni al piede sinistro che lo tenne lontano dai terreni di gioco per oltre un anno. Nell’autunno 1940 tornò a giocare, stavolta con la maglia del Milano,  ma le conseguenze dell’infortunio lo limitarono in maniera sin troppo evidente. Poi subentrò la guerra e le difficoltà si sommarono anche all’età che avanzava. Giocò il campionato 1942-43 con la Juventus segnando 10 reti in 27 partite; l’anno successivo nel cosiddetto “campionato di guerra” giocò tra le file del Varese segnando 7 gol in 20 partite. L’ultima stagione, com’era giusto che fosse, la giocò con la maglia della sua Inter segnando l’ultimo gol contro la Triestina il 13 aprile 1947.

Morì all’età di 68 anni a Lissone, in seguito a un tumore al pancreas aggravato da problemi cardiocircolatori. Dal 1980 porta il suo nome uno dei palcoscenici calcistici più importanti al mondo, lo Stadio di San Siro in Milano; un giusto riconoscimento in memoria del primo grande goleador del nostro calcio.

Autore

Nato a Napoli nella seconda metà degli anni cinquanta. Sportivo appassionato, calciatore in gioventù, dirigente sportivo di società del settore giovanile. Avvocato con molteplici hobby e scrittore a tempo perso, ha pubblicato due romanzi e una raccolta di racconti di Calcio.